di Marco Malvestio
[Esce in questi giorni per nottetempo Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, un saggio di Marco Malvestio. Ringraziando l’editore, riproduciamo un estratto del capitolo 3, intitolato L’era del cambiamento climatico].
Nel 2017, i fotografi Paul Nicklen e Cristina Mittermeier stavano conducendo un reportage nell’isola di Somerset, nell’Artico canadese, per documentare gli effetti del surriscaldamento globale sugli ecosistemi locali. Durante quel viaggio, scattarono foto e video di un orso polare estremamente emaciato e denutrito che arrancava per la terra brulla. Le immagini fanno impressione: la pelle balla addosso all’orso come un vestito troppo largo, mentre l’animale incespica e casca nel tentativo di proseguire il suo cammino.
Nel pubblicare il video sul suo profilo Instagram, Nicklen commentò: “Questa è l’immagine della morte per fame”, e notò che secondo le stime degli scienziati gli orsi polari si estingueranno nel corso del prossimo secolo. Il video fu pubblicato anche dal sito del National Geographic, e divenne presto il più visto in assoluto della sua piattaforma digitale, con rilanci da parte di testate giornalistiche in tutto il mondo; secondo le stime degli autori, ha raggiunto complessivamente due miliardi e mezzo di persone. Il video del National Geographic, a differenza di quello di Nicklen, aveva anche dei sottotitoli, che riaggiustavano il focus rispetto al post del fotografo: “Questa è l’immagine”, diceva la prima stringa di testo, “del cambiamento climatico”, con le ultime due parole evidenziate in giallo brillante[1]. Ma è davvero così?
Nel 2020 la temperatura media della Terra ha raggiunto gli 1,2 gradi Celsius in più della media pre-industriale misurata tra il 1850 e il 1900, con un’impennata significativa a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso. L’aumento della temperatura del globo ha una molteplicità di effetti, che vanno dall’espandersi della desertificazione allo scioglimento dei ghiacci polari, con conseguente innalzamento del livello dei mari, dall’acidificazione degli oceani allo scioglimento dei ghiacciai, fino a fenomeni climatici estremi sempre più frequenti (come ondate di caldo, siccità, uragani e tornado). Senz’altro l’innalzamento delle temperature, l’inquinamento, e lo scioglimento dei ghiacci artici contribuiscono alla distruzione degli habitat degli orsi polari e degli animali, come foche e leoni marini, di cui si nutrono. Allo stesso tempo, però, un orso polare affamato non è esattamente o indiscutibilmente l’immagine del cambiamento climatico, come il National Geographic suggeriva: l’animale forse soffriva di qualche malattia che gli impediva di cacciare, o era semplicemente troppo vecchio per farlo. Per quanto straziante, insomma, il video di Nicklen e Mittermeier può forse appartenere alla stessa area concettuale del cambiamento climatico, ma difficilmente può esserne considerato l’immagine univoca; nulla prova che la sofferenza dell’animale (quella sì innegabile) fosse in alcun modo legata al global warming, ma il video, toccante, rappresentava un’occasione troppo ghiotta per non unire i puntini tracciando un disegno di sicuro effetto giornalistico. “Con quell’immagine”, commenta Mittermeier, “pensavamo di avere trovato un modo per aiutare la gente a immaginare che aspetto avrebbe avuto il futuro del cambiamento climatico. Siamo stati, forse, ingenui”[2].
Uno dei grandi problemi del discorso intorno al cambiamento climatico e all’Antropocene in generale è proprio questo: la tendenza a rappresentarli come fenomeni più catastrofici di quanto non siano – o meglio, dotati di una catastroficità più visibile e più facilmente contestualizzabile di quella che questi fenomeni hanno poi in realtà. Attivisti, giornalisti e narratori sono sempre in bilico tra due poli opposti: provare a raccontare i molti e spesso poco spettacolari aspetti del cambiamento climatico così come esso si sta verificando, oppure drammatizzarlo con immagini e storie che però, per quanto eloquenti, hanno poco a che spartirvi.
