di Massimiliano Cappello

 

La scelta di un pretesto per parlare d’altro – in questo caso, il détournement di un classico della fantascienza romanzesca e cinematografica (The man who fell to earth, 1963-1976) – è tra le forme tipiche della saggistica geniale; o perlomeno, così diceva qualcuno. Ma chi potrà mai avvicinarsi a questo spettro – fosse anche solo dietro tali escamotage –, se lo stesso autore di questo Andrea Zanzotto. Il canto nella terra (Laterza, 2021) sostiene di esserne «l’antitesi perfetta»? (p. 4). Soprattutto se questo altro Andrea – Cortellessa: per il quale vale forse più che mai l’equivoco lacaniano tra oggetto e soggetto posto in esergo al libro: «Al grande Z, il piccolo a» –, procede nel libro all’operazione contraria, mostrando insomma come solo al termine della mediazione dimori l’immediatezza, la poesia solo nel trapassare delle interpretazioni.

 

In questo senso, nemmeno questo pretesto sarà forse poi tanto avventato – ancorché certo più slavato e fuori fuoco rispetto all’Odissea kubrickiana o a Solaris di Tarkovskij, puntualmente richiamati a testimoniare l’ascrizione di Zanzotto tra i grandi artisti tout court del ventesimo e di una fetta ancora considerevole di ventunesimo secolo. Se è vero, cioè, che Zanzotto è stato anche l’inquietato estimatore di una S(cience) F(iction) realizzatasi sino alla sua più oscena evidenza – la «strenua ed arsa farsa | di fantascienza» (Meteo, 1996) di ciò che è (e non è più) il «paesaggio» nel motus in fine velocior dei tempi. Non resterebbe a questo punto che da chiedersi chi, dei due «A», sia davvero sia l’uomo che cadde nella terra…

 

 

In questo volume, apparso a ridosso della doppia ricorrenza zanzottiana di questo 2021 – vera e propria «tempesta» sotto la quale centenario della nascita e decennale della morte si rincorrono, al rischio estremo di confondersi, a distanza di otto giorni: 10-18 ottobre –, Cortellessa si propone di ripercorrere un tracciato sinora battuto unicamente dal suo autore e dagli intrepidi curatori del Meridiano del 1999; alimentando così il dubbio o la fantasia (più o meno scientifica ma sempre libidica, desiderante) che la distanza tra creatore e glossatore si possa assottigliare. Riprendendo il commento di Stefano Dal Bianco ad Arse il motore (che inaugura Dietro il paesaggio, 1951), questo tragitto è l’analogo di quell’archeofuturistico «viaggio in autocorriera guidato dalla fedeltà agli elementi celesti» che, nell’arco di un sessantennio e rilanciando senza posa la posta in gioco, trafigge da parte a parte la lingua, il soggetto e il paesaggio, si ramifica ed evapora in pseudo-trilogie e «incidenti di percorso» per giungere, infine, dopo l’explicit opus e la laus deo, a vere e proprie poesie oltretombali. Un’escursione totale e a perpendicolo, insomma, dietro (ma anche dentro) Zanzotto – alla ricerca di quelle fonti che, secondo il Montale recensore della Beltà, assumevano le forme del proverbiale ago nel pagliaio.

 

Fosse lecito ammiccare tanto sornionamente, si dovrebbe forse dire che, se non annoverabile tra i geni – tra coloro cioè che agiscono nell’ordine terreno –, Cortellessa lo sarebbe senza dubbio tra i santi… Del resto, il libro si apre e si chiude su due intimazioni contraddittorie ma invincibili: quella a finire-terminare un libro iniziato quindici anni fa (al quale, evidentemente, l’«oggetto» Zanzotto applicava una resistenza simile a quella della luna di Gli sguardi i Fatti e Senhal, con quanto vi è di profanato e offeso: «non scriverlo te ne prego») e quella a ricordare tutto quanto di possibile, iniziale, nascente o «veniente» vi sia nella pronuncia ultimativa ma mai ultima di questo poeta, scintillio di un senso possibile per la realtà. D’altronde, una delle tesi principali del libro (se di tesi si può parlare) sta tutta qui: «se tante sono le immagini di fine (e dopo la fine) che incontreremo nel corpus, almeno altrettante sono quelle che ci offre, Zanzotto, di momenti iniziali, esordiali, inaugurali» (p. 31). Che è forse anche il motivo per il quale, all’apparire del Meridiano nel 1999, Zanzotto aveva avvertito come un «campanello d’allarme». L’unica gioia al mondo, si diceva, è cominciare.

