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di Pietro Bianchi

[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post.  Questo articolo è uscito il 5 aprile 2012].  

“Tutte le cose meravigliose che ci dicevano del comunismo erano false, ma il vero problema si rivelò che tutte le cose terribili che ci dicevano del capitalismo erano assolutamente vere”. È questa una delle fulminanti frasi di Los lunes al sol (2002), pronunciata da un ex-operaio di origini russe che insieme ad un gruppo di disoccupati costituisce il nucleo centrale dei personaggi del film. Siamo a Vigo, in Galizia, gli anni attorno al duemila. È in atto un grande processo di dismissione della cantieristica navale delle regione, all’epoca uno dei settori industriali più importanti di Spagna. E non stiamo parlando di una storia di finzione (anche se sembra assurda visti gli attuali problemi di una Spagna in declino industriale), tant’è che le primissime immagini con cui si apre il film sono spezzoni di telegiornali che riportano i durissimi scontri avvenuti in Asturia tra le forze dell’ordine e gli operai dei cantieri navali. La storia – racconterà De Aranoa – prende avvio proprio da quell’avvenimento e da una delle più concenti sconfitte sindacali di quegli anni, che come tutte le sconfitte sindacali iniziano con una divisione tra i lavoratori. Scrive De Aranoa:

Furono le immagini delle mobilitazioni dei lavoratori di Gijón sui telegiornali nazionali che ci portarono da loro. Stavano difendendo il posto di lavoro di ottanta loro colleghi precari. Alcuni giorni più tardi, durante una grande assemblea sindacale alla quale assistemmo a Gijón venne perso [ndr: con la firma di un accordo che viene menzionata nel film] quello che con grandi sacrifici si era difeso nelle strade. Ottanta operai si ritrovarono senza lavoro come risultato di un processo molto più ampio di cui furono vittime, ma di cui non volevano essere complici.[1]

De Aranoa ambienta il film qualche anno più tardi, prendendo spunto dalla vita di due veri sindacalisti, Cándido González Carnero e Juan Manuel Martínez Morala, e immaginandoseli con pochi altri ex-colleghi di lavoro passare le giornate in un bar fuori dal cantiere (quasi a voler simbolizzare l’impossibilità di abbandonarlo) in una Vigo semi deserta, come se senza il lavoro non ci possa che essere una stanca ripetizione di giornate sempre uguali e un’impossibilità perfino di immaginare un cambiamento. Los lunes al sol potrebbe infatti rappresentare la più nitida dichiarazione di poetica e di politica di De Aranoa e la direzione che gli altri film con altre storie e altre sensibilità non fanno che ribadire. Se vi è una cifra determinante il cinema del regista spagnolo è infatti l’ambizione di riuscire a costruire una modalità per rappresentare il proletariato e il sottoproletariato spagnolo degli anni duemila. E non è di poca attualità vedere a distanza di qualche anno in questi racconti di disoccupati, ragazzini delle periferie, badanti sudamericane e prostitute di strada una storia “altra” rispetto a quel miraggio spagnolo che aveva caratterizzato gli anni dell’ascesa di Zapatero e che aveva fatto della Spagna una nuova terra promessa per molti giovani europei (in primis italiani) in cerca di lavoro e opportunità. È stato un sogno che si è spento nel giro di un lustro infrantosi sulla cartapesta di una delle più grandi bolle immobiliari degli ultimi anni e su una crescita finanziarizzata che nascondeva un enorme dismissione e declino industriale. Ha il sapore di un’amara preveggenza vedere in Los lunes al sol che sul terreno dei cantieri navali la cui produzione verrà trasferita in Corea verranno costruiti degli appartamenti di villeggiatura sul mare. Oggi sappiamo come è andata a finire e chi allora avesse ragione.

