di Marco Nicastro

 

È stata un successo, anche inatteso nei numeri, la raccolta di firme sul referendum per la legalizzazione dell’eutanasia. Oltre un milione e duecentomila quelle raccolte in quattro mesi, una campagna referendaria da record, se si tiene conto del sostanziale silenzio dei media sulla stessa. Il successo testimonia la grande sensibilità della popolazione italiana su questo tema e il fatto che l’iniziativa di Marco Cappato e della sua associazione ha colto qualcosa di importante che da anni si muove nella società italiana, a tre anni dall’invito della Corte costituzionale al Parlamento affinché promulghi una legge sul suicidio assistito.

 

Tuttavia, in attesa che il quesito passi al vaglio della Corte, si intravedono già i primi movimenti politici volti a creare ostacoli un’eventuale, credo ritenuta probabile, vittoria del Sì al referendum e successiva promulgazione di una legge. Tali preparativi si collocano, come spesso accade dinnanzi ai progressi o comunque a importanti cambiamenti civili e sociali, sul versante di destra e cattolico del panorama politico del nostro Paese. Mi sembra tuttavia che in questo caso i partiti conservatori, più che per convinzione teoricamente fondata – stanti le argomentazioni usate a difesa di queste posizioni – si lascino passivamente guidare e facciano da puntello e amplificatore sociale a un volere che è proprio di una parte ristretta della società (le gerarchie ecclesiastiche e alcuni movimenti cattolici), auspicando un tornaconto in termini di legittimazione e consensi elettorali.

 

A mio avviso sono due i motivi profondi di opposizione della Chiesa cattolica al diritto all’eutanasia. Il primo ha a che fare con la questione del potere. Le religioni, specie quelle monoteistiche caratterizzate dalla presenza di un dio personale capace di stabilire un rapporto ravvicinato coi propri fedeli, hanno sempre cercato di incutere direttamente o indirettamente il timore di future punizioni dopo la morte per chi non si fosse comportato bene in questa vita. Non bastava dare agli uomini degli insegnamenti in vita per portarli ad agire bene: bisognava anche incutere la paura di ricevere una punizione divina ed eterna qualora ci si fosse allontanati dalla retta via. È stato grazie al potere garantito dalla paura della punizione divina, unito alla garanzia di una vita oltre la morte per chi seguiva determinati precetti – garanzia che leniva l’angoscia più profonda dell’uomo, quella della morte appunto – che la Chiesa cattolica (ma anche altre confessioni) ha nei secoli tenuto sotto controllo le coscienze e il comportamento di milioni di persone, non solo tra gli strati meno acculturati della popolazione. Tuttavia, questo potere di capire e decidere cosa potesse avvenire dopo la morte non era direttamente esercitato da Dio, il cui pensiero e la cui manifestazione rimangono tendenzialmente imperscrutabili per l’uomo, ma da quegli uomini che erano ritenuti all’interno di un certo credo religioso i vicari o rappresentanti o mediatori del volere di Dio sulla terra, per il fatto stesso di aver acquisito una maggiore vicinanza allo stesso attraverso studi, un certo tipo di vita, o l’essersi sottoposti a un sacramento. In sostanza, in molte religioni è stata creata una disparità di capacità e di potere tra chi amministra il culto e i fedeli, con i primi a farsi portavoce o interpreti del volere di Dio e della sua parola, così come espressa nei testi ritenuti sacri. Tale potere, basato sulla capacità di scrutare il volere di Dio, ma anche di rassicurare e assolvere gli uomini dai propri peccati (intesi appunto come allontanamento dal volere di Dio) e quindi anche di assicurare un riavvicinamento degli uomini a Dio, ha consentito e consente un certo controllo delle coscienze, anche in società e in epoche sempre più materialiste, acculturate e agnostiche come quella in cui viviamo. E ciò perché la paura della morte è una paura atavica e profonda, non eliminabile dall’animo umano, capace di far sentire i suoi effetti in chiunque. La prima cosa quindi che alcune istituzioni religiose cercano di difendere opponendosi a un quesito referendario sulla legalizzazione dell’eutanasia è il proprio potere sulle coscienze dei singoli (e quindi della società o di una parte di essa), perché nel momento in cui un cittadino può decidere, con un atto riconosciuto socialmente e legalmente, di darsi una morte indolore se si trova in determinate condizioni di salute, toglie ad altri il potere di decidere della sua vita, sancendo a livello sociale l’idea che la morte può essere anche una condizione preferibile alla vita quantomeno in alcune circostanze. La vita quindi non sarebbe sempre e comunque un dono di Dio di cui solo quest’ultimo può decidere – come le gerarchie religiose sostengono – ma una condizione che riguarda innanzitutto il singolo individuo, con cui questi ha a che fare in prima persona e su cui proprio per questo può dire l’ultima parola. Del resto è già così nella vita di ogni giorno: il suicidio non è per chi lo compie un atto illegale, ma viene interpretato dalla società solo come un atto immorale o almeno disdicevole da un punto di vista etico-religioso. Se passasse il quesito e fosse approvata una legge, cadrebbe anche quest’ultima barriera, con la conseguente progressiva liberazione delle coscienze dallo spettro della punizione divina alimentato dell’ideologia cattolica.