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L’immaginario ecologista si modella sin dai suoi albori intorno a una retorica apocalittica[3]. Un esempio eccellente, su cui torneremo nei prossimi capitoli, sono le pagine iniziali di Primavera silenziosa di Rachel Carson, uno dei testi fondanti dell’ambientalismo contemporaneo, in cui gli effetti dell’uso di pesticidi su una cittadina americana sono raccontati tramite una speculazione post-apocalittica che la dipinge inquietantemente vuota di vita. Anche un saggio scientifico come The Collapse of Western Civilization di Naomi Oreskes e Erik M. Conway adotta come cornice un racconto di fantascienza: il libro è scritto come se gli autori fossero scienziati del ventiquattresimo secolo che si interrogano sul nostro presente – appunto descritto come l’epoca del collasso della civiltà occidentale.
In altre parole, le rappresentazioni fantascientifiche e catastrofiche del cambiamento climatico prendono le mosse da un repertorio documentario di attivisti che si fonda già di suo su una retorica apocalittica in maniere che offrono pochi paragoni nella storia culturale recente. Da settembre 2020, tanto per fare un esempio, gli artisti Gan Golan e Andrew Boyd hanno resettato il Metronome di Union Square a New York (un enorme orologio digitale sulla facciata di un palazzo) affinché mostri quanto manca all’ultimo momento possibile perché il pianeta arrivi a zero emissioni, contenendo così il riscaldamento dell’atmosfera terrestre di un grado e mezzo Celsius [4]: un’iniziativa paragonabile solo al Doomsday Clock inaugurato nel 1947, durante l’era atomica. C’è però una differenza essenziale: il Doomsday Clock segnalava la probabile distanza da un conflitto atomico, in grado (quello sì) di spazzare via la razza umana o almeno buona parte di essa (la mutua distruzione assicurata ricordata nel primo capitolo). Il riscaldamento dell’atmosfera terrestre, invece, è un evento disastroso, una catastrofe globale senza precedenti, ma certo non è la fine del mondo.
Eppure, la metafora apocalittica è spesso una componente necessaria del discorso ambientalista, perché è quella più in grado di fare impressione sul pubblico e sui governi; allo stesso tempo, però, è inevitabilmente inadatta a una rappresentazione fedele del cambiamento climatico. […] Come si sa, il cambiamento climatico è una concatenazione di fenomeni in larga parte invisibili, i cui nessi di causalità sono spesso difficilmente discernibili per i non addetti ai lavori, a cui è complesso attribuire manifestazioni direttamente percepibili, e soprattutto che avviene su scale geografiche e temporali talmente vaste da sfuggire al nostro consueto modo di pensare la storia e gli eventi.
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Davanti alla radicale irrapresentabilità (e incomprensibilità) del cambiamento climatico, la letteratura risponde spesso ricorrendo a schemi narrativi noti – nello specifico all’immaginario millenaristico, che però non si adatta alla perfezione. Il cambiamento climatico non è facilmente narrabile perché presenta fenomeni in cui gli umani hanno grande responsabilità come società ma piccola parte in quanto individui, e costringe a sottrarsi alle logiche tradizionali del racconto fondate su protagonisti identificabili e sulle loro parabole di peripezia e maturazione. Come si mostra, se non antropomorfizzandola e banalizzandola, l’agentività della natura?
