di Andrea Sartori
Le righe che seguono sono un estratto del capitolo IX d’un manoscritto in via di perfezionamento, provvisoriamente intitolato Assaliti dalle mille luci del cielo. La cultura della percezione. In questo manoscritto viene messa a fuoco quella che può essere chiamata «cultura della percezione», la quale sembra avere attecchito innanzitutto, ma non solo, nella società marcatamente identitaria degli Stati Uniti. L’idea è che tra la percezione e la sua industria (Hollywood, la Silicon Valley) da un lato e la realtà dall’altro, si sia allargato il pertugio della follia, dello scollamento dal reale. Questa ‘diagnosi’ è sempre più spesso impiegata per indicare il razzismo, l’uso disinvolto e criminale delle armi, il clima diffuso d’incertezza e d’insicurezza, la polarizzazione esasperata del dibattito politico, il ricorso sistematico alla menzogna nell’informazione, persino alcuni aspetti delle discussioni accademiche. Tale follia e le sue origini culturali possono essere interrogate nello specchio della cultura europea, in particolare in quello della Mitteleuropa d’inizio ‘900. Non è detto, infatti, che gli Stati Uniti di oggi ci forniscano solamente un’indicazione di quel che accadrà presto al di qua dell’Atlantico, come spesso si sostiene. Forse vale anche il contrario, e alcuni temi della filosofia, della letteratura e della sociologia del ‘vecchio’ continente – inclusa l’Italia – sono utili per capire le dinamiche dell’odierna way of life a stelle e strisce.
Lo scenario multiculturale è uno scenario di buoni propositi e inevitabilmente, stante il modo in cui è pensato, di dolorosi conflitti. La società americana, a dispetto di tutta la cura riposta in un linguaggio politically correct che non urti la suscettibilità e le percezioni degli altri, è sempre più polarizzata. Dal documentario The Social Dilemma (2020) emerge una riflessione che forse tocca il nervo della questione. Abituati come siamo, ormai, a ragionare in termini di likes e cuoricini, ci stiamo assestando su di una visione del mondo nella quale vale solo l’alternativa (anti-dialettica e anti-relazionale) tra il mi piace e il non mi piace, tra l’amore e l’odio.
Come ricorda Detlev Claussen, quello del like and dislike è un vero e proprio ambito degli studi di mercato in voga perlomeno dagli anni ’30, quando l’industria americana iniziò a pensare a come indirizzare, all’epoca in maniera piuttosto rozza e primitiva, i gusti dei consumatori.[1] Questa forma di manicheismo tra un sì e un no senza troppe cerimonie, è oggi implementata dall’intelligent design sui social networks e diventa di giorno in giorno un habitus, un filtro sempre più aderente agli occhi che interpretano il mondo intero e le relazioni sociali sub specie producti commercialis: una maschera, una seconda pelle. D’altra parte, il design così inteso sorvola sugli aspetti non semplicemente bianchi e non semplicemente neri della realtà, ed è progettato per essere addictive, per determinare il nostro comportamento ed esonerarci dalla fatica del pensare, di vedere l’intreccio grigio dei fili bianchi e neri […].
La disgregazione e la frammentazione sono il punto oscuro di quel multiculturalismo che s’appella innanzitutto alle percezioni degli individui e meno alla loro riflessività, limitando la trasformazione delle condizioni materiali di vita. Può avere senso, allora, porre la situazione odierna a confronto con un altro momento storico in cui s’è manifestata un’«ostilità atmosferica», un’«associazione» tra gli esseri umani la cui cifra più profonda era la «dissociazione»,[2] per dirla con il Musil de L’uomo senza qualità.
La crisi all’inizio del XX secolo della difficile unità dell’Impero Austro-Ungarico, ha infatti segnato in Europa il passaggio da un’armonia di compromesso a un’esplosione identitaria. Tale dinamica periodicamente si ripropone quando, anche sulla spinta dello sviluppo tecno-scientifico, le cose sembrano ‘non stare più al loro posto’, e s’infrange la compattezza d’una rassicurante totalità sociale, politica e culturale a lungo data per scontata. In contesti simili, appare completamente ‘naturale’, poniamo, che un impiegato si trasformi in uno scarafaggio, come ha scritto Kafka.
