di Ulisse Dogà
[Esce in questi giorni in libreria, per i tipi di Quodlibet, il volume di Ulisse Dogà Un tempo altro, estraneissimo. Studio sul futuro composto in poesia, di cui riprendiamo qui l’introduzione]
«La poesia», scrive Mandel’štam in un articolo del 1921, «è un vomere che ara e rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati profondi più fertili»[1]. L’analogia è ricca di significati e da qui partiamo per introdurre un’indagine sulla sopravvivenza di significati remoti e inattuali del futuro composto in due poeti che non casualmente si richiamano al magistero del poeta russo, Paul Celan e Antonella Anedda.
La zolla di tempo figura e disvela allo sguardo telescopico del poeta ciò che è divenuto e si è sedimentato in un passato che Mandel’štam desiderava iterabile secondo i canoni di una nuova classicità capace di far convergere nel presente l’eredità di linguaggi “estranei”, ma ancora vivi e in attesa di nuova metamorfosi: domina per lungo tempo nella vita del poeta russo un imperativo etico preciso rispetto alla cultura del passato, ovvero essa è per il contemporaneo «ciò che deve ancora essere»[2], non ciò che è tramontato e morto. Ma la zolla non disvela solo la fertilità del passato; la sua stratigrafia – immagine dialettica in stato di arresto – mostra da un altro punto di vista epoche future come già passate, essa rivela una particolare forma di futuro non aperto alle intenzioni e ai progetti, un futuro compiuto, ovvero un tempo che “sarà stato”.
Il punto perfettivo nel futuro torce lo sguardo panoramico e fotografico sul tempo in una veduta retrospettiva che si stanzia però a una distanza insuperabile e congelante rispetto al presente. È l’effetto più oscuro e paralizzante del rivolgimento del tempo operato dal vomere/poesia; esso può convivere sotto traccia, sotto l’illusione del dominio o dell’assecondamento del tempo, e poi mostrarsi o fare irruzione improvvisamente sfagliando la trama continua degli avvenimenti e delle parentele. Interrotto il rapporto e la reciprocità dei tempi e quindi il legame diretto con le generazioni passate e a venire, l’imperativo etico che domina la prima fase della poesia di Mandel’štam si fa monito, profezia.
Dopo aver sottolineato come nell’ultimo volume di poesie pubblicato da Mandel’štam l’orizzonte diventi oscuro, come il poeta metta in conto ormai l’esilio, mentre il tempo dell’attesa e del progetto lascia il posto al tempo del ricordo, Paul Celan scrive a commento della poesia Primo gennaio 1924 queste brevi e incisive considerazioni: «Colloquiando con quanto ha visto, l’occhio dolorante sviluppa una nuova capacità: esso diventa visionario; accompagna il poema nei suoi sprofondamenti»[3]. Qui Celan è certamente memore delle parole che Mandel’štam aveva dedicato a Dante, più precisamente dei passi in cui il poeta russo si sofferma sugli elementi meteorologici della Commedia, i quali costituiscono un diario impressionistico della storia della terra in cui sono rintracciabili non solo i segni del passato, ma anche del futuro, pur esso «caratterizzato dalla periodicità». Il futuro, ovvero il tempo e l’esperienza che per il mortale deve ancora venire, è nel poema dantesco un tempo “compreso” dalla sua struttura e quindi “raccontato” retrospettivamente: «Dante, che ha saputo conciliare l’inconciliabile, ha modificato la cronologia, o forse, al contrario, proprio perché sentiva i suoni armonici del tempo è stato costretto ad accettare la glossolalia dei fatti, la sincronia degli avvenimenti, nomi e leggende logorati dai secoli»[4].