Ancora, qui non ci sono buoni e cattivi assoluti, ma solo innumerevoli individui con vari gradi di responsabilità e varie giustificazioni o scuse, perché, per quanto variamente declinata in termini individuali, l’origine del surriscaldamento globale è prima di tutto collettiva, sociale. Certamente esistono vari gradi di responsabilità: un impiegato ne avrà meno del CEO di una compagnia petrolifera, e paesi più o meno sviluppati emettono quantità di emissioni pro capite ben diverse. Allo stesso tempo, dietro il surriscaldamento globale non stanno le oscure macchinazioni di pochi o il piano diabolico di qualche mad doctor, bensì uno stile di vita condiviso. Come abbiamo visto nello scorso capitolo, dire che gli effetti o le responsabilità del cambiamento climatico, come delle pandemie, sono collettivi, non significa dire che sono anche equamente distribuiti. Come hanno mostrato in questi anni studiosi di ecocritica decoloniale quali Kathryn Yusoff, Elizabeth A. Povinelli e Malcom Ferdinand[5], Paesi e classi sociali diverse contribuiscono in maniera molto difforme al surriscaldamento globale, e le aree più ricche hanno la possibilità di intervenire più efficacemente contro i suoi effetti, mentre da quelle più povere si mette in marcia un numero sempre crescente di migranti climatici. Anche storicamente, le origini dell’Antropocene/Piantagionocene sono da localizzare in pratiche economiche e culturali europee e poi nordamericane, e nello sfruttamento sistemico di altre aree, popoli e culture. Allo stesso tempo, parlare di una dimensione collettiva di cause ed effetti dell’Antropocene significa porsi in contraddizione con i tradizionali pattern narrativi che vedono un singolo protagonista contrastare i piani di un singolo antagonista chiaramente identificabile.
Soprattutto, il cambiamento climatico è, in un certo senso, invisibile: percepibile e misurabile come discorso scientifico, è tuttavia “il polo opposto del modo esperienziale e personale di conoscere che tende a essere associato alla letteratura”[6]. Come si può raccontare un grafico? Come si mette in scena l’innalzamento della temperatura media terrestre di un grado in due secoli? Sicuramente la Grande Accelerazione ha reso più visibili di prima certi processi, e la sempre maggiore frequenza di eventi climatici estremi rende manifeste al pubblico le conseguenze spaventose del cambiamento climatico. Allo stesso tempo, questi sono epifenomeni che, in larga misura, non esauriscono il cambiamento climatico, la cui totalità e complessità restano sfuggenti.
Queste due criticità nella rappresentazione del cambiamento climatico (la sua dimensione collettiva e la sua vastità concettuale) sono piuttosto evidenti in uno dei primi prodotti hollywoodiani ad affrontarlo, The Day After Tomorrow, fortunato disaster movie del 2004 diretto da Roland Emmerich. Il film ruota intorno a una possibile conseguenza del surriscaldamento globale, lo scioglimento delle calotte polari; questo a propria volta porterebbe al rallentamento della corrente del Golfo e al conseguente raffreddamento dell’atmosfera terrestre. L’ipotesi di una nuova era glaciale non godeva di significativo consenso tra gli esperti quando il film uscì, e ora non ne ha più nessuno, ma quel che importa qui è soprattutto il modo in cui Emmerich decide di mettere in scena gli effetti del cambiamento climatico, e cioè come un evento che si verifica d’improvviso, e si sviluppa in poche ore. Questo, nel film, prende la forma di una serie di improvvise manifestazioni estreme, grandinate, uragani, tempeste: se ripensiamo al concetto di iperoggetto, però, possiamo riflettere sul fatto che nessuna di queste cose è, in sé, il cambiamento climatico, o anche soltanto una sua conseguenza diretta, quanto semmai alcune delle circostanze che lo accompagnano. La scena d’apertura, nota Adam Texler, è ambientata al Polo Nord, dove lo strato di ghiaccio si spalanca sotto i piedi dei ricercatori, in un tentativo di mostrare in maniera drammatica e immediatamente minacciosa gli effetti del cambiamento climatico sull’uomo[7].
Il risultato di questa scelta è una rappresentazione che non solo si focalizza su alcuni epifenomeni chiaramente discernibili, ma si concentra con particolare enfasi su immagini spettacolari e simboli noti, come la grande scritta sopra Hollywood spazzata via da un tornado o la Statua della Libertà congelata (che compare anche nei poster promozionali). L’altro elemento profondamente implausibile è la velocità con cui tutto si svolge: per rispettare le consuetudini del genere a cui appartiene e conservare un ritmo il più incalzante possibile, The Day After Tomorrow è costretto a rappresentare il cambiamento climatico come qualcosa i cui effetti si manifestano nell’arco di mezza giornata, e non su vari secoli, finendo per risultare non troppo diverso, per esempio, dall’invasione aliena di Independence Day (1996), diretto dallo stesso Emmerich.