Si pensi, per citare solo due casi, a quel che accadde all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica, ma anche alla fine della Jugoslavia lasciata in eredità da Josip Broz Tito. Nel caso dell’Austro-Ungheria, su cui si sono soffermati in Italia tra gli altri Claudio Magris e Massimo Cacciari, e negli Stati Uniti Thomas Harrison, l’‘esplosione’ ha coinciso con un momento di straordinaria creatività intellettuale e artistica.[3] Non si è trattato, quindi, di sola decadenza. Lo stesso si può dire per gli ultimi, rapidissimi anni della cultura americana, in cui la creatività d’un numero ristretto d’individui perlopiù giovani e al lavoro in California ha modificato nel bene e nel male la quotidianità di miliardi di persone.
La crisi da cui procede l’analisi di Magris nel suo libro L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna (1984), è quella segnalata da Nietzsche nel Caso Wagner (1888).[4] In questo testo Nietzsche scrive che la vita non dimora più nella totalità, in un Tutto organico e concluso (ovvero nel «grande stile»). Nietzsche, in realtà, osserva Magris, riprende una nota del francese Paul Bourget (Essais de psychologie contemporaine, 1883),[5] il che testimonia come alla fine del XIX secolo l’«ostilità atmosferica» e il senso di dissociazione di cui Musil avrebbe scritto alcuni anni più tardi, non fossero un episodio circoscritto ai Paesi di lingua tedesca.
Musil, dunque, nei suoi Diari (1899-1941),[6] si rifà all’idea nicciana della totalità infranta e fuori dai cardini, un’idea che permea di sé anche e soprattutto la sua opera incompiuta L’uomo senza qualità, alla quale l’autore (nato nel 1880) attese praticamente per tutta la vita, dal 1898 al 1942, anno della sua morte.
Quel che ha rilevanza ai fini d’una comparazione con l’oggi, è che la frammentazione d’un Tutto presuntivamente organico ha implicato per l’Austro-Ungheria una proliferazione identitaria senza centro e, al tempo stesso, una condizione di smarrimento, un andare a tentoni e in lungo e in largo tra significati che non si legavano più gli uni con gli altri: una condizione che costeggiava la follia, e la cui dissociazione pertanto non era solo politica ma anche mentale.
Musil descrive l’abitante della totalità infranta enumerandone i molteplici «caratteri»,[7] ovvero le molteplici identità che il Tutto organico, a mano a mano che progredisce il disincantamento statistico, non tiene più insieme e lascia quindi sospese sul vuoto che si apre dopo la scomparsa della tramontata armonia. L’abitante di un Paese, scrive Musil, ha almeno nove caratteri:
carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio, e forse anche carattere privato; li riunisce tutti in sé, ma essi scompongono lui, ed egli non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli, che v’entrano dentro e poi tornano a sgorgarne fuori per riempire assieme ad altri ruscelletti una conca nuova.[8]
Musil enumera le identità d’un individuo che è intimamente diviso da un ampio repertorio d’opposizioni. Queste ultime riguardano la nazione («carattere nazionale»), la condizione economico-sociale («carattere di classe»), l’identità di genere («carattere sessuale»), il regionalismo territoriale («carattere geografico»), le aree della psiche rivelate dalla psicanalisi («carattere conscio» e «inconscio»), l’appartenenza di stato («carattere statale»), quella professionale («carattere professionale»), e le dimensioni della vita privata («carattere privato», se mai esiste ancora qualcosa di privato).
L’autore de L’uomo senza qualità dà quindi voce allo smarrimento che si prova innanzi alla scoperta d’essere una «conca» vuota, un ricettacolo di molteplici qualità o identità che […] sembrano non avere un ubi consistam.
Musil elenca l’identità di status socio-economico, di genere, e in generale le identità culturali (la nazione, lo stato, l’ambito geografico) che, essendo poste ciascuna sullo stesso piano senza un orizzonte che le abbracci tutte, già alludono all’intersectionality priva d’un elemento di sintesi che caratterizza negli Stati Uniti le riflessioni di metodo dei Cultural Studies.
Al multiculturalismo si pone infatti lo stesso problema che si poneva a Musil all’epoca del disfacimento dell’Austro-Ungheria: le differenze, una volta liberate dal giogo che le assoggetta – un potere centrale autoritario, i tradizionali rapporti di forza internazionali – rivelano con la complicità dei progressi della scienza e della tecnologia la complessità del reale. Al tempo stesso, tuttavia, le differenze hanno di nuovo bisogno di comunicare tra loro, di non isolarsi nell’indifferenza o nell’ostilità reciproca, ovvero nel dogmatismo delle proprie identità e delle proprie percezioni della realtà.
