di Franca Mancinelli e John Taylor
[Questo dialogo raccoglie le discussioni e gli scambi avvenuti per mail durante il lavoro di traduzione che John Taylor ha fatto di Tutti gli occhi che ho aperto di Franca Mancinelli uscito per Marcos y Marcos nel settembre 2020, e apparso in inglese su varie riviste. In occasione del premio “Europa in versi” 2021 che verrà conferito il 23 ottobre a Como a Tutti gli occhi che ho aperto, pubblichiamo la traduzione, con alcune varianti, di questo dialogo apparso in inglese sulla rivista Hopscotch Translation. In fondo, la motivazione del Premio Europa in versi, firmata da Milo De Angelis].
La distanza tra due lingue e due culture; la distanza, non soltanto geografica, tra due scrittori che tentano di colmarla attraverso l’esercizio quotidiano dell’attenzione e dell’ascolto, è diventata nel tempo “una radice”, da cui è germogliata la mia traduzione di Libretto di transito di Franca Mancinelli, The Little Book of Passage (2018), e dei suoi due primi libri di poesia con alcuni inediti, At an Hour’s Sleep from Here. Poems (2007-2019), entrambi editi da The Bitter Oleander Press (New York). Quello che segue è l’estratto di un dialogo che ramifica con il nostro lavorare insieme. (J. T.)
JOHN TAYLOR: Ho tradotto le sequenze di Tutti gli occhi che ho aperto prima che tu dessi loro un ordine definitivo per la pubblicazione del tuo libro in Italia. Dalla nostra corrispondenza so che hai dedicato molto tempo a pensare e a sperimentare l’ordine nel quale le sequenze avrebbero dovuto disporsi. Ciò che ne è risultato è una struttura, anzi un’architettura, di affascinante complessità. Allinei le sequenze in modo tale che ci sia un percorso esistenziale, ontologico e persino spirituale, ma le intessi anche in modo non lineare, attraverso echi e corrispondenze spesso derivanti da immagini e parole chiave ricorrenti o dai loro sinonimi. Inoltre, mentre un libro di solito procede da un inizio a una fine, qui una fine sembra portare a un inizio, o forse dovrei dire che diverse forme, diversi aspetti di “fine” si risolvono in diversi “inizi”.
FRANCA MANCINELLI: Cerco di creare uno spazio in cui il significato possa affiorare, prendendo forma in una sequenza di testi e trasmigrando in quelle successive. Questo significato è una scia intermittente che attraversa tutto il libro al di là dei cambiamenti dello spazio-tempo e del soggetto che prende parola, umano o vegetale, come in Alberi maestri, appartenente ad antiche statuette votive o a una presenza protettrice della luce come Santa Lucia, a una migrante accampata o una donna nella sua quotidianità liminare. Come suggerisce l’epigrafe, la presenza che dà voce al libro assomiglia a quella plurale e aperta di uno stormo in viaggio che «non può disperdersi / si ricompone a ogni svolta».
Ciò che accade in un bivacco di migranti al confine tra Croazia e Serbia, può riverberarsi nell’interno domestico di una donna che si prepara il caffè. Questa sovrapposizione di piani e tempi, questa multidimensionalità, si è creata senza che me ne accorgessi. Nel silenzio aperto dopo Pasta madre, mentre aspettavo che nascesse in me un’altra lingua, sono arrivate le poesie in prosa di Libretto di transito e altri testi, in versi e in prosa, a volte nati da progetti, da inviti che hanno mosso la mia rotta in direzioni dove forse, da sola, non sarei andata. Quando poi mi sono ritrovata a cercare la traccia in cui fare confluire tutto questo, ogni sequenza ha trovato il suo posto, scandendosi in un ritmo tra narrazione e visione, tra io e noi, fino a sfumare ogni distinzione, per lasciare che qualcosa di più forte attraversi le pagine, ricreandosi ogni volta.
Tre pagine bianche segnano i cardini di questo movimento: la soglia in cui riaffiora il tema dei migranti, forse il motivo esterno più forte, rispetto ad altri più intimi o onirici, di altre sezioni. Ma nell’interconnessione che governa tutte le immagini del libro, non ha in realtà alcun senso parlare di “esterno” o “interno”. Per esempio, la voce che rinasce dopo quella iniziale della migrante, accoglie le vibrazioni di quella violenza e in qualche modo risponde a quell’avvenimento, trasformandolo e portandolo in un altro spazio, su un altro piano di realtà, dove a quel dramma fa da controcanto «un sorriso perenne», quello che ognuno di noi porta nel teschio. Forse è necessario passare attraverso “le morti” del nostro io o di parti di noi, perché si possa aprire un altro occhio, un altro sguardo sulla realtà. Forse è proprio questo che chiede il libro.