Anche Mandel’štam, secondo Celan, coltiva nell’ultima fase della sua poesia un metodo anacronistico capace di attraversare i secoli, le ere geologiche passate e future, e di raggiungere un punto nel tempo e nello spazio remoto, da cui è possibile periodizzare il futuro che per l’occhio visionario del poeta è dunque già stato: «Der Dichter», conclude Celan il suo commento a Mandel’štam, «schreibt sich einer anderen, “fremdesten” Zeit zu»[5], «Il poeta si ascrive a un tempo altro, “estraneissimo”»[6]. L’aggettivo “fremdesten” è virgolettato perché tratto dalla terza strofa della poesia Primo gennaio 1924 tradotta e riportata per intero da Celan nel suo saggio:
O, glinjanaja žizn‘! O, umiran‘e veka! O Lehm-und-Leben! O Jahrhundert-Sterben!
Bojus‘, liš‘ tot pojmet tebja, Nur dem, ich fürcht, erschließt er sich, dein Sinn,
V kom bespomo‘ščnaya ulybka čeloveka, in dem ein Lächeln war, ein hilfloses – dem Erben,
Kotoryj poterjal sebja. dem Menschen, der sich selbst verlorenging.
Kakaja bol‘ – iskat‘ poterjannoe slovo, O Schmerz, o das verlorene Wort zu suchen,
Bol‘nye veki podnimat‘ o Lid und Lid zu heben, krank und schwach,
I s izvest‘ju v krovi dlja plemeni čužogo Geschlechtern, fremdesten, mit Kalk in deinem Blute
Nočnye travy sobirat‘. Das Gras zu pflücken und das Kraut der Nacht![7]
Tuttavia con il dativo plurale superlativo «Geschlechtern, fremdesten», letteralmente “per stirpi, estraneissime”, Celan traduce il russo «dlya plemeni chozhogo», reso in italiano da Vitale correttamente con «per estranee stirpi». Se consideriamo l’intera strofa, la traduzione di Celan è, nel suo tradimento, straordinariamente fedele al senso, alla musicalità, alle rime interne e finali dei versi di Mandel’štam. Anche in questo caso, come spesso nelle traduzioni di Celan, la forzatura che spinge in paratassi sostantivo e aggettivo si scioglie a livello ritmico e semantico: il superlativo, concorde negli accenti, restituisce il senso della fratellanza di Mandel’štam con le generazioni passate/future separate dal presente dalla glossolalia dei fatti, irraggiungibili ormai dal “dover essere”, dall’imperativo etico dell’attualità.
Ed è anche attraverso le traduzioni di Celan della poesia di Mandel’štam – che portano a uno «spalancamento»[8] – che Anedda si confronta con il poeta russo come traduttrice, per poi far riflettere i linguaggi di entrambi nella propria esperienza poetica. Anedda però legge le scritture di Mandel’štam e Celan e le distanze in cui si situano non tanto in chiave visionaria, ma malinconica: i loro mondi poetici sono per Anedda isole di parole separate dal continente da traumi e persecuzioni, ma al contempo essi sono luoghi «sotto cui scavare», «materia nera primigenia e decomposta» su cui esercitare il vomere della nostra interpretazione, poiché la loro lontananza da noi «è data dalla profondità, non da un allontanamento estetico»[9].
Ai due modi di guardare alle stratificazioni/generazioni della zolla, allo sguardo telescopico e a quello retrospettivo, corrispondono allora due modi di guardare e di vivere il tempo futuro: il tempo del progetto e dell’impegno, il tempo del “dover essere” da un lato, e il tempo “estraneissimo” della riflessione saturnina e della visione profetica dall’altro. E a questi due modi corrispondono due aspetti dei tempi verbali, imperfetto e perfetto, e in particolare due modalità del tempo futuro: semplice, aperto e intenzionale, oppure composto, anteriore o compiuto.