Rispetto all’ideologia dei (grigi) tempi attuali che ha gettato nell’invisibilità i luoghi della produzione e del lavoro, e che ha bandito il capitalismo dall’essere un proprio oggetto d’analisi e di critica, il cinema di De Aranoa segna una positiva e decisa controtendenza. Abbiamo già detto della “centralità operaia” di Los lunes al sol, ma anche la storia di Princesas (2005) non è da meno: prende avvio su un problema centrale riguardo all’abbassamento del costo del lavoro. Ovvero la concorrenza della forza lavoro migrante. Non si sta parlando di operai dei cantieri stavolta, bensì di prostitute: una merce (perché di quello si tratta) che non conosce crisi economica. Anche nelle periferie abitate da immigrati africani e sudamericani della città di Madrid dove la concorrenza è senza limiti e senza regole. Caye, una prostituta spagnola vede – insieme alle sue colleghe – il proprio lavoro minacciato dalla concorrenza di africane e sudamericane che abbassano il prezzo di una prestazione: dai cento euro delle lavoratrici del sesso di nazionalità spagnola a trenta, persino venti euro delle nuove arrivate. È abbastanza perché si scateni una guerra tra poveri senza esclusione di colpi (siamo sempre in un mercato underground) tra cui non mancano soffiate alla polizia per scatenare improvvise retate tra le concorrenti e regolamenti di conti. In Barrio (1998) invece un gruppo di ragazzini quindicenni deve sbarcare il lunario durante l’estate: le famiglie sono troppo povere per andare in vacanza (mentre in ogni pranzo in famiglia scorrono le immagini delle affollatissimi spiagge di Benidorm o delle isole) e i tre protagonisti si dividono tra lavoretti, piccoli furti e soprattutto tanta noia  sullo sfondo delle case popolari alla periferia di Madrid che ricordano le borgate di Pasolini della Roma dei primi anni Sessanta. Ma per molti, l’unica prospettiva per il futuro è proprio quella di finire nell’unico posto di lavoro sicuro: quello nella criminalità del quartiere. In Amador (2011) si parla di famiglie di migranti sudamericani divisi tra mogli che lavorano come badanti e uomini che fanno i venditori ambulanti di fiori, e dove persino per comprare un frigorifero bisogna fare sacrifici per mesi.

Tuttavia De Aranoa non ci parla di capitalismo con dei film a tesi, né rappresenta il lavoro sublimandolo in ideal-tipi funzionali all’espressione di un concetto. Il suo cinema è eminentemente narrativo, ma la sua scrittura è particolarmente attenta a non allontanarsi mai troppo dal realismo dei propri personaggi e il registro mediano e apparentemente dimesso che ne risulta finisce per avere un’efficacia a volte sorprendente. Formalmente perfino classico, non disdegna il contrappunto delle musiche per stimolare l’accento patetico quando serve, né si fa mancare la punteggiatura di una camera sempre attenta al significato dell’immagine. Si trattiene dal didascalismo a volte tranchant di un Ken Loach, ma non si concede nemmeno le estetizzazioni di un Pedro Costa (anche se a tratti può ricordare sia l’uno sia l’altro). Il regista spagnolo mantiene lo sguardo rasoterra al livello dei polverosi barrios di Madrid o degli interni delle case popolari dove vivono migranti e prostitute. Vediamo bar di quart’ordine e pullman di periferia, tossici che bivaccano nei sottoponti e phone center pieni di migranti ma mai ci è dato da vedere un ufficio con dei colletti bianchi né l’antagonismo diretto con un luogo del potere. Gli sfruttati non hanno sfruttatori in carne ed ossa contro cui combattere, nemmeno quando lo scenario sindacale di Los lunes al sol avrebbe potuto facilmente renderlo possibile. Lo sfruttamento è onnipresente e le tematiche sociali dei suoi film sono lì a dimostrarlo, ma si tratta di uno sfruttamento pervasivo che si incunea nella microfisica delle relazioni tra pari, nei rapporti famigliari, nelle guerre tra poveri ed è dunque uno sfruttamento che si esprime dall’interno delle storie che ci è dato vedere. È questo davvero il segno di tempi, i nostri, in cui il conflitto si fa orizzontale e spesso è fonte di una domanda soggettiva riguardo se stessi e il proprio destino invece che farsi verticale, tradursi in una rivendicazione e diventare autenticamente politico.

 [La versione estesa di questo articolo è stata pubblicata nel catalogo dedicato da Bergamo Film Meeting a Fernando León de Aranoa in occasione della personale dedicata al regista spagnolo nell’edizione 2012 del festival].


[1] http://www.glayiu.org/candidoymorala/spip.php?article19

[Immagine: Fernando León De Aranoa, I lunedì al sole (2002) (gm)].

4 thoughts on “Storie di ordinario capitalismo. Il cinema di Fernando León De Aranoa

  1. “Lo sfruttamento è onnipresente e le tematiche sociali dei suoi film sono lì a dimostrarlo, ma si tratta di uno sfruttamento pervasivo che si incunea nella microfisica delle relazioni tra pari, nei rapporti famigliari, nelle guerre tra poveri ed è dunque uno sfruttamento che si esprime dall’interno delle storie che ci è dato vedere. È questo davvero il segno di tempi, i nostri, in cui il conflitto si fa orizzontale e spesso è fonte di una domanda soggettiva riguardo se stessi e il proprio destino invece che farsi verticale, tradursi in una rivendicazione e diventare autenticamente politico” (Pietro Bianchi)