J.T.: Uno dei temi che alimenta il nostro dialogo sulla traduzione, la letteratura e le tante questioni della vita, è quello del rapporto tra il buio e la luce. Quando abbiamo fatto una lettura insieme a Bologna, nell’aprile 2018, hai introdotto le tue osservazioni sul mio libro The Dark Brightness, uscito in Italia come L’oscuro splendore, con un passo di Giorgio Agamben tratto da Che cos’è il contemporaneo? Secondo Agamben il poeta che sa essere contemporaneo “è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. èTutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente”. La profonda intuizione di Agamben sembra intimamente associata a Tutti gli occhi che ho aperto. La parola “oscurità”, o uno dei suoi sinonimi, compare almeno venti volte in questo libro; la parola “luce” e termini simili, ugualmente spesso. Racconti, per così dire, il confronto tra luce e oscurità e, mi sembra, il ruolo necessario che l’oscurità svolge nella nostra presa di coscienza, nell’“illuminazione”.
F.M.: Stare al buio ci permette di affinare la vista, di riconoscere quella parte delle cose che si fa invisibile nella luce. Avvicina i nostri occhi a quelli degli animali, aperti a captare le vibrazioni della materia. E, come afferma Agamben, ci permette di cogliere i segnali di qualcosa che è in viaggio verso di noi, di una luce ancora non percepibile: un messaggio che proviene da un tempo altro, dall’origine. Soltanto nella sua prossimità possiamo essere davvero presenti al nostro tempo, capaci di riconoscervi ciò che ancora rinasce. Questa costante presenza del buio e della luce mi era stata fatta notare già dal mio primo libro, Mala kruna.
Credo sia al centro della mia scrittura, anche se in quest’ultimo libro, probabilmente, lo è in modo ancora più forte, perchè fin dal titolo richiama il tema degli occhi, della possibilità di vedere. Quanto più riusciamo ad aprire gli occhi nell’oscuro che portiamo in noi, quanto più siamo, anche se in un modo sempre precario e provvisorio, salvi. Di oscurità si nutrono i nostri demoni, che crescono e tornano a prendere potere sulla nostra vita.
Per esempio, la sequenza Camera oscura contiene frammenti di uno stare nel nero di una relazione riconosciuta, fin dall’epigrafe, un «errore». È in qualche modo un ritorno del tema della sezione eponima del libro, ma con una fondamentale differenza: la presa di coscienza che è avvenuta permette di riconoscere il “negativo” di questa esperienza, portandolo dentro la «camera oscura» della scrittura che può trasformare il buio in visione, in conoscenza. È un guardare da occhi che «non si chiudono» di fronte all’oscuro: anche chiusi, continuano a vedere, a guardare dentro il buio, come in un gioco che facevo da bambina, prima di addormentarmi, fissando le forme e le scie che si componevano e scioglievano dentro le palpebre, e come sto facendo ultimamente, in questo periodo in cui mi sono avvicinata alla pratica della meditazione.
J.T.: Proprio come in fotografia si crea una foto da un negativo, tu cerchi di trarre qualcosa di positivo – una visione – da un’esperienza negativa. La stessa nozione di “camera oscura” informa, non solo la sequenza che hai appena evocato, ma più in generale la tua poetica e la tua visione della creatività poetica. Questa fondamentale dicotomia di negativo e positivo, di oscurità e luce, sta diventando più importante nella tua poesia?
F.M.: Forse sì, perché in Tutti gli occhi che ho aperto ho cercato di affrontare una ferita che è tornata a presentarsi più volte nella mia esistenza, con l’intenzione di vederla e restituirla finalmente all’aperto da cui proviene:
proiettile nel petto
incastonata gemma
a segnarmi di scie
lentamente trapasserai
il tuo bersaglio nel buio del cosmo.