Mandel’štam, costretto all’esilio e alla lontananza dal proprio ambiente familiare e culturale, scrive in una celebre pagina del suo Viaggio in Armenia che il tempo in cui vorrebbe vivere è il participio imperativo del futuro, forma passiva, nel “dovente essere”; per questo egli ammira il gerundivo latino: «Sì, il genio latino, quando era giovane e avido, creò la flessione verbale imperativa come archetipo di tutta la nostra cultura, che non solo “deve essere”, ma “ma deve essere lodata” – laudatura est – quella che mi piace…»[10] – dove, evidentemente a causa di una distrazione, si deve leggere laudanda est. A questa forma perifrastica che esprime l’idea del dovere nei confronti della cultura, a questo imperativo etico con cui Mandel’štam voleva riproporre una nuova viva classicità, a questa speranza aurorale e rivoluzionaria si oppone la certezza, l’irrevocabilità dell’evento e del destino già scritto, espressa dal futuro composto. Il glorioso gerundivo latino, sopravvissuto nelle lingue moderne solo nella forma sostantivata, scompare di fatto all’alba del Cristianesimo come modo verbale, mentre emergono e lentamente si impongono nella transizione dal latino al volgare altre forme perifrastiche per esprimere il futuro, veicoli di nuove e diverse valenze semantiche; all’intenzionalità e al dovere reiterati dal gerundivo queste nuove forme perifrastiche – da cui si formerà il moderno futuro composto – affiancano la necessità e l’inevitabilità degli eventi sovra-individuali.
Celan e Anedda si ascrivono con la loro poesia e con la loro poetica a questo tempo altro, estraneissimo, e attraverso l’ardito uso del futuro composto cercano di rendere il senso di una percezione sincronica dei tempi, di una particolare visione del futuro che implica un momentaneo arresto e superamento del divenire. Grazie a questo tempo grammaticale la poesia può esprimere particolari stati emotivi o esistenziali in cui sembra che per un instante il soggetto abbia superato eccezionalmente lo stato di contingenza in cui è intrappolato e possa così osservare eventi futuri come se fossero già accaduti – ed è questa soprattutto la funzione di anteriorità del futuro composto. Oppure, secondo la sua funzione di compiutezza, si dà corpo all’idea che al di sopra della volontà di autodeterminazione e progettazione dell’individuo domini una necessità che ha già deciso del nostro destino. Questi valori semantici particolari del futuro composto permettono al poeta di trasvalutare il futuro da dimensione dell’indeterminato e dell’aperto, dell’attesa e della speranza in una sfera dell’assolutamente determinato e del ricordo poiché gli scenari futuri che sono plasticamente espressi attraverso questa forma verbale non sono quelli che ipoteticamente o utopicamente “saranno”, ma quelli che malinconicamente o profeticamente “saranno stati”.
Il valore affettivo legato allo sguardo malinconico e il valore di predestinazione veicolato dalla voce profetica costituiscono, come vedremo, due modulazioni particolari fra i vari e possibili significati esprimibili dal futuro composto. Ai due valori particolari ed estranei alla grammatica di questa rara declinazione verbale – che definiremo negli excursus teorici come valori “evidenziali” – ricorre la poesia e di essi essa si fa da sempre interprete e voce, tanto che possiamo riconoscere nell’uso che la poesia fa di questo particolare tempo verbale due tendenze distinte, riconducibili a diverse premesse esistenziali e filosofiche che in Mandel’štam, erede della classicità latina e della tradizione ebraica, si incrociano per poi dividersi nuovamente. Se preludio della linea malinconica può essere considerato l’arcinoto carme oraziano Carpe diem nel quale si cela un fugerit, un «sarà già sparita l’ora, invidiosa», ovvero un futurum exactum che esprime la vanità e l’illusorietà del tempo della vita alle quali si contrappone il presente durativo dell’atto linguistico, «mentre noi parliamo»[11], ecco che ritroviamo nel capitolo finale dell’ultima silloge poetica di Anedda, Historiae, una altrettanto inusuale consecutio verbale che ripropone quella contemporaneità e apparente contraddizione, matrice di malinconica riflessione, fra le eterne e drammatiche vicissitudini umane e gli attimi sfuggenti dei destini individuali. E se, dal lato visionario e profetico, è Dante che con uno sforzo verbale e figurativo fino a quel momento inedito cerca di far partecipe il lettore dello sguardo certo sugli avvenimenti e sui destini futuri, guadagnato «mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti»[12] e da qui sviluppa la metafora dell’onniscienza divina paragonata a un grande volume in cui tutto è già stato scritto, ecco che Celan nella fase terminale della sua produzione si spinge attraverso il ricorso a questa forma verbale in un futuro certo di solitudine e di morte per denunciare il laceramento e la dimenticanza di quel sacro volume, ovvero la perdita di memoria storica, la mancanza di un legame con la trascendenza, la radicale scissione del soggetto dalla sua umanità e il suo ridursi a materia inorganica.