Nel caso di Musil, come vedremo, questo difficile momento di sintesi si chiama saggismo. Il saggismo è per l’autore de L’uomo senza qualità un abito del pensiero e un modo di vivere che si conseguono allorché ci si decide per l’abbandono dell’incanto delle percezioni e si scopre la natura ipotetica e possibilista del reale. Questa scoperta, per Musil, non comporta il rifiuto dell’esattezza scientifica a favore d’un presunto ‘autenticismo’ dell’anima. Il paradosso o l’utopia dell’uomo senza qualità è che, quanto più la verità dell’essere umano è distolta dalla quantificazione della sua vita, dalla sua scomposizione in dati apparentemente certi e inconfutabili, tanto più occorre precisione per pensare e ‘dire’ l’indeterminato. Infatti Musil, da studioso del convenzionalismo di Mach in campo scientifico, non rifiuta la scienza e la tecnologia moderne – non è un tecno-fobo, diremmo oggi – ma le accoglie nella loro dimensione propria. Tale dimensione è quella del fallibilismo, d’un saggiare o testare sperimentalmente la complessità del reale per prove, errori e cambiamenti di prospettiva, senza convertire la scienza in un nuovo Assoluto e i mezzi tecnologici in un motivo d’alienazione, di perdita di sé tra i veli dell’irrealtà. Quello di Musil (e di Ulrich, l’uomo senza qualità) è un pensiero dell’esperienza che non s’arresta alla superficie delle percezioni e non ‘feticizza’ i dati esatti della scienza, avendo di mira il nucleo profondo dell’esperienza umana.
Il saggismo è un sapere esperienziale e di sintesi che Musil escogita per far fronte alla disgregazione vissuta dall’Europa alla vigilia della prima guerra mondiale e oltre. Magris nota che questo «particolarismo delle diversità irrelate e sconnesse che si elidono a vicenda»,[9] è denominato da Musil «delirio di molti».[10] La Grande Guerra non fa che portare a compimento questo delirio, di cui Musil coglie l’aspetto strettamente clinico-psichiatrico. In un appunto dell’agosto 1914 (l’attentato di Sarajevo risale al 28 giugno), Musil registra il comportamento scomposto d’un uomo per la strada, le sue grida immotivate, il suo agitare minacciosamente il bastone da passeggio, e commenta: «gli psicotici sono nel loro elemento, si sfogano».[11] Non diversamente vanno le cose tra i commilitoni all’interno delle caserme (Musil stesso si arruola in agosto e presta servizio dall’inizio del febbraio 1915 sul fronte tirolese): «si ha la sensazione che se non si sta bene attenti si scagliano tutti gli uni addosso agli altri».[12] È poi eloquente sul piano filosofico e sintomatico su quello psicologico, che Musil per far fronte al caos e alla follia ormai innescati, nelle notazioni del suo Diario immediatamente successive allo scoppio del conflitto, dia ampio spazio alla precisione, alla componente esatta del suo saggismo, ovvero a lunghe riflessioni sui numeri complessi e alla loro rappresentazione trigonometrica.[13] La matematizzazione della complessità è per Musil un habitus del pensiero che serve a far fronte, innanzitutto sul piano personale, a un caos che rischia d’essere ingovernabile e pericoloso per la stessa salute mentale, oltre che per la coesione politica.
Tra gli intellettuali della finis Austriae, quello che forse per primo ha espresso il disorientamento e il delirio d’una intera forma di vita, è stato Hugo von Hofmannstahl con la sua Lettera di Lord Chandos (pubblicata nel 1902 su Der Tag). Nella lettera immaginaria che il giovane Chandos scrive al suo vecchio mentore, Francis Bacon, Hofmannstahl dà voce alla scoperta dell’inaffidabilità del linguaggio e del suo sfarinarsi. Paradossalmente, non potendo più appoggiarsi alla corrispondenza tra i segni verbali e le cose (poiché queste ultime ‘non stanno più al loro posto’), Lord Chandos cerca di dire con «parole inadeguate» delle sfuggenti epifanie di senso, il cui significato più profondo è però «indefinito e indefinibile».[14] In questo modo, come osserva Magris e come Musil ribadirà con il terribile e indimenticabile personaggio di Moosbrugger ne L’uomo senza qualità, Chandos è preda delle proprie percezioni immediate e di superficie, d’un universo reale e mentale in cui non v’è spazio per un ragionato cambio di prospettive, ovvero per un pensiero saldato a terra. Così scrive Magris:
l’impossibile rappresentazione linguistica cede il passo alla presentazione della vita, non linguistica ma percettiva: le cose significano con vivezza immediata e si presentano come un tutto, intuito globalmente prima delle parti che lo costituiscono, ignaro delle dualità del linguaggio, che dai segni rimanda alle cose per le quali essi stanno.[15]
La vita è ridotta a percezione della vita, come se oltre il percepirla – ovvero extra mentem – non vi fosse nulla. La realtà esterna dilegua, l’essere s’esaurisce nel percipĕre e le cose, non essendo più distinguibili dai segni delle cose – le quali fanno tutt’uno con la percezione – sono catturate in un linguaggio che pulsa, vibra e brucia al limite dell’inesprimibilità. La parola di Lord Chandos, in altri termini, non fa segno verso la cosa, così che l’una e l’altra finiscono per offrirsi a una percettività indifesa. Quest’ultima non tiene a una salutare distanza di sicurezza il mondo, anzi, si fa assalire proprio dal mondo e dalle sue indistinguibili e incontrollate percezioni. Ogni percezione vale un’altra, in un eterno spettacolo sensazionalistico che sembra preannunciare il nostro presente […].