La dimensione plurale di questo libro si è generata forse anche da questo desiderio di prendere respiro, e avere altri occhi, altre possibilità di sguardo, non restare inchiodati nella fissità a cui ci consegna il trauma. In questo senso il riconoscersi in viaggio, nello scorrere, è già un movimento oltre il dolore, un ritrovarsi in vita. Tutto il libro è attraversato dal filo sottile di questo volo, di questo migrare, che è quello dello stormo dell’epigrafe iniziale e anche delle prose di Diario di passo in cui torna il tema del viaggio e della condizione di migranti.
Questo titolo, Diario di passo, congiunge i migranti sulla rotta Balcanica all’immagine dello stormo in volo che apre il libro e a quella migrazione a cui siamo chiamati, ogni volta che si trova a compiere “un passo” fondamentale per la propria esistenza, ogni volta in cui si trova di fronte a un valico che lo porta al di là di una montagna, e a un tratto ai suoi occhi si apre un altro paesaggio, un altro orizzonte. Ma si riferisce anche a quel movimento di trasformazione quasi impercettibile, che compiamo ogni giorno, in ogni nostro gesto, in ogni nostro passo.
Questo stato costante di trasmigrazione presiede al formarsi di ogni immagine; torna nella voce femminile finale, che prende parola proprio da un transito (è infatti appena giunta in un luogo indefinito, senza sapere come) e sembra rispondere a quella domanda affiorata nel bosco dove si accampano i migranti: perché sei qui? Il libro si è composto forse proprio attorno a questa domanda che in Diario di passo richiama le ragioni dello scrivere di fronte a una realtà che congela le mani e le parole, e fuori da quella sezione si fa assoluta, chiede la ragione di un’esistenza. Il libro si conclude infatti con un affidamento a una forma di vita: un’esistenza che può finalmente darsi, un possibile inizio.
J.T.: Sto ancora pensando alla “luce” e all’“oscurità”. Abbiamo spesso discusso su come tradurre certe parole italiane apparentemente semplici, come “chiaro”, che non è sempre l’esatto equivalente di “clear”. Concentriamoci su “chiarore”, una parola derivata da “chiaro”. La parola appare tre volte in Tutti gli occhi che ho aperto:
“. . . la nuca obbediva al chiarore come una corolla.” [“. . .my nape was obeying the glimmer like the corolla of a flower.”]
“nel folto una scossa
di chiarore rimasto –a vegliarci
come fitta pioggia che aspetta”
[“within the thicket a jolt
of glimmer left—to watch over us
like heavy rain waiting.”]
“nel chiarore d’inizio
curvi sotto una sacca d’amnio . . .”
[“with the first glimmers,
hunched under an amniotic sack. . .”]
L’immagine qui può essere interpretata metaforicamente, ma si basa anche su percezioni reali. Cos’è questo “chiarore”, che gioca un ruolo benefico in questi brani?
F.M.: Non potrò mai ringraziarti abbastanza per il dono della tua attenzione. Solo il tuo sguardo poteva portarmi a riconoscere questo “chiarore” che ritorna! È legato a un momento di particolare intensità in cui tutto può avere inizio. Ho questa percezione quando guardo nel chiarore del crepuscolo gli alberi, i crinali delle colline, e sento che qualsiasi cosa sia accaduta durante il giorno, è riparata. In questo momento gli animali selvatici escono dalle loro tane e a volte attraversano il nostro cammino lasciandoci con una scossa di bellezza, come nel contatto con un mondo altro. Appaiono a un tratto, come portandoci un messaggio, per scomparire presto nel folto. Così, in qualche modo, questo chiarore ci ricorda che tutto è possibile, tutto può cominciare, tutto è ancora immerso nella vita.
J.T.: La “luce” è anche legata alla chiarezza, alla lucidità, alla possibilità di illuminarsi in misura maggiore di prima. La luce è anche “vedere”, un altro tema principale di Tutti gli occhi che ho aperto, in particolare come recuperare il vedere, come acquisire nuove intuizioni, come raggiungere nuove possibilità di visione. Nella sequenza 13 dicembre fai riferimento alla vita di Santa Lucia, la patrona della vista. Nei dipinti che la raffigurano, a volte tiene i suoi occhi su un piatto d’oro. Tu scrivi, magnificamente:
guardo i tuoi occhi sul piatto
grani di un viso che vibra
aperto come l’azzurro
su un campo mietuto.
I look at your eyes on the plate
grains of a vibrating face
open like the blue
over a harvested field.