 

Nel corpo del suo stesso nome – tra l’A (più o meno «piccolo», appunto, à la Lacan) e la Zeta – è contenuto tutto intero uno spettro della pronuncia; ed è sul crinale di questa antinomia (la prima di molte ed «eccentriche») che Cortellessa reperisce il più profondo significato dell’esperienza di linguaggio di colui che la critica ha tenuto per decenni quale «signore dei significanti», divoratore-parassita della tradizione, possidente della letteratura. L’avventura di Zanzotto in seno al proprio inconscio diviene (è anzi, a ben vedere, sin dal principio) una testimonianza dell’assolutamente altro; sotto la scure delle sue pronunce, un rapporto con l’eterno, il metafisico, il trascendente si tramuta in contingente, storico, terreno. Prima, naturalmente, che questo intero apparato dialettico si risolva o meglio si doni, per l’appunto, nella terra: laddove, cioè, il canto di mahleriana memoria cui si ispira il titolo (singolar tenzone con la propria stessa morte, nell’un caso e nell’altro, ma quanto differenti: simbolistico-decadente la prima, «MAGRA LADY» parisiana la seconda) smette i panni del congedo che la dice interamente per possederla, e comincia invece ad appartenerle, «adottando il tutto».

 

A lungo Cortellessa ha oscillato (e forse ancora oscilla) tra un polo-della e un polo-nella terra: in questo non dissimile da quel Bruno Walter che, discepolo, dovette condurre la prima del lied di Mahler dopo la sua morte, andata in scena pressappoco 110 anni fa. Eppure, a volerne scorgere la fine (o il fine), anzi per meglio dire il «tramonto», si converrà che non tanto di religio mortis si tratta, ma di una etimologica lietezza o ‘gaiezza’ nietzscheane – cui del resto l’autore di questo libro, con movenza tipica, non manca di alludere qua e là, di taglio o di riflesso, mostrando chi davvero si intercetti percorrendo la comune traiettoria Heidegger-Lacan; evocando, insomma, a testimonianza di ogni immagine, le rovine che presiedono alla sua apparizione.

 

La continua spola dalla diacronia alla sincronia fa di Cortellessa insieme l’archeologo verbo-visivo e il mediatore di un trapasso dall’annoso problema delle scuole e delle letture zanzottiane verso un assoluto sincretismo critico, anche generazionale. Sul primo versante, andrà sicuramente ricordato il suggestivo parallelo (attribuito a Riccardo Venturi) con l’artista Robert Smithson (parafrasando il quale si potrà parlare allora di land- più che di eco-poetry). Circa il secondo, è invece evidente come la lunga frequentazione di eccellenti autori del calibro di Mengaldo e Agosti, nel testo riprodotta per tramite di un’ulteriore e tipica tendenza – quella alla volée, alla ripresa contraddittoria e contestatoria (ma, perché no, anche complice) di alcune affermazioni esemplari sulle quali struttura la sua arringa –, si affianca a un’attenzione (tanto più magnifica perché sentita da pari a pari) per le più giovani voci critiche. Penso, in particolare, al lavoro condotto sulla saggistica di Zanzotto da Matilde Manara (Diplopie, sovrimpressioni. Poesia e critica in Andrea Zanzotto, Pacini, 2021), che Cortellessa assume – nello sforzo che la «luccicanza verticale» della poesia impone – quale traccia di commento privilegiato alle linee principali di queste «turbinose paginette» dalla «divagazione rapinosa» e penetrante «capacità rabdomantica»: e in particolare al suo vero e proprio vaticinare, sempre con almeno quindici anni di anticipo, gli esiti ulteriori o meglio gli «sviluppi» di esperienze come quelle di Montale (leggendo già prima della Bufera i prodromi di Satura) o di Sereni, la «variabilità» della cui «stella» (esito ultimo della raccolta del 1981) viene osservata già a partire dagli Strumenti umani (pp. 163-168).