La cifra di questo spettacolo in cui tutto si equivale perché tutto è ugualmente sacro e definitivo, ovvero irrimediabilmente dato, è la vorticosa compresenza di istanti eccezionali, di percetti assoluti e simultanei. Questi ultimi, in quanto assoluti e simultanei, sembrano presagire la contrazione del tempo e dello spazio della nostra società interconnessa, globale e ansiosa, nella quale tutto, senza distinzione di significato e senza alcun criterio, viene offerto allo stesso modo all’audience, nello spregio di qualunque categoria di realtà. Tutte le qualità, le idee e i dati stanno, nell’analisi di Magris, gli uni accanto agli altri (neben ein ander), proprio come le proprietà nella Ding («cosa-oggetto») della percezione di cui parlava Hegel nella Fenomenologia dello spirito (1807). Magris, in un certo senso, radicalizza la posizione di Hegel e trasforma l’espressione avverbiale neben ein ander in un sostantivo: Nebeneinander. L’altro (das Andere) è percepito e ritenuto reale nella sola relazione indifferente dello stare accanto, in maniera irrelata: è appunto l’altro-che-sta-accanto, das Nebeneinandere, un po’ come le immagini tra loro scombinate, e rispondenti solo ai riflessi condizionati di chi clicca, che si ritrovano nei feeds di Instagram […].
Analoghe riflessioni che ricordano la temperie culturale in cui è vissuto Hofmannstahl, sono quelle svolte da Peter Carravetta poco più di dieci anni fa con la sua cartografia del postmoderno, pensando all’America venuta dopo l’11/9: gli Stati Uniti si sono trasformati in una società le cui idee, istituzioni e flussi di potere sono inondati da maree di segni e segnali atomizzati e schizofrenici, in cui l’immagine e la rappresentazione dei fatti predominano su testo e/o contenuto e ciò che viene rappresentato, in quanto la quasi generale simultaneità degli eventi e della comunicazione appare come raggiunta e la parola «virtuale» non è più una metafora.[16]
Lo stare accanto a qualcuno di cui non si comprende la lingua, che non si conosce o non si vuol conoscere, che non si accetta e al quale in nessun modo ci si adatta, può condurre alla follia. Ne L’uomo senza qualità, il personaggio di Moosbrugger è la perfetta incarnazione di questa follia, e del suo rapporto con una visione della vita che non si stacca da un isolamento e una prigione fatti di null’altro che percezioni. La differenza tra il Lord Chandos di Hofmannstahl e il Moosbrugger di Musil è che il primo è un poeta, mente il secondo è un assassino. Chandos, nel suo tentativo di reperire dei significati, non abbandona la poesia, anzi, è proprio tramite le parole insufficienti della poesia che egli attinge una dimensione, malinconica e perduta, del senso. Moosbrugger, invece, non ricava poesia dal suo incanto per le parole, ma solo malattia. Egli, nel difficile equilibrio tra anima ed esattezza, rappresenta le estreme conseguenze di quel che può accadere quando si brucia la vita senza alcuna misura. Chandos e Moosbrugger, se messi a confronto, ci dicono che la linea di separazione fra arte e crimine può essere sottile. Come afferma Ismaele, il narratore di Moby Dick (1851) di Herman Melville, «c’è una saggezza che è dolore, ma c’è un dolore che è [solo] pazzia».[17]
Moosbrugger vive di sole percezioni, per lui l’esse è, letteralmente, null’altro che percipi. Di conseguenza, per Moosbrugger il linguaggio e le parole non rinviano alle cose, ma sono le cose stesse, in una sorta di realismo psicotico o magico che non lascia spazio di manovra al pensiero critico. Quest’ultimo non tiene a distanza le cose per comprenderle attraverso dei segni linguistici tra loro distinti, ma s’identifica con esse nell’unità della percezione. Le allucinazioni di Moosbrugger sono per lui tanto seducenti e condizionanti quanto le fantasmagorie dell’harmonium del piccolo Hanno dei Buddenbrook (1901) di Thomas Mann, sebbene dell’harmonium non abbiano le maniglie di metallo né i mantici colorati.