Come ti sei interessata per la prima volta a Santa Lucia?
F.M.: È stato per un invito di un giornalista di Bergamo che organizza ogni anno una lettura concerto dedicata a Santa Lucia. Bergamo è infatti una delle città italiane dove il culto della santa è molto sentito, e dove i bambini la notte tra il 12 e il 13 dicembre si addormentano aspettando i suoi doni. Ho scritto questi frammenti raccogliendo polveri e rifrazioni da immagini della vita della santa, in particolare dalla pala di Lorenzo Lotto conservata a Jesi.
Non davo molta fiducia a questi testi, fino a che, rileggendoli mentre stavo costruendo Tutti gli occhi che ho aperto, mi sono accorta che rientravano perfettamente nella trama del libro, non soltanto perché Santa Lucia è patrona della vista, ed è spesso raffigurata con gli occhi su un piatto o una coppa, ma anche perché la sua figura accoglie antichi elementi pagani, legati al giorno più buio, il solstizio d’inverno, in cui la luce ricomincia a crescere.
Una fine e inizio come quella che Tutti gli occhi che ho aperto accoglie, nel suo ripetersi. Questa giovane donna che file di buoi non hanno potuto spostare, né il fuoco bruciare, è diventata una presenza indistruttibile: luce che oltrepassa ogni impedimento, resiste a ogni violenza. Questa sequenza insieme a quella dedicata Ai piccoli offerenti in bronzo ritrovati sul monte Titano, rappresenta un momento di ritualità e di preghiera per attingere luce e forza prima di entrare nella Camera oscura e affrontare i suoi demoni distruttivi.
J.T.: Le diverse leggende su Santa Lucia sembrano rinviare al tema principale del libro, come espresso nel titolo, tratto da un tuo verso:
all the eyes that I have opened
are the branches that I have lost.
tutti gli occhi che ho aperto
sono i rami che ho perso.
Quando un ramo viene rimosso, spezzato per caso o tagliato intenzionalmente, rimane un “occhio”. C’è un grande dolore, ma questo nuovo “occhio” può consentire di vedere qualcos’altro, o in modo diverso.
F.M.: Questo possibile collegamento mi appare soltanto ora, grazie ai tuoi occhi! È vero, Santa Lucia secondo le tante versioni della leggenda, avrebbe riavuto miracolosamente gli occhi dopo averli dati in dono, dopo che le erano stati tolti nel martirio, o dopo che lei stessa se li era strappati. Quella frase scandita in due versi, l’ho ascoltata in un bosco dell’Appennino da un albero, un faggio probabilmente, uno dei mie “alberi maestri”. Una perdita che abbiamo patito con tutte le nostre fibre, lascia in noi una ferita, un occhio aperto. Non potevamo saperlo mentre la linfa smetteva di scorrere o una tempesta si abbatteva su di noi, ma quello che stava avvenendo era necessario, ci avrebbe portato a crescere ancora, verso il nostro spazio di luce. Dopo questo libro, che come ogni libro si scrive insieme alla mia esistenza, vorrei poter guardare oltre i segni delle ferite e scrivere a partire dalle foglie che diramano contro il cielo –dall’esistenza aperta.
J.T.: Quando lavoriamo insieme alle mie traduzioni delle tue poesie, e quando discutiamo di una difficile scelta tra due sinonimi inglesi per una data parola italiana, spesso mi suggerisci di scegliere il termine più semplice e più comune (se non ci sono altri criteri in merito), e in particolare tendi a preferire l’alternativa più “aperta”. È qui che le propensioni realistiche o empiriche dell’inglese devono assecondare, e talvolta cedere, alla ricchezza semantica e alla risonanza dell’italiano. All’inglese piace concentrarsi su un singolo fatto, un particolare, mentre all’italiano – il tuo italiano – piace usare un termine che può avere significati simultanei. Alberi maestri è un ottimo esempio. Per te significa “albero maestro”, albero come guida, punto di riferimento, ma indica anche “l’albero maestro” di una nave. La risonanza semantica di “maestro”, “albero” e “albero di una nave” in italiano funziona allo stesso tempo. In inglese, dobbiamo scegliere, ecco perché il titolo più aperto Master Trees per questa sezione invece di qualche miscela che porterebbe anche “masts” in qualche modo nella faccenda. L’apertura e la molteplicità sono importanti per te, stilisticamente e filosoficamente.