    Mi chiedo se si possa parlare per queste descrizioni “realistiche” della vita di ‘sfruttamento’, che è un concetto forte solo se collocato in una visione politica conflittuale e antagonista.
    Mancando questa, come ammette lo stesso Bianchi, siamo – credo si possa dire – a una sorta di naturalismo o di neonaturalismo estetizzante. Con tutti i rischi che ne possono derivare: ad es. che questi film sono importanti perché toccano un tema sociale ( operai che perdono il lavoro, prostituzione nazionale e migrante, minori poveri allo sbando). Ma per chi lo toccano? Chi li va a vedere? Daranno “il segno dei tempi” in cui viviamo, ma nessuna scossa né al ceto medio semicolto fruitore di tali pellicole né ai responsabili dello “sfruttamento” che proseguono a imporre diete devastanti perché restano forti e senza veri oppositori e tanto meno a operai, migranti e poveri messi sempre più fuori gioco.

  2. Mi pare ci siano due temi nel commento di Ennio Abate.

    Da un lato c’è il problema della possibilità di mettere in immagini lo sfruttamento, che è in effetti un tema complesso che interroga la storia del cinema politico da quasi un secolo (quanto meno dal cinema sovietico). A mio modo di vedere lo sfruttamento è strutturalmente riluttante a essere messo in immagini perché non è un evento che accade in uno spazio e in un tempo definito (ad es. un luogo di lavoro), ma semmai organizza e mette insieme una molteplicità di eventi che hanno tempi e luoghi enormemente differenti. In Marx lo sfruttamento fa coesistere logicamente e in unico concetto il capitale finanziario, le politiche monetarie, l’organizzazione del lavoro, la sfera del mercato e del consumo etc. ma sono tutti eventi che possono avvenire in tempi diversi e spesso in luoghi molto lontani tra di loro. Come metterlo in immagini? Molti registi politici pensano che sia possibile prendere una macchina da presa e vedere come vive e lavora la classe operaia: per quanto interessante è una soluzione che al massimo rappresenta una forma affatto umanistica di sofferenza che non restituisce la specificità del capitalismo. Per presentificare lo sfruttamento io credo che vada adottata una via indiretta, mediata, dialettica: Ejzenstein lo fece in un modo, Godard lo fece in un altro, Straub in un altro ancora. Può essere interessante discutere di quale soluzione sia stata più efficace ma è indubbio che il problema rimane aperto.
    De Aranoa – che vive in un periodo particolarmente difficile per il cinema dato che la norma psicologizzante è spaventosamente egemone e in un luogo marginale per l’industria del cinema – pur muovendosi in un orizzonte eminentemente narrativo coglie questa necessità di parlare dello sfruttamento in modo indiretto e mediato, e sceglie un insieme di storie in cui il capitalismo si presentifica come catena di effetti. Vi sono momenti nel suo cinema dove in un’immagine si condensa il cortocircuito tra una storia individuale e l’universalità della Storia mediata dal Capitale. Due esempi: in “Los lunes al sol” un ex-operaio licenziato, ormai sulla tarda quarantina, va a dei colloqui di lavoro pensando di potersi ricollocare (la famosa ideologia dell’employability) ma viene sembra battuto da concorrenti più giovani, più agguerriti, che sanno usare il computer meglio di lui che invece è troppo vecchio per averlo potuto imparare. Decide allora prima di entrare a un colloquio di lavoro, di tingere i suoi capelli ormai bianchi. La tensione, l’ansia, ma anche il caldo fanno sì che il sudore lavi via il colore nero che cola sul colletto della camicia lasciandolo sporco di inchiostro e con il bianco dei capelli che riaffiora. In “Princesas” la prostituta protagonista del film decide di rifarsi il seno perché questo le permetterebbe di collocarsi a un livello più alto del mercato del lavoro opponendosi al “dumping” causato dalla concorrenza della forza lavoro migrante (prostitute che chiedono meno della metà), ma questo va ad incidere nel suo rapporto di coppia, nel desiderio che il suo uomo ha per lei, nell’intimità della sua vita privata.
    Vi sarebbero molti altri esempi e naturalmente si può discutere se queste soluzioni siano o meno soddisfacenti (a mio parere, in molti casi lo sono) ma mi pare in ogni caso una direzione molto interessante per poter pensare al problema di come mettere in immagini il capitalismo.

    L’altro tema, se invece questi film siano in grado di “dare una scossa” ai ceti medi riflessivi o “ai responsabili dello sfruttamento”… beh, non è detto che questo debba essere l’obiettivo diretto né del cinema in generale, né tanto meno di un singolo film in particolare. Il cinema naturalmente ha un proprio ruolo limitato all’interno del grande insieme delle politiche culturali e della costituzione del visivo, ma per il cambiamento, forse, è ancora meglio rivolgersi alla politica.

  3. Bene per il cinema che sa ancora raccontare storie e limita il documentario! Ma è un mio gusto.

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