 

In effetti, a volerne ricalcare i bordi, bisognerà dire che i quattro capitoli (+ 1) del «libro primo» di questo volume si intrecciano in evoluzioni e figure differenti. Gravitando saldamente attorno al Centro di lettura (personal essay e ouverture del libro) la composizione tesse, in fondo, un chiasmo e una mise en abyme. Dove cioè il riverbero del primo virtuosistico capitolo, L’oltranza (possibili prefazi), è preludio e contrappunto all’ultimo, Andare qui (percorso), sintesi e analisi dell’opus zanzottiano; e i due centrali, Curriculum (Bio grafia) e I Fatti e Senhal (Vita a Fronte), contraddittorie e sincerissime testimonianze della vicendevole (e spesso, a ben vedere, auto-indulgente-lesionistica) reciprocità e ricorsività concausale di biografia e poetica. Eppure, il gioco più sottile, questo saggista lo conduce pizzicando le ‘dantesche’ corde del suo autore; fatto che ci porta a dire che questo libro di Cortellessa non si può non leggerlo per trilogie, come in effetti testimonierebbe anche numerologicamente il ripercuotersi, nei nove paragrafi del quarto e ultimo capitolo, della tripla partizione dei primi tre.

 

Il libro si conclude su un’alterazione della tonica: tensione che, chiudendolo, prefigura l’apertura di altro – fosse anche solo, provvisoriamente, il suo approfondimento. È il caso di quei veri e propri «libri paralleli» che sono l’apparato di note e la voluminosa bibliografia – fatto al quale Cortellessa già ci aveva abituati con Il libro è altrove, dedicato a Giorgio Manganelli. Sarà allora opportuno ricordare che, se quelle 26 piccole monografie si muovevano (quanto mai sintomaticamente) «dalla A alla Z», Il canto nella terra è a ben vedere il suo primo vero testo monografico. Del resto, come in una «storia di vampiri» per nulla «idiota», la linfa di questo libro è stata succhiata anche e forse soprattutto da quanto di altro Cortellessa è andato facendo in questi anni; e ciò invoglia a chiedersi se quanto compiuto per la poesia, diramandosi e sottintendo il «centro» zanzottiano, non sia destinato a rispecchiarsi nella prosa: se è vero, insomma, che l’altro dei suoi phares – con tipico ripescaggio baudelairiano (e dal Baudelaire più ‘iconico’), dietro cui campeggiano Benjamin e Agamben – è l’ancora ineluso Tommaso Landolfi.

 

Giunti qui, molto si potrebbe dire circa i fatti che segnalano siffatte affezioni; e in special modo rispetto a ciò che dicono sullo scrittore Andrea Cortellessa. Se si è a lungo discusso di un ‘manierismo’ proprio appunto a Landolfi e a Zanzotto (ma si potrebbe dire anche di Manganelli), se per movenze e allusioni la sua critica può in un certo senso esserne apparsa mimetica, è forse proprio perché non si è ancora rovesciata un’idea sedimentata di ‘maniera’. Anche qui, solo trapassando dall’epigonismo deteriore alla lacerata coscienza di un esaurimento, dall’ossequio alla «convenzione» a vera e propria «contorsione» liberatoria se ne può tracciare un primo profilo. Inglobante, totalizzante, sfuggente, la critica di Cortellessa tende a ragioni tanto semplici quanto inesplicabili se non al costo di estreme circonvoluzioni e pli. È il caso della nona bemolle cui poco sopra si accennava, e sulla quale si conclude questo contro-Canto: rammentandoci, cioè, il tono «minaccioso verso i “responsabili” (metafisici ma fors’anche storici) del mancato paradiso» dell’ultimo Zanzotto. Per poter pronunciare queste parole folli-infantili (da «bambini» e «pazzi», insomma, iuxta Montale), si è reso necessario uno sforzo, quanto mai maturo, di sapienza.