F.M.: Mi torna in mente un’espressione italiana che si usa quando qualcuno sta divagando, sta perdendo il centro del discorso: “dillo in parole povere”. Credo che la poesia avvenga all’interno di questa “povertà”, di questa essenzialità, nella strada che porta direttamente al cuore delle cose. Questa povertà non è penuria, non è mancanza, al contrario è una possibilità di possedere pienamente ciò che abbiamo, riconoscendolo in tutto il suo valore e significato. È una povertà che viene dall’umiltà, dalla prossimità alla terra, e per questo ha in sé tutto ciò che è necessario, non tollera decorazioni e orpelli.
Le parole che porto sulla pagina sono le stesse che abitano quotidianamente tra le nostre labbra. La differenza sta solo in una sorta di dilatazione del tempo che opera la poesia, chiedendoci di intensificare il più possibile la nostra attenzione, sostando sulla soglia di una dimensione altra. In questa sospensione il significato di una parola può aprirsi, come la chioma di un albero che trova finalmente il suo spazio di luce. Così possono trovare vita anche altri significati, semiaffondati o sepolti nella materia della lingua.
La poesia si compone in me spesso seguendo queste illuminazioni che sento quando si apre un condotto vitale a lungo ostruito, quando attraverso il contatto tra due immagini, o attraverso la pausa imprevista di un enjambement, affiora qualcosa di inaspettato, che premeva attraverso gli strati della lingua. In questa possibilità di apertura e di vita è quel fare creativo che la poesia opera nei confronti della lingua, liberandola dai depositi della comunicazione, dai sedimenti prodotti dal nostro uso strumentale e sordo delle parole. Ogni parola può così tornare a risuonare di antichi echi, di vibrazioni ancora non tradotte in una forma, e aprirci, anche solo per un istante, alla fitta trama che ci lega a ogni elemento del cosmo.
J.T.: Mi viene in mente anche un’acuta osservazione sulla tua lingua poetica fatta dal nostro editore, il poeta Paul B. Roth, in una e-mail del 19 aprile 2019. L’impressione di Paul, e sono d’accordo con lui, è che tu vada “in profondità nell’esperienza di sé di ognuno di noi, dove solitamente non c’è linguaggio”. Hai appena detto che devi intensificare la tua attenzione e, per così dire, aspettare su una soglia ciò che verrà verso di te, un’“illuminazione”, per esempio. In questo senso, sei un ricettacolo. Ma c’è anche, contemporaneamente, un ruolo più attivo che devi assumere quando scrivi? Voglio dire, mentre rielabori le tue poesie, le cui prime versioni sono spesso annotate su taccuini, avverti sempre più anche una sorta di tensione che devi cercare di risolvere? Cioè, non solo significati che riceverai, se sarai sufficientemente ricettivo, vigile e paziente, e che ti permetteranno di creare la poesia, ma anche significati nascosti che devi attivamente cercare, inseguire, cacciare?
F.M.: Ho sempre sentito le parole come una traduzione impossibile della vita. Ciò che sfugge alle maglie della lingua, è proprio questo che mi chiama. La poesia nasce da ciò che sta prima e al di là delle parole. È la lingua del non dicibile e del non traducibile (che, nel profondo, costituisce la nostra esistenza). Una lingua prebabelica, una lingua originaria: la vibrazione che attraversa la materia. Ogni volta che parliamo ci scontriamo contro un limite che è nel linguaggio stesso. È un confine definito dall’uomo per vivere in relazione e commercio con i suoi simili. Ci aggiriamo in questo spazio delimitato, come animali nati in cattività che hanno perso il richiamo dell’aperto. La poesia conserva in sé un’antica memoria che ci porta a sentirci prigionieri, a sentirci estranei tra le gabbie del linguaggio. Lotta, con ogni sua sillaba, per un secondo di respiro, per un millimetro di visione oltre le sbarre. Per questo John, come ricordi, non c’è altro da fare che stare in una presenza aperta, come tramiti di questa vibrazione originaria che ci attraversa, e lasciarla risuonare in noi. La traccia che resta sul nostro taccuino, può contenerne qualche moto, qualche iridescenza. Con il tempo, e con i nostri strumenti di artigiani, cercheremo di liberare qualche bagliore in più, qualche altro filamento. È questo il lavorio che porta a dare una forma, una custodia a ciò che altrimenti resterebbe nel non visibile e non percepibile. Quando plasmiamo questa forma con la massima cura e dedizione di cui siamo capaci, accade qualcosa che ci travalica. La tensione che ci ha guidati restituisce un’opera che possiamo riconoscere compiuta proprio quando, nel senso etimologico, non è perfetta, non è portata a compimento: resta aperta alla vita che continua ad attraversarla, nel trascorrere del tempo, nel variare degli occhi di chi riconoscerà ogni volta un altro bagliore, un altro filamento che affiora.
