Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
di Giulia Arrighetti
Nel 2019, l’anno delle prime grandi mobilitazioni transnazionali per la giustizia climatica, nonché l’anno dei Gilets Jaunes in Francia, trovai sul comodino di un’amica la prima edizione Einaudi (1972) de L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura, di Dario Paccino. In quei giorni la tematica ecologica, che fino a quel momento avevo incontrato solo nel dibattito accademico e nella riflessione politica tra attivist* impegnati in lotte territoriali, trovava un inedito protagonismo sia nei mass media sia sui social network. Nessuno però parlava di un possibile “imbroglio” in relazione all’ecologia. Per questo il titolo del libro catturò immediatamente la mia attenzione: che cosa significava l’espressione “imbroglio ecologico”? Da quel momento ho cercato diverse volte di recuperare il libro, purtroppo introvabile, per rispondere a queste domande con la lettura.
Sono finalmente riuscita a soddisfare il mio desiderio poche settimane fa, grazie alla nuova edizione del testo pubblicata da Ombre Corte, introdotta da un importante saggio di Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini e Sirio Paccino, capace non solo di contestualizzare l’opera nel suo tempo, ma anche di evidenziare come le intuizioni di Paccino siano ancora rilevanti nella contemporaneità.
In questa mia recensione cercherò di chiarire perché, secondo me, le nuove generazioni di ecoligist*, attivist* climatici e militant* dovrebbero leggere questo libro.
Un primo motivo è l’occasione di entrare in contatto con il pensiero di un “ecologo inquieto”, secondo la definizione che Giorgio Nebbia diede di Paccino al momento della sua morte. Rapportarsi all’opera di Paccino permette, infatti, di confrontarsi con la figura di un uomo che ha cercato di coniugare, nel corso della sua esistenza, la ricerca intellettuale con l’azione politica, entrando in aperta contraddizione con chi ricerca l’autoaffermazione nel sapere specialistico senza alcuna tensione rispetto all’agire nella società in cui abita, nel suo tempo come nel nostro. È lo stesso Paccino che nel descriversi afferma: “da questo punto di vista non sono un intellettuale: mi limito a svolgere una funzione, sia pure schizofrenicamente, poiché in me convivono (per quella grande ‘volgarità’ che è il pane) il professionista e il militante. Non sentendomi prigionierio di alcun ruolo” (p. 8) Ex partigiano durante la Resistenza, Paccino è stato militante del movimento antinucleare nonché giornalista e saggista, impegnato in un’opera di divulgazione critica rispetto alla questione ecologica finalizzata al superamento dello iato tra sapere esperto e senso comune. Come scrisse infatti Valerio Giacomini, il ruolo di Paccino come intellettuale/divulgatore può essere visto come quello di “un terzo uomo che si incarica di creare una comunicazione fra il produttore specialistico di scienza e di tecnica (‘primo uomo’) e qualsiasi altro uomo (‘secondo uomo’) che manifesti ben legittime esigenze di informazione e conoscenza […] quando si tratta di questioni che riguardano interessi fondamentali della sua stessa esistenza e sopravvivenza” (p.8), come quelle ecologiche.
Entrare in relazione con il lavoro di Paccino può quindi essere di stimolo per chi si sente un “ecologo inquiet*” a sua volta: c’è un enorme bisogno di “terze persone” – liberandoci dal binarismo di genere – capaci non solo di divulgare il sapere specialistico, ma di metterlo in discussione e in relazione con i saperi situati (per usare l’espressione di Donna Haraway) e subalterni in merito ai conflitti ambientali.
Un secondo motivo è l’opportunità di confrontarsi con un’argomentazione radicale che guida il lettore – attraverso l’analisi dei rapporti socio-ecologici, di produzione e di potere all’interno dell’organizzazione capitalistica – alle radici delle cause strutturali che non solo hanno prodotto, ma riproducono continuamente la crisi ecologica.
L’obiettivo dichiarato è infatti quello di presentare un’importante critica all’ambientalismo istituzionale e all’uso capitalistico della natura, mostrando quanto il nesso capitale-natura sia fondamentale per i processi di accumulazione capitalistica, così come per le prospettive di lotta di classe.