Il film è inevitabilmente semplicistico anche da altri punti di vista. Per quel che riguarda gli spazi, Emmerich utilizza una gran varietà di luoghi per dare il senso della dimensione globale del cambiamento climatico: l’azione si sposta dal Polo Nord all’India, da Tokyo a Los Angeles, da New York al Canada al Regno Unito, risultando però un assemblaggio frenetico. A dispetto di questa ambizione alla globalità, il film finisce per mostrare in maniera ben poco credibile il procedere del maltempo: nel tentativo di delineare un contrappasso moraleggiante, la tempesta di ghiaccio si ferma praticamente al confine tra USA e Messico, dove i cittadini statunitensi sono costretti a rifugiarsi come profughi. Dal punto di vista ideologico, il messaggio che traspare resta abbastanza elementare: il film si struttura su una serie di opposizioni secche (economia vs clima, scienza vs politica, esperti disinteressati vs establishment) che offrono un quadro leggibile del cambiamento climatico e delle responsabilità dei diversi corpi sociali, invece di focalizzarsi su una dimensione collettiva della responsabilità. The Day After Tomorrow deve gran parte dell’impressione che ha fatto sugli spettatori alla magniloquente spettacolarizzazione di quella “agentività frustrata” di cui parla Estok: allo stesso tempo, tuttavia, inscrive i fenomeni ambientali in un paradigma antropocentrico, facendoli rispondere meccanicamente, prima che alle azioni degli esseri umani, alla loro condotta morale.
Note
[1] La vicenda della fotografia e della sua successiva ricezione è riassunta in Cristina Mittermeier, “Starving-Polar-Bear Photographer Recalls What Went Wrong”, in National Geographic, agosto 2018, https://www.nationalgeographic.com/magazine/article/explore-through-the-lens-starving-polar-bear-photo.
[2] Ibid.
[3] Già in Lawrence Buell, The Environmental Imagination: Thoreau, Nature Writing, and the Formation of American Culture, Princeton University Press, Princeton 1995, p. 285; ma si veda più in generale Greg Garrard, “Environmentalism and the Apocalyptic Tradition”, in Green Letters, n° 3, fasc. 1, 2001, pp. 27-68.
[4] Nel momento in cui scrivo, sette anni, undici mesi e venti giorni. Consultabile qui: https://climateclock.world/.
[5] Elizabeth A. Povinelli, Geontologies. A Requiem to Late Liberalism, Duke University Press, Durham NC, 2016; Kathryn Yusoff, A Billion Black Anthropocenes or None, Minnesota University Press, Minneapolis 2019; Malcom Ferdinand, Une écologie décoloniale. Penser l’écologie depuis le monde caribéen, Éditions du Seuil, Paris 2019.
[6] Axel Goodbody, Adeline Johns-Putra, “The Rise of the Climate Change Novel”, in Adeline Johns-Putra (ed. by), Literature and Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge 2019, pp. 229-245, p. 235.
[7] Adam Trexler, Anthropocene Fictions, cit., p. 91.
Premesso che il commento si riferisce solo all’estratto del capitolo pubblicato, mi vien da dire che l’esposizione analitica ( e inevitabilmente fredda), è indubbiamente interessante ed appropriata. Però non colgo segni di proposte di soluzioni di come la letteratura, non scientifica, possa affrontare il tema veicolando ai lettori l`’urgenza – che inevitabilmente c’è e permane in modo additivo.
“Eppure, la metafora apocalittica è spesso una componente necessaria del discorso ambientalista, perché è quella più in grado di fare impressione sul pubblico e sui governi; allo stesso tempo, però, è inevitabilmente inadatta a una rappresentazione fedele del cambiamento climatico. ” : si cerca forse di sensibilizzare una classe politica (che ha le leve per azionare i meccanismi di trasformazione necessari) che ha una sensibilità vergognosamente inadatta? È una domanda retorica ovviamente.