J.T.: Anche le immagini chiave delle tue poesie “si aprono”, in più significati o su più livelli. Faccio un esempio quasi paradossale, una poesia della sequenza Frammenti per una dedica. Una sepoltura, che è immagine di chiusura per eccellenza, annuncia un “inizio”, e le mani immerse nella terra sono “radici all’opera, al lavoro”. Quelle mani simboleggiano qualcosa di promettente. Alla fine consentiranno alle foglie di germogliare e ai fiori di sbocciare.
burial. And beginning. I am potted
and possessed. I live in the earth’s
custody, with hands immersed
like roots at work.
sepoltura. E inizio.
Sono invasata. Vivo in custodia
della terra, a mani immerse
come radici lavorando.
F.M.: Sì, è vero, la poesia mi porta spesso in questo luogo di fine e inizio, nella forza che si sprigiona da poli apparentemente opposti, in quell’energia in cui si raccoglie la possibilità di una trasformazione. Questa tensione verso una metamorfosi l’ho vissuta nella mia esistenza come uno stato di sospensione, di attesa di un cambiamento profondo che mi conducesse oltre il ritornare di vicende legate a una mia dolorosa ferita. È già presente nel mio libro d’esordio, Mala kruna, si fa centrale in Pasta madre, e diviene urgente in Libretto di transito, percorso dall’immagine di una fenditura, di una falda e faglia, un luogo in cui convergono forze opposte, altrettanto potenti, capaci di distruggere e di generare.
In Tutti gli occhi che ho aperto torna più volte il tema del vedere, e anche del vedere con gli occhi chiusi, da dentro, come in un tentativo di mettere esattamente a fuoco e, insieme, di andare oltre questa visione nitida per raggiungere il punto iniziale, l’origine da cui rifondare il proprio essere: “punto gli occhi e si compie / la mia area, il cerchio della vita”. Questo vedere è raggiunto attraverso esperienze di dolore e di perdita che si presentano più volte nel libro, nei soggetti in cui di volta in volta si incarna la voce. Ed è sostenuto da una forza vitale, obbediente alla luce, che ricorda, attraverso gli “alberi maestri”, come ogni ferita sia una possibilità di visione, una possibilità di crescere ancora, verso la forma che ci aspetta.
La metamorfosi tanto attesa avviene spesso contro ogni nostra volontà e desiderio, in quegli eventi che avvertiamo come negativi, nefasti. E, in realtà, questo movimento di trasformazione è in atto, sta continuamente avvenendo nel nostro presente; se non lo avvertiamo è perché ci mancano gli occhi, ci manca l’attenzione necessaria per riconoscerlo e fare sì che possa trovare spazio dentro di noi. Per questo è necessario sapersi abbandonare alla perdita, alle tante morti che attraversiamo: lasciare che vengano meno parti di noi, perché sia possibile un nuovo inizio.
J.T.: Questa è una delle tue idee profonde e centrali. Fai spesso riferimento ai versi che aprono e chiudono East Coker di Eliot : “Nel mio inizio è la mia fine”, “Nella mia fine è il mio inizio”. O come scrivi tu nella poesia che citavo prima: “sepoltura. E inizio.“
Sì, torno spesso a quei versi di Eliot perché credo che contengano un insegnamento fondamentale. Siamo portati a dimenticare la presenza della fine nella nostra vita, e questo ci indebolisce, ci porta fuori strada. La poesia invece ci guida nel ritmo che attraversa la natura, il movimento della materia, nella fine-inizio che accade ogni volta che un verso incontra il bianco della pagina, e poi è capace di rigenerarsi, di ricominciare, dando vita a un altro verso, oppure a un silenzio più ampio da cui sorgerà un’altra poesia.