 

Come si diceva, Cortellessa scrive questo libro ormai da quindici anni; e Il canto nella terra pullula in effetti di tracce stratigrafiche, che una spettroscopia più calibrata meglio saprà individuare. Delle pagine composte dal 1998 e lungo tutti gli anni Zero e Dieci – lui, fulminato nel ’94 dal Sonetto di Linneo e Dioscoride in un’aula bergamasca di ammissione dottorale –, l’immagine che più si attaglia a questo «correggere postillare smentire» è forse quella da lui stesso evocata nel 2005, per fissare consistenze e qualità dell’antefatto apposto da Raboni a Poesia degli anni Sessanta (Quattro tesi sulla poesia italiana del dopoguerra, 1958): «severamente scorciandole sino a farle lampeggiare come frammenti d’oroscopo». Anche in questo – nella forza, cioè, e nella pazienza di riprendere, ridiscutere, ricollocare, stravolgere i propri materiali –, Cortellessa è degno discepolo di Andrea Zanzotto (che, autentico stregone-sciamano «versato nel Duemila», figlio di mille padri, di discepoli ne ha avuti quant’altri mai). Così, la sua lettura del maestro gravita come entro un medesimo campo magnetico o «centro di lettura» che al contempo è e non è in sé stesso. Condizione propria al manierista, appunto, in fuga.

 

Per molto tempo – si trattasse di inserirlo entro una pletora di autori (fosse anche come capobranco: vedi Phantom, mirage, fosforo imperiale, 2007), di triangolarne (Qualcosa che c’è, 2012, con Raboni e Giudici) o di biforcarne prospettive ed esiti (Il sangue, il clone e la madre norma, 2008, con Fortini) –, Cortellessa ha insomma tentato di non farsi tramortire dalla «schiacciante frontalità» di questo Moloch-Monolite: altra immagine, questa volta kubrickiana, densa di sottotesti (si pensi, di nuovo, a Gli sguardi i Fatti e Senhal). In un gesto affine a quello di Zanzotto (e da Zanzotto spesso e volentieri rintracciato), più ancora che sovrimprimere la sua esperienza a quella degli altri, Cortellessa compie nei confronti di quella «storiografia ultima» che è la poesia l’analogo gesto ‘contropelo’ del materialista storico, che rinviene nelle rovine dei tempi le tracce di un «che fare». Guardando cioè non direttamente né fissamente (o, con Paolo, per speculum et in aenigmate) la «testa di Medusa» della realtà, non meno mesmerizzante-paralizzante una volta incanalata nell’opera.

 

Le due parole d’ordine del libro sono, appunto, phares e antinomie – racchiuse sotto la comune insegna del Pericolo-Salvezza (la «testa di Medusa», appunto, che campeggia nei saggi letterari di Zanzotto). All’intersezione, cioè, di saggi e di versi, di «poesia alfa» e «poesia omega», di terra e di cielo, nonché di principio (vedi, rovesciando Freud, alla voce ‘piacere-del-’; ma anche, parafrasando Bloch: ‘-resistenza’) e di fine. Ampio spazio viene infatti dato pure a quella «postumità» di stampo cordelliano-ferroniano così evidente in Zanzotto – attorno alla quale Cortellessa, nell’accarezzare l’opera omnia, lascia vagare alcuni testi-immagini prediletti. Volendo nominare solo quelle più ricorrenti, certamente si dirà di quella del poeta interrato «nel regno della rovere e del faggio» (Fuisse, in Vocativo, 1957) – come di consueto rincalzata (ma nella voce più che nelle immagini) da un corrispettivo visuale (in questo caso, Sunset Boulevard). Ma anche Rivolgersi agli ossari, perla-perno del Galateo in bosco (1978) e già epigrafe sceltissima di Le notti chiare erano tutte un’alba (1998): composta nel 1965 – cioè nel bel mezzo del cantiere della Beltà (1968) –, la poesia in questione testimonia forse meglio di qualunque scritto della paziente pervicacia con la quale Zanzotto lasciava che i propri testi entrassero in costellazione. Per non parlare poi dell’affezione che lo lega, pressoché verso per verso (e al limite del lapsus), ai diciotto architettonici pannelli di Profezie o memorie o giornali murali, questa volta sì dalla raccolta del 1968. Per non parlare di poi Collassare e pomerio (da Fosfeni, 1983), «quasi violenta» nella sua ambivalenza psichica disidentificante (p. 133) e decisiva più di quanto non si creda…

 