La vividezza allucinata delle percezioni porta Moosbrugger a fare esperienza di un eccesso di senso, nel quale nulla sta al suo posto («quei periodi erano tutto senso!»).[18] Egli è assalito da percezioni che provengono da tutte le parti, senza ordine e direzione […].
Moosbrugger ha l’impressione di portare in sé, nel proprio corpo, i rumori e le voci del mondo, egli crede d’essere abitato da un’estraneità […]. Quando quest’estraneità esce dal suo corpo, essa si nasconde da qualche parte vicino a lui, in agguato. Le voci, i richiami e i rumori iniziano quindi a ingiuriarlo e a criticarlo, a manifestargli un tratto di quell’«ostilità atmosferica» che Musil vede annidata nella crisi politica e culturale dell’Austro-Ungheria, e che esploderà con la prima guerra mondiale. Moosbrugger personifica quest’ostilità nei suoi pensieri, nel modo in cui percepisce il suo corpo, e nelle sue percezioni uditive – percezioni nemiche, cattive, persecutorie. Queste percezioni anticipano quel che egli vuole dire, esondano fuori di lui sottoforma di allucinazioni per contraddirlo con perfidia. Internato in manicomio, l’assassino di Hediwg è «perseguitato da spiriti»,[19] come se nella sua mente vivesse la contrapposizione tra le due identità dell’Impero, quella austriaca e quella ungherese, sullo sfondo delle molteplici identità slave, e non solo, di cui l’Impero stesso si (s)compone. Tali identità sono tra loro in lotta, si perseguitano a vicenda, e le allucinazioni di Moosbrugger ci raccontano – nel campo di battaglia della sua mente – di questo conflitto insanabile.
La follia di Moosbrugger non prende congedo, propriamente, dal pensiero, infatti «nei suoi grandi periodi […] pensava soltanto».[20] Il fatto è che egli pensa di dentro e di fuori, scambiando i suoi pensieri e le sue parole con la realtà extra mentem. La molteplicità del reale non ha per lui direzione, quel che si dice in un modo, in una certa cultura, può essere arbitrariamente tradotto, traslato, riformulato in un altro modo, secondo un altro linguaggio scelto a caso […].
Il delirio di Moosbrugger non è semplicemente una forma di cecità nei confronti del reale. Egli vede, e pure troppo: dietro una montagna, sullo sfondo dell’infinito ch’è presente in un sol colpo ai suoi occhi, vede un’altra montagna e poi un’altra ancora. Le sue percezioni sono iper-sollecitate. Moosbrugger rinnova costantemente, con le sue percezioni, il superamento del limite che renderebbe il mondo sopportabile. Nel fare ciò egli persegue, in maniera sistematicamente distorta e tragicamente inesatta, una sua idea di totalità interconnessa che compensi lo smarrimento della sua mente e, più in generale, della sua epoca storica. Poiché nella cultura del luogo in cui si trova, «scoiattolo» si dice «gatto della quercia» e in Assia «volpe degli alberi», lo scoiattolo per lui è anche gatto, e anche volpe. Le parole e i contenuti delle sue percezioni stanno follemente gli uni accanto agli altri, nel tentativo fallimentare di ricomporre il Tutto: tutto è interdipendente, nella gabbia delle percezioni scomposte di Moosbrugger. Hedwig non è bella come una rosa – l’analogia o la metafora traccerebbero una scissione, una differenza, nella compattezza del Tutto – Hedwig è invece una rosa, e siccome alle rose belle si recide il gambo con un coltello per portarsele via, Moosbrugger recide con un coltello la vita di Hedwig.