Infatti, già nell’“Avvertenza” Paccino dichiara:
“Assunto dell’opera, la proposta di mettere l’ecologia con i piedi sulla terra, la terra di tutti gli uomini, e perciò anche delle loro verità ed ideologie: il sistema dei rapporti di produzione. E ciò in polemica sia con quegli ecologi che si librano al di sopra delle parti, sia con quei materialisti storici che accolgono la riduzione idealistica della storia naturale e della storia umana.”
Rimettere l’ecologia con i piedi sulla terra significa per Paccino denunciare ed illustrare l’“imbroglio” attraverso cui si realizza l’interesse del capitalismo, a lui contemporaneo, per l’ecologia.
Le classi dominanti non salgono “sul palcoscenico ecologico” perché realmente interessate alla sopravvivenza della totalità degli esseri umani e non umani, ma unicamente per proteggere loro stesse e i loro profitti dalle minacce della crisi ecologica, che loro stesse hanno generato.
“Gli effetti mutageni delle radiazioni nucleari non sono trattenuti nelle mura d’acciaio del palazzo d’inverno, anche nei giardini del palazzo cadono le scorie avvelenate dell’attività industriale. […] Ma lui stesso [il padrone], o suo figlio (andato a studiare in Usa), sa che gli sconquassi portati al metabolismo della biosfera, quelli visibili, e forse ancor più quelli che non si vedono a occhio nudo, sono talmente gravi e generalizzati che non c’è arca di Noè che possa mettere qualcuno al riparo dalle conseguenze”. (pp. 80-81)
Il padrone quindi
“si è accorto dell’ecologia […] quando le conseguenze dei costi ambientali hanno incominciato a minacciarlo direttamente, nello stesso tempo che gli hanno fatto intravedere nuove possibilità di guadagno con l’industria ecologica.” (p. 50)
L’“imbroglio ecologico” si configura dunque nell’elaborazione di un “ideologia ecologica” capace non solo di nascondere le reali responsabilità politiche del padrone nella degradazione della biosfera – assolvendolo – ma anche di orientare le politiche ecologiche (ciò che oggi sarebbe definita transizione) in modo che i costi ambientali e sociali siano scaricati unicamente sulle classi subalterne. Grazie alla suddetta “ideologia ecologica” il capitalismo è capace di giustificare le opportunità di guadagno e speculazione che la crisi ecologica gli offre, per esempio attraverso la riconversione in chiave falsamente ecologica dell’apparato produttivo – “l’industria ecologica” – o tramite i processi di finanziarizzazione della natura.
“…ideologia ecologica […], oltre ad essere caratteristica falsa coscienza, è anche il tentativo di impostare il problema in modo da far pagare lo scotto ai danneggiati, e guadagnarci”. (p. 56)
Paccino giustifica queste sue tesi proponendo una serie di esempi legati a tematiche di forte rilevanza nella nostra contemporaneità: la questione decoloniale, il ricatto salute-lavoro, la prevenzione come tema di salute pubblica – soprattutto in relazione all’uso di prodotti cancerogeni nella produzione di cibo – le politiche miopi sia sul fronte dell’organizzazione dei trasporti sia dell’urbanistica…
Ritengo, quindi, che gli strumenti interpretativi proposti da Paccino cinquant’anni fa possano essere utili per comprendere i reali interessi economici e di potere che stanno dietro agli attuali programmi di transizione ecologica promossi dalla politica statale oltre che dall’iniziativa privata, nonché suffragati da gran parte della scienza ufficiale. Le parole di Paccino ci insegnano a essere vigil* e a mettere a critica le forme in cui “l’ideologia ecologica” promossa dalle odierne classi dominanti oggi impedisce che si trovi una soluzione reale all’eco-catastrofe a cui ci hanno condannat*.
Un esempio fra tutti è la proposta di poche settimane fa del ministro per la transizione ecologica Cingolani di ripensare il ruolo dell’energia nucleare nel nostro paese in quanto energia sostenibile. Non siamo forse davanti a un “imbroglio ecologico” 4.0?
Un terzo e ultimo motivo che rende questo testo meritevole di essere letto riguarda la proposta politica espressa da Paccino: lavorare alla costruzione di un’ecologia conflittuale capace, proprio grazie all’esercizio dell’antagonismo sociale, non solo di invalidare “l’ideologia ecologica” del padrone, ma anche di impostare un’inedita lotta rivoluzionaria anticapitalista per l’ambiente proprio a partire dallo smascheramento dell’imbroglio ecologico vigente.