Una sepoltura assomiglia molto all’interramento di un seme. Dipende dagli occhi che apriamo per guardarla. Mi piace pensare ai nostri morti, e alle morti che dobbiamo abitare nell’esistenza, come a semi piantati nella terra che attendono l’acqua e il tempo necessario per germogliare. Questi versi che citi nascono anche dal doppio significato che in italiano ha il verbo “invasare”: piantare in un vaso e anche invadere la mente e l’animo di qualcuno, portandolo a perdere il controllo razionale; “sono invasata”: “I am potted / and possessed”, come traduci in inglese.
Nel mondo antico, per esempio, le sibille, le sacerdotesse, erano invasate da un dio. Questa voce che prende parola è protetta dalla terra, vive in sua custodia, perché è piantata e, insieme, perché ha accolto in se stessa un’altra forza che le permette di lavorare, di creare con le sue mani-radici. Questo frammento, insieme agli altri di questa sequenza, è infatti dedicato al lavoro trasformativo dell’arte.
J.T.: Radici, semi: questi elementi naturali sono essenziali per te. Direi che questa poesia riassume una delle tue aspirazioni più profonde:
I branch out according to the light
master trees
to open my chest wide
with the strength that comes from a seed.
ramifico secondo la luce
alberi maestri
a spalancarmi il petto
con la forza che viene da un seme.
F.M.: Sì, forse è proprio letteralmente così: diventare un albero è uno dei miei più profondi desideri. È anche per questo che li riconosco come “maestri”, guide e riferimenti nell’esistenza e, insieme, ciò a cui nelle tempeste possiamo tenerci saldi, ciò che permette il viaggio della nostra navicella terrestre. Mitologia degli alberi di Jacque Brosse è un libro che ho amato molto e che ho incontrato proprio nel periodo in cui scrivevo i versi di questa sequenza. Ma il mio sguardo li ha sempre cercati, istintivamente, come protettori, almeno dalla prima adolescenza, quando mi sono ritrovata ai margini del mio cerchio di amici; il senso di estraneità che provavo con i miei coetanei, era rinfrancato se ritrovavo la presenza vicina di un albero: il testimone delle mie sofferenze interiori, il confidente più intimo, che non aveva bisogno di alcuna parola, e insieme l’alleato che mi ricordava una più profonda e salda appartenenza. Negli anni non ho mai smesso di cercarli, di tenere negli occhi i loro rami come una risposta intraducibile a una domanda che non so pronunciare, e che abita in me come la linfa che regge ogni gesto. Questi originari tramiti tra la terra e il cielo, sono tornati a parlarmi nel periodo di Libretto di transito, quando mi dibattevo non riconoscendo radici né una terra in cui poterle affondare. Attraverso un’antica immagine che da Platone mi ha raggiunto tramite Simone Weil, mi hanno ricordato che stavo cercando nella direzione sbagliata: “l’albero è radicato al cielo”. Forse è per questo che ho sempre guardato e continuo a guardare i rami, soprattutto nudi, al crepuscolo, quando si stagliano nell’azzurro come trame di una lingua che non siamo ancora riusciti a decifrare. Tra gli umani e questi esseri c’è una distanza fatta di un’intima, molecolare prossimità; forse un giorno riusciremo a infrangerla, forse è destinata a restare così: una distanza come una radice che ci nutre, che ci permette di crescere. È la stessa che c’è tra le relazioni umane che si sono, in qualche modo, radicate al cielo, e che per questo aprono meravigliose chiome sulla terra, ramificando secondo la luce. Qualcosa di simile è capitato con il nostro incontro, John. Uno di quei fondamentali incontri che, come alberi maestri, guidano la nostra esistenza.
Foto di Samuele Bellini
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Motivazione del Premio Europa in versi a Franca Mancinelli
di Milo De Angelis
Franca Mancinelli scrive un libro potente e allucinato, biografico e cosmico, capace di avventurarsi nei regni del sogno con una mappa dettagliata, con uno sguardo concretissimo e delirante che nomina una località dei Balcani con la stessa voce con cui grida l’esplosione di una cometa o di un nervo ottico. Ne scaturisce il ritratto di un’anima solitaria che non appartiene a nessuno, nemmeno a se stessa, ma è figlia del suo viaggio e della sua visione, innamorata di un ramo spezzato, folle di riconoscenza per la venatura di una foglia, un granello di zucchero, una pagina scura, tre sillabe di silenzio dove si delinea la figura del nostro destino.