In due dei tre fogli volanti inseriti nel Quaderno 11 dei propri Diari (1899-1941), Musil fissa degli appunti forse risalenti al 1905 e riguardanti le sue ipotetiche sperimentazioni con la cocaina. Queste poche note gettano una luce impassibilmente cruda e vera sulla complicità della cultura della percezione con l’uso delle sostanze stupefacenti, e registrano degli effetti a cui Musil con verosimiglianza attingerà per descrivere la psicosi di Moosbrugger ne L’uomo senza qualità. «Deliri», «allucinazioni», «voci», «mania di persecuzione», «facile fuga di idee», «sogni ricchi di colori», «suggestibilità» sono infatti le espressioni che Musil associa alla «maggiore capacità di produrre» – ovvero all’impressione d’essere più performanti – indotta dalla cocaina (oggi, in una società hypercompetitve come quella americana, lo stesso effetto è talvolta conseguito abusando d’un farmaco a base d’anfetamine, l’Adderall).[21] L’eccesso artificiale delle percezioni, nota tuttavia Musil, anziché rendere più produttivi e più certi della trama del reale, porta in conclusione all’«irrealtà delle percezioni»,[22] vale a dire alla perdita d’ogni misura del vero, e questo proprio in ragione dell’immotivata esaltazione del senso della vista, ma anche dell’udito e del tatto.
Ulrich, l’uomo senza qualità […], è inizialmente affascinato da Moosbrugger, come forse Musil è stato inizialmente intrigato dagli effetti della cocaina. Moosbrugger, al pari di chi è sotto l’influenza della droga, non quantifica accortamente quel che vede e sente, e per lui quattordici più quattordici non dà un numero preciso, ma un range indeterminato di numeri che non hanno nulla dell’inoppugnabilità analitica delle verità matematiche.
Tuttavia, a Ulrich si pone lo stesso problema che si pongono gli psichiatri e i giudici: Moosbrugger è responsabile, e dunque colpevole e sanzionabile per il suo comportamento? A un certo punto Ulrich decide che Moosbrugger è colpevole, e questa decisione instrada la vita di Ulrich sul binario della responsabilità, determinando l’accantonamento di fascinazioni e perplessità. Ulrich, infatti, prende la decisione di dare alla propria vita la forma del saggio (del saggismo come pratica e filosofia di vita). Le parole di Ismaele, il sopravvissuto del Pequod che ne racconta la catastrofe, potrebbero essere ora anche quelle di Ulrich:
non ignorando ciò che è bene, sono svelto nel percepire un orrore, e tuttavia, se mi è concesso, non me ne ritraggo. Perché non è che bene saper essere amico di tutti gli ospiti del posto in cui si abita.[23]
Il «saggismo» – Harrison sostiene che Musil potrebbe avere in mente l’articolo di György Lukács Essenza e forma del saggio (1910)[24] – non è per Ulrich e lo stesso Musil solamente una forma letteraria. Il saggismo è un rapporto con l’esperienza, è «prova» e «tentativo» con cui l’esperienza è saggiata.[25] Esso non è una convinzione passeggera che un giorno può essere smentita, al pari d’una percezione fuggevole, è invece compresenza di anima ed esattezza, ovvero di un equilibrio che il criminale e il commissario di polizia – da prospettive opposte e speculari – rifiutano: il commissario attendendosi alla presunta esattezza del disincantamento statistico dettato dal sospetto, Moosbrugger dando retta alle incontrollate percezioni della sua anima. Come scrive Musil: «un saggio è il definitivo e immutabile aspetto che la vita interiore di una persona assume in un pensiero decisivo».[26] Un «saggio» è quindi, innanzitutto, una disposizione non arbitraria dell’interiorità, è un modo di pensare decisivo con cui si accostano l’esperienza e la molteplicità delle prospettive – dei modi di saggiare l’esperienza – che l’esperienza stessa dischiude. Il saggismo è il tentativo di pensare in maniera esatta le percezioni, senza fare dell’esattezza del pensiero una prigione in cui ingabbiare le qualità irrelate degli esseri umani, le proprietà e le identità visibili del mondo e della cultura. Il saggismo è così pensiero critico.
Secondo l’unilateralità della cultura della percezione diffusa nella nostra società interconnessa e sospettosa, il pensiero critico sfocia invece, a volte, in una caricatura – anche pericolosa – di sé stesso. È il caso di chi pensa che Trump sia l’autentico critico del sistema, spesso indulgendo a una visione cospirativa della realtà. La conspiracy theory, nelle sue varie e imprevedibili forme, è la caricatura della critical theory, benché rivendichi a sé, immancabilmente, una realtà più reale del vero. Per pensare criticamente, non basta diffidare di quel che appare: non è sufficiente dire che la percezione della realtà non è la realtà, e far entrare nella fessura che si apre tra soggetto e oggetto qualunque contenuto e idea, magari sull’onda d’una congettura sensazionalistica, a sua volta presa nella fascinazione per le percezioni o le rivelazioni istantanee, per le improvvise epifanie del senso su cui i mass media e i socialnetwork non di rado speculano […].