“C’è un criterio infallibile per distinguere l’ideologia ecologica dalla lotta rivoluzionaria per l’ambiente, ed è la conflittualità.” (p. 199)
Secondo Paccino l’agire per un’“ecologia conflittuale” non può essere rimandato a un momento successivo alla “presa del palazzo d’inverno”, e quindi al momento di emarginazione del padrone capitalista, ma si deve dare nel presente data l’urgenza immanente di contrastare la politica predatoria delle classi dominanti responsabili della catastrofe ecologica.
“Certo, non è con l’ecologia conflittuale che si arriva, finchè c’è un padrone, alla fabbrica a misura d’uomo. Ma si otterrebbe almeno il risultato di spuntar un’arma ideologica, mostrando chi sia il vero responsabile della quotidiana strage ecologica. E si contribuirebbe a rimettere la filosofia marxista sulle sue gambe, ponendo come prius di tutto (anche dell’essere sociale, e non solo come antefatto dato una volta per tutte) l’essere naturale.” (Ibid)
Paccino, quindi, arriva a scontrarsi direttamente con il posizionamento della sinistra italiana del suo tempo in merito alla questione ecologica, compresa la sua espressione statuale che si richiama al comunismo in Unione Sovietica e quella filosofico-politica che si richiama al marxismo ufficiale. L’accusa è quella guardare alla questione ecologica a partire da un indebito e problematico idealismo: considerando la storia umana come indipendente da quella naturale/biologica, il marxismo ufficiale abbandona la sua vocazione materialista divenendo incapace di cogliere la realtà della relazione strutturale tra lo sfruttamento della forza lavoro e quello della biosfera, nonché l’urgenza di contrastarne gli effetti più nefasti.
“La stessa impostazione della consequenzialità meccanica dei problemi ecologici dal ribaltamento del sistema e perciò il loro rinvio a rivoluzione avvenuta, può ben dirsi derivata dal ‘giocar fuori casa’, che solo chi sia stato contaminato da idealismo può credere, in una società come la nostra, all’inevitabilità (sia pure garantita dalla lotta, anziché da pacifica evoluzione) delle magnifiche sorti progressive, e non avvertire perciò l’urgenza dell’attacco del padrone, oltre che sul terreno dello sfruttamento, anche su quello del suo planetario “biocidio ed ecocidio”, che potrebbe cancellare la vita sulla terra ben prima dell’avvento della rivoluzione mondiale.” (p. 201)
Secondo l’autore, dunque, nell’“ecologia conflittuale” la lotta contro lo sfruttamento delle classi lavoratrici deve coniugarsi con quella contro lo sfruttamento dell’ambiente.
“Non solo dunque lotta per liberare l’uomo dallo sfruttamento, ma anche per liberarlo dalla vendetta della natura nel senso di impedire che il padrone continui a metterla in condizione di doversi vendicare.” (p. 205)
Ritengo quindi che questa lezione di Paccino debba essere recuperata dalla nostra generazione: è necessario provare a esercitare una nuova “ecologia conflittuale” nel nostro presente, che si ponga in aperta critica con le istituzioni e con la politica partitica che si prefiggono la “gestione” della crisi climatica, rimanendo scettici davanti alle opzioni riformiste proposte. Per questo è importante mobilitarsi accanto ai movimenti transnazionali (FFF, XR, ecc.) e con le lotte territoriali che attraversano i nostri territori. Un primo appuntamento importante per questo è la mobilitazione contro la pre-COP 26, cioè l’incontro preparatorio alla ventiseiesima Conferenza delle Parti che si terrà a Milano nel primo weekend di ottobre. Operare una critica dei processi di governance climatica tenendo le gambe ben salde nelle piazze: il modo migliore per dare nuova vita al grande libro di Dario Paccino.
Articolo molto interessante, un unico appunto: siamo certi che FFF sia un movimento ecologico conflittuale, o non piuttosto un imbroglio eterodiretto (dai padroni)? E si potrebbe estendere il ragionamento anche all’uso dell’asterisco…
Per carità il libro sembrerebbe anche interessante ma più come gioco intellettuale…
Sarebbe troppo semplice e rischioso ridurre il cambiamento climatico cosi come l’attivismo ecologista ad una dialettica “padroni cattivi” vs “proletariato buono e sfruttato”, per carità il libro ha 50 anni e faceva parte dello spirito del tempo ma pensare di riesumarlo per dedurne proposte utili ai giorni nostri è quantomeno anacronistico.