Fra gli estremi storico-letterari appena abbozzati della malinconia e della profezia si collocano altre e complementari coniugazioni e raffigurazioni del futuro composto che metteremo in relazione alle poesie e alle poetiche di Anedda e Celan. Al capitolo iniziale di questo studio il compito spinoso, ma necessario, di introdurci nei risvolti filosofici e nelle pieghe linguistiche del futuro composto al fine di sgravare l’analisi delle poesie da una certo peso concettuale e di armarci al contempo degli strumenti necessari per una comprensione approfondita della loro grammatica. In ogni caso, come preciseremo meglio nel seguito, essendo l’oggetto di questo studio l’uso di un particolare tempo verbale nella poesia va detto anche in via preliminare che qui non si tratta di una ricerca di “stilistica della lingua” che delimita lo spazio dell’innovazione secondo proprietà strutturali, ossia grammaticali e a priori, ma piuttosto di “un’analisi stilistica” impossibilitata a porre dei limiti e delle convenzioni[13]; il tema grammaticale di questa ricerca verrà considerato allora non come un dato oggettivo, ma come «ipotesi di lavoro»[14].
Note
[1] Osip Mandel’štam, La quarta prosa, trad. it. di M. Olsoufieva, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012, p. 55.
[2] Ibidem.
[3] Paul Celan, La verità della poesia. ‘Il meridiano’ e altre prose, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 20082, p. 53.
[4] O. Mandel’štam, La quarta prosa, cit., p. 181.
[5] Paul Celan, Die Dichtung Ossip Mandelstams, in Ralph Dutli (hrsg. v.), Ossip Mandelstam. Im Luftgrab. Ein Lesebuch, Ammann Verlag, Zürich 1988, p. 81.
[6] P. Celan, La verità della poesia, cit., p. 53.
[7] La traduzione di Celan della poesia di Mandel’štam si trova nel saggio succitato a pagina 78 e ora anche in Paul Celan, Gesammelte Werke, 5 Bde., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2000, Bd. V, p. 145; la traduzione di Vitale in Osip Mandel’štam, Poesie, Garzanti, Milano 1972, p. 45: «Vita d’argilla! Agonia del secolo! / Ho paura che solo ti capisca / chi porta sulla bocca l’impotente sorriso / di chi ha perso se stesso. / Il dolore di cercare la parola persa, / di sollevare le palpebre malate / e con la calce nel sangue, per estranee stirpi, / raccogliere erbe notturne!».
[8] Antonella Anedda, Introduzione, in Philippe Jaccottet, La parola russia, a cura di A. Anedda, Donzelli Editore, Roma 2004, p. 62.
[9] Antonella Anedda, Introduzione, in Biancamaria Frabotta (a cura di), I poeti della malinconia, Donzelli Editore, Roma 2001, p. XX.
[10] Osip Mandel’štam, Viaggio in Armenia, a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1988, p. 67.
[11] Fra le numerose traduzioni del carme oraziano citiamo, come spiegheremo nel seguito (cap. 2.3.), quella di Alfonso Traina contenuta in Id., Autoritratto di un poeta, Osanna Edizioni, Venosa 1993, p. 68.
[12] Per il testo della Commedia abbiamo fatto riferimento a Dante Alighieri, Commedia, 3 voll., con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1994.
[13] Cfr. Benvenuto Terracini, Analisi stilistica. Teoria, storia, problemi, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 82-83.
[14] Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970, p. 5.