Si tratta forzatamente di campioni isolati, baluginii, inflorescenze; ma nei più o meno immediati dintorni di questa pseudo-costellazione Cortellessa è in grado di ricostruire, articolare, rileggere il percorso che da Dietro il paesaggio conduce pressappoco a Idioma (1986; «piattaforma girevole» che conclude o rimette in circolo la pseudo-trilogia inaugurata, appunto, dal Galateo in bosco e poi ulteriormente ramificatasi proprio con Fosfeni): un poeta interrato, mendico-viandante, continuo-discontinuo insieme; sempre «paesaggito» ma sempre sul punto di «scancellarsi», ancora «io» ma sempre prossimo all’erodersi.

 

Andrà tuttavia subito aggiunto che un altro considerevole obiettivo del libro è quello di fornire un vero e proprio commento a quella che Stefano Dal Bianco ha definito «trilogia dell’oltre-mondo» – ossia Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001), Conglomerati (2009); a cui si aggiungono i 9 componimenti «ultimi» o «ultimativi» contenuti in Il vero tema (2011) –, e della quale solo la prima anta (più alcuni inediti non sempre riproposti) era confluita a suo tempo nel Meridiano. Non prima, tuttavia, di aver discusso dei fruttiferi ancorché dolorosi «incidenti di percorso» che sono, per motivi differenti, Filò (1976) e Haiku (2012, 2019). Soprattutto questi ultimi, anzi, composti nella «stagione» della primavera-estate 1984 e condannati dall’autore a un «personale enfer bibliografico» (p. 252), risultano decisivi per comprendere l’approdo agli «incerti frammenti» degli anni Novanta e Zero.

 

In questa ultima sezione, la transizione nel discorso critico è armonica più che timbrica. Non mancano, cioè, né l’approfondimento degli scarti tra la pronuncia, l’esperienza cui rimanda e la tradizione che, deformandola, ce la tramanda; né tantomeno il senso dell’orientamento con il quale destreggiarsi fra testi primi ed ennesimi alla ricerca del significato particolare-generale di questa operazione ineffabile ed «effata». È qui questione, tuttavia, di vestire piuttosto i panni dell’annotatore che del critico, del facilitatore più che del filologo. Ciò che comporta di passare, appunto, dall’accordo alla linea melodica (ancorché micropolifonica): facendo cioè risuonare non tanto le frequenze che arricchiscono le frequenze zanzottiane, quanto piuttosto amplificando quelle che ne individuano lo spettro.

 

In altre parole, il punto di vista del commento si mantiene rigorosamente interno alla visione del mondo di Zanzotto. Non è un caso allora se il lessico di base è desunto proprio da Dal Bianco, e corredato di alcuni pendant (la «trilogia dell’oltre-mondo» che si muta in «dell’ulteriore»; lo «sfumato percettivo» di Meteo che diviene, nel trittico, un fatto «strutturale», p. 259). Notevoli, peraltro, sono i picchi di intellegibilità procurati da questo difficilissimo unisono verbo-visivo. Basta pensare alla «lux aeterna» di Osservando dall’alto della stessa china il feudo sottostante (in Conglomerati, 2009), analogo visivo di musiche arcane «differite in | quarti di tono ligetiane luces»; la quale, cioè, per tramite della corale composta nel 1966 da György Ligeti e utilizzata da Kubrick proprio per 2001: A Space Odyssey, ricongiunge sotto l’egida del Monolite senex e puer, principio e fine, soggettivazione e disindividuazione nella terra.

 

All things begin and end in eternity: lo dice David Bowie, al termine di The Man who Fell to Earth, in uno scambio che nel testo è assente. Eppure, «non c’è bruscolo di tempo | né di spazio | che non meriti per sé infiniti poemi» (Il Vero Tema, p. 407). Abituati come siamo ormai ad assistere al puntuale trapasso del catalogo apotropaico e pedagogico di possibilità più o meno nefaste in vero e proprio laboratorio del peggio possibile, a sfuggirci è forse proprio quello che Zanzotto suggeriva come sottofondo o implicazione fondamentale di questa fantascienza che ormai quasi convenzionalmente commutiamo in storia: il punto di contatto o di rottura tra spazio del dentro e spazio del fuori. (In-)to Earth, appunto.

 

 

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