Tutto ciò crea i noti cortocircuiti tra la fiction e la non-fiction della vita, ma non è una buona ragione per abbandonare il pensiero a un forsennato prospettivismo, dimentico del fatto che la realtà si può testare, provare nel senso del saggismo di Urlich, senza ignorare ciò che è bene.
Moosbrugger, a un certo punto della sua vita, inizia invece a ignorare il bene, e Musil ce ne fornisce chiaramente la ragione – una ragione quantomai radicata nella realtà. Ne L’uomo senza qualità, è infatti individuato con esattezza il momento in cui la realtà assume per Moosbrugger le linee persecutorie che lo condurranno al delirio e al crimine. In questi brani del suo romanzo-saggio, Musil esercita uno sguardo a mezza via tra quello del sociologo e quello dello psicanalista o psichiatra.
Moosbrugger lavorava. Egli era un falegname, ed è stato sul luogo di lavoro che, sin da ragazzo, Moosbrugger ha fatto esperienza di sopraffazioni e vessazioni – subite e inferte – senza avere l’educazione necessaria che gli avrebbe consentito di navigare tra le durezze delle diseguaglianze di classe e delle distorsioni nei rapporti sociali. «Tutta la sua vita era una lotta», scrive Musil, perché «da ragazzo aveva rotto le dita a un padrone che lo voleva picchiare».[27] Più in là negli anni, una volta aveva tardato troppo, e quattro muratori che lavoravano in un quartiere, per fargli sentire la loro superiorità, complottarono di buttarlo già dall’impalcatura più alta; egli li sentiva già ridacchiare dietro le sue spalle e strisciare verso di lui, allora si gettò su di loro con tutta la sua forza smisurata, fece volar due piani a uno, e ad altri due tagliò tutti i tendini del braccio.[28]
Musil identifica pertanto, tra i vari caratteri in cui si scompone l’essere umano della Kakania, il «carattere di classe» come quello a cui si deve, in una prospettiva sociologica, l’origine della follia di Moosbrugger, il suo essere in lotta contro tutti, il suo sentirsi costantemente perseguitato. Il padrone della falegnameria lo voleva picchiare e lui ha reagito, quattro muratori volevano mostrargli la loro superiorità buttandolo già da un’impalcatura e lui li ha anticipati. Sono la subalternità di classe e il logoramento delle relazioni sul luogo di lavoro, tra povertà e ignoranza, a rappresentare il vissuto traumatico dal quale sorge un bisogno di difesa che diviene subito bisogno d’attacco: persecuzione e violenza. In questo milieu sociale, germinano la follia di Moosbrugger e il suo dipendere da una violenza percepita sempre più intensamente, i quali sono lo specchio della scissione di un’epoca e di una cultura che lo sovrastano: «nello stesso rapporto reciproco si trovavano i cacanesi e si consideravano l’un l’altro col timor panico di membri che, viribus unitis, s’impediscono a vicenda d’essere qualcosa».[29] L’uno impedisce all’altro d’essere sé stesso, e viceversa. Il timor panico, il timore di Tutto, regna sovrano, al pari della fobia sociale, di cui i mass shootings d’oltreoceano sono il tragico e più recente epifenomeno.
Tuttavia, quello di Musil non è un determinismo sociale nel senso dei grandi romanzi del positivismo ottocentesco, pensiamo ad esempio a Honoré de Balzac e a Émile Zola. Musil, come il suo Urlich, crede in definitiva nella responsabilità individuale, nella possibilità della decisione. Nel pieno d’una crisi culturale che investe l’Europa, e nel mezzo d’una specializzazione tecno-scientifica che scompone gli esseri umani in qualità irrelate, L’uomo senza qualità, infatti, è il romanzo-saggio che non smette di pensare un mondo possibile, al costo di restare incompiuto: «se esiste il senso della realtà deve esistere anche il senso della possibilità».[30]
Per questo, né Musil né Ulrich assolvono Moosbrugger in nome d’un determinismo del comportamento che vanifichi il libero arbitrio. Un’altra possibilità è sempre incorporata nello stesso senso della realtà e del comportamento criminale: non abbracciarla può essere una colpa.
Note
[1] Detlev Claussen, Intellectual Transfer. Adorno tra l’America e Francoforte, Luigi Pastore e Thomas Gebur (a cura), Theodor W. Adorno. Il maestro ritrovato, manifestolibri, Roma, p. 43.