Credere che le classi dominanti abbiano costretto il povero popolo ad abbandonare un’ipotetica età dell’oro ecologica per vivere in un mondo irrespirabile e pieno di plastica è una semplificazione inquietante.
La crisi climatica ci frega proprio perché è la conseguenza diretta del nostro relativo benessere, e questo è un dato di fatto da cui un’analisi politica seria non può esimersi.
Cosa vuol dire combattere i padroni ? Con quale nuovo sistema si vuole ribaltare quello attuale ? Con la decrescita ? Va bene allora bisogna costruire un’intera ideologia talmente ben fatta da convertire interi popoli che stanno uscendo dal sottosviluppo per spiegargli che in realtà non ce n’è bisogno : basta vivere in comunità regionali autosufficienti e poco importa se loro volevano una smart tv o l’automobile o visitare Venezia, i loro desideri non sono altro che conseguenze del grande imbroglio.
Ha ragione a dire che la crisi climatica colpisce e colpirà più duramente i più poveri ma proporgli un salto nel buio socioeconomico è, a mio modesto parere, un imbroglio altrettanto palese.
P.S. : I Gilet Jaunes (che non erano poveri o disperati ma piccoli e medi imprenditori e classe media, se ancora vuol dire qualcosa) al grande imbroglio avevano risposto con un molto più semplice (ed efficace) : fin du monde ou fin du mois ?
Un mondo nella testa; una testa fuori dal mondo.
Le gambe ben salde sulle piazze per dire cosa? Per fare cosa? Manifestare il dissenso verso uno stato di cose sussistente per sostituirlo con che cosa?
Le possibilità tecnico-pragmatiche di risposta al cambiamento climatico non sono accessorie; al contrario: sono sostanziali. Se lasciassimo perdere anche solo per un attimo il generale, l’universale, i sistemi filosofici, riusciremmo a vedere quel che si cela sotto il particolare: un dato bruto e brutto, un nodo che non si lascia sciogliere da parole belle e pensieri sottili. Ma, ostinati, non vogliamo vedere; una volta di più, ci tiriamo la cappa di nebbia giù sugli occhi e l’elmo magico sulle orecchie per poter negare l’esistenza dei mostri.
Il dato bruto ci dice che siamo chiamati a prendere delle scelte impellenti per salvaguardare la condizione umana sulla Terra (senza apocalissi), scelte sulle fonti di energia, sui vettori energetici, sui trasporti, sull’agricoltura, sulla zootecnia e su molto altro ancora. Questo, tutto insieme e in pochi anni, con l’obiettivo della decarbonizzazione. Ora, sappiamo bene tutti che, non esclusivamente ma per larga misura, le emissioni climalteranti provengono in particolare da due settori, quello della produzione di energia e quello dei trasporti, e che la decarbonizzazione del secondo passa, per buona parte, dal primo (auto elettriche, ad idrogeno o quello che il futuro ci riserverà). E questo è uno dei punti: la lotta ai combustibili fossili e la loro progressiva sostituzione con fonti sostenibili. Sostenibili, perché il dato bruto ci dice anche che il mondo energetico non è un gioco a somma zero. Ci sono delle scelte da prendere, e nessuna di questa è totalmente neutra.
Cosa propugnano, in tal senso, gli ambientalisti di FFF e analoghi? Le rinnovabili, al 100%. Allo stesso tempo, però, dicono di ascoltare la scienza e di guardare ai risultati della ricerca scientifica internazionale. Se andiamo a controllare, scopriamo che la comunità scientifica – quella comunità composta da persone con una visione statistica delle cose, a differenza della gente comune, che ne ha una tendenzialmente aneddotica – nel merito, sostiene che le rinnovabili, da sole, non bastano, nemmeno diminuendo drasticamente i consumi (questione peraltro condivisa). I problemi sono ben noti e il maggiore, quello ad oggi non eliminabile, resta l’aleatorietà e la conseguente necessità di implementare grossi sistemi di accumulo; sistemi di cui non disponiamo.