[2] Robert Musil, L’uomo senza qualità, vol. I, Einaudi, Torino, p. 22.
[3] Claudio Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna [1966], Einaudi, Torino, 2009; L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna [1984], Einaudi, Torino, 2014; Danubio [1986], Garzanti, Milano, 1990; Massimo Cacciari, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento [1980], Adelphi, Milano, 2005; Thomas Harrison, Essayism: Conrad, Musil, and Pirandello, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1991.
[4] Friedrich Nietzsche, Il caso Wagner [1888], in Scritti su Wagner, Adelphi, Milano, 1979, p. 180.
[5] Paul Bourget, Essais de psychologie contemporaine, vol. I, Paris, 1883, p. 25.
[6] Musil, Diari (1899-1941), vol. I, Einaudi, Torino, pp. 44-45.
[7] Musil, L’uomo senza qualità, vol. I p. 30.
[8] Ibidem.
[9] Magris, L’anello di Clarisse, p. 26.
[10] Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, in Gesammelte Werke, vol. I, Rowohlt Verlag, Reinbek, 1978, p. 1752. Citato in Magris, L’anello di Clarisse, p. 26.
[11] Musil, Diari (1899-1941), vol. I, p. 457.
[12] Ivi, p. 458.
[13] Ivi, pp. 458-461.
[14] Hugo von Hofmannstahl, Lettera di Lord Chandos [1902], Rizzoli, Milano, 1974, p. 45.
[15] Magris, L’anello di Clarisse, p. 50.
[16] Peter Carravetta, Del postmoderno. Critica e cultura in America all’alba del Duemila, Bompiani, Milano, 2009, pp. 11-12.
[17] Herman Melville, Moby Dick [1851], Garzanti, Milano, 1988, p. 380.
[18] Musil, L’uomo senza qualità, vol. I, p. 230.
[19] Ivi, p. 61.
[20] Ivi, 231.
[21] Musil, Diari (1899-1941), vol. I, p. 314.
[22] Ibidem.
[23] Melville, Moby Dick, p. 21.
[24] György Lukács, Essenza e forma del saggio: una lettera a Leo Popper, in L’anima e le forme [1910], SE, Milano, 2002, pp. 15-37. L’ipotesi che Musil abbia letto lo scritto di Lukács è formulata da Thomas Harrison, «The Essayistic Novel and Mode of Life: Robert Musil’s The Man without Qualities», Republic of Letters, 4, 1, 2014, p. 4, n. 8 (www.aracade.stanford.edu, consultato l’11/05/2021).
[25] Musil, L’uomo senza qualità, vol. I, p. 244.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 66.
[28] Ivi, p. 67.
[29] Ivi, p. 437.
[30] Ivi, p. 12.
Atteniamoci al necessario, all’essenziale, al concreto.. Gli USA non sono l’impero asburgico…
La crisi americana è causata dal venir meno dei fondamenti del mito americano. Questi fondamenti sono: il futuro luminoso con un’economia in continua crescita, la forza militare, il glorioso melting pot, l’America bianca con il suo invidiabile modello di vita e i suoi eroi alla “Gary Cooper” e le sue eroine alla “Doris Day”. Oggi il passato – un passato di violenze di cui i buonisti, ammalati di “politically correct” si vergognano, e i cui eroi vengono da loro sistematicamente sbullonati – ha preso il posto del futuro. Le sconfitte militari si sono ingloriosamente succedute dopo la guerra vittoriosa contro il male supremo: il nazifascismo. La fine del comunismo ha messo fine al ruolo morale-militare degli USA che ha giustificato per decenni, dal dopoguerra in poi, la loro invadenza attraverso il pianeta. Il melting pot, fattore di coesione, ha ceduto il posto al multiculturalismo. Oggi si può vivere a Miami senza conoscere una parola d’inglese. Hollywood con i suoi effetti speciali è divenuto un inno all’orrore, alla violenza, ai cataclismi. I suoi film sono bui, mostruosi, grotteschi, esagerati, da bambini dementi. I derelitti dormono all’addiaccio in un’America dove ognuno deve pensare a se stesso, e dove non esiste un sistema sanitario gratuito per il fruitore. L’obesita’ dilagante ha reso l’americano tipo, specialmente in certi stati, un esemplare da circo Barnum… La violenza armata è un vero cancro… Le città americane, se raffrontate alle città europee, appaiono esperimenti architetturali e sociali mal riusciti… L’epopea americana del bianco europeo è percepita come una storia ignobile di cui vergognarsi. E il futuro, a causa soprattutto dei disastri ecologici, lascia ben poco sperare…