Assumendo questo sistema, possiamo percorrere due strade: una è quella che, non senza un manto millenaristico e talvolta attraversata da nervature di malthusianesimo, porta alla decrescita felice. Lasciamo perdere se buona o cattiva, e guardiamo alla realtà: il cambiamento climatico è una questione globale. Se anche fossimo noi disposti a imboccare una strada simile, forse non altrettanto i paesi in via di sviluppo, o l’India, la Cina, la Russia, e via dicendo.
L’altra strada è quella che porta a continuare a bruciare combustibili fossili accanto alle rinnovabili; e questa resta l’ipotesi più realisticamente probabile oggi.
Se le due vie summenzionate non ci soddisfano, ce ne sarebbe, a dire il vero, anche una terza: un uso sapiente e ponderato di tutti gli strumenti e di tutte le tecnologie capaci di portarci alla tanto agognata carbon neutrality, indicato dalla ricerca scientifica sul tema. Questa via prevede anche l’energia nucleare.
Ed ora, vengo finalmente al punto dell’articolo. L’energia nucleare non è intrinsecamente di destra. L’energia nucleare non è un vampiro assassino che sugge energia psico-fisica ai lavoratori del globo terraqueo. L’energia nucleare non è un’epitome di capitalismo avanzato e autodistruttivo. Vorrei ricordare che a portarlo in Italia fu Enrico Mattei, vicino alla DC, assassinato; e che uno dei maggiori promotori delle politiche nucleari fu Felice Ippolito, comunista, ingiustamente incarcerato. Questo per dire che è una questione e una tecnologia trasversale – trasversale come l’ombra dei petrolieri.
Una equa allocazione delle risorse e un’inversione dalla divaricazione della forbice sociale tra ricchi e poveri ce lo auspichiamo tutti, ma questo non può accadere per mezzo di un ideologismo quasi teologico e anti-tecnologico, o anti-scientifico. Non esistono gli alberi di pannelli fotovoltaici e nemmeno gli arbusti da pale eoliche. Tutto ha un impatto ambientale, si tratta solo di capire quali sono le scelte più ragionevoli, andando oltre la sciocca e dannosa retorica della presunta naturalità.
Se per i vaccini diciamo di ascoltare la comunità scientifica, prendiamo la buona abitudine di farlo per tutto il resto (OGM, NBT, CCS, nucleare e via dicendo). Questo non credo sia in contraddizione con la ricerca di forme di organizzazione politica giuste e di modelli economici equi a livello globale; lo è la discriminazione puramente ideologica verso alcune tecnologie. Se le abbiamo, se siamo capaci di valutarne rischi e benefici, se da una comparazione con le altre alternative viene fuori che sono migliori (per l’ambiente), perché non utilizzarle? Perché andare sempre contro, urlare alla giustizia, all’equità, alla naturalità, senza avere la minima idea di che fare davvero o di quali siano le reali alternative? Perché, tornando alle istituzioni politiche più giuste e, soprattutto, alle forme economiche più eque, nessuno sa realisticamente e concretamente che cazzo fare, soprattutto in un’ottica globale.
Se pensate che la ricerca scientifica sia Satana o che le tecnologie sviluppatesi da questa siano intrinsecamente vettori di bulimica accumulazione di capitale e strumento di depauperamento della classe operaia, va bene, avete ragione voi; ma diteci che fare.
Per quanto mi riguarda, l’ambientalismo che oggi gremisce le piazze è poco più che giardinaggio, ma con gli occhi iniettati di sangue. Certamente sarebbe (o sarà) capace di produrre un armonioso giardino giapponese, ma nel mezzo di uno sterminato deserto.
Se siamo dalla stessa parte, se vogliamo tutti preservare l’ambiente nel quale viviamo, smettiamola con queste stronzate, andiamo al di là del millenarismo apocalittico d’accatto dei nostri tempi e prendiamo la buona abitudine di fare pressione ai nostri governi urlando cose che conosciamo, a seguito della consultazione, laddove possibile, degli esiti e degli scenari possibili fornitici dal migliore strumento attualmente a nostra disposizione: la comunità scientifica internazionale, articolata nelle sue varie discipline.
Cordialmente,
un misterioso polemista