 

Il secondo motivo per cui le gerarchie ecclesiastiche si oppongono al referendum ha a che fare, a mio avviso, con la questione del corpo. Molte tradizioni religiose, tra cui quella cattolica, osteggiano il corpo specie perché possibile fonte di piacere, concependolo come una sorta di prigione che può limitare l’accesso dell’anima alle verità divine. Le sensazioni fisiche piacevoli possono allontanare l’uomo da Dio perché nel piacere – e possiamo intendere innanzitutto il piacere sessuale, quello massimamente osteggiato da alcune religioni – l’uomo si dimentica di sé e giunge all’estasi ma del tutto materialmente, senza scopi più alti (come quello di procreare) e senza cercare dio. Un conto è l’estasi cercata dai mistici attraverso la meditazione, la preghiera e pratiche ascetiche varie, altra cosa è quella prodotta da forti sensazioni cerebrali indotte dalla stimolazione dei sensi. Nel piacere del corpo infatti, ogni uomo potenzialmente può sentirsi almeno per qualche momento beato in modo autosufficiente, uscire da sé stesso senza la mediazione di un dio e senza tendere coscientemente a dio; invece le religioni vedevano favorevolmente solo quelle pratiche che punivano e limitavano il corpo, che puntavano anche esteriormente sulla prevalenza dello spirito e del desiderio di dio sul corpo e sul desiderio sensuale. Ne conseguiva che il dolore fisico, sia quando deliberatamente cercato come manifestazione del disprezzo del corpo sia quando non deliberatamente cercato, poteva aiutare l’uomo ad allontanarsi dalla corporeità mostrandogli l’illusorietà dei piacere dei sensi, e fargli desiderare più fortemente, o renderlo più propenso all’unione spirituale con dio.

 

Poco importava poi se il corpo si prendeva sempre in qualche modo la propria rivincita, se il piacere e la sensualità spinti a calci fuori dalla porta rientravano di soppiatto dalla finestra, come sta a testimoniare in ogni tempo l’esperienza di vita di molti uomini comuni e anche dei rappresentanti delle alte sfere religiose, spesso deboli dinnanzi alle tentazioni della carne. Bisognava comunque difendere l’ideologia del corpo come prigione dell’anima e come fonte di disturbo, coi suoi piaceri, dell’anelito a dio supposto presente in ogni uomo. Un corpo quindi che andava soggiogato e attentamente controllato nei suoi impulsi al piacere, mai assecondato né integrabile con l’esperienza spirituale.

 

Alcuni episodi emblematici delle Sacre scritture possono essere interpretati anche come una simbolizzazione di questa idea. Basti pensare, considerando solo la Bibbia, al mito dell’Eden in cui la scoperta della propria nudità sessuale, di cui vergognarsi e quindi da nascondere, era il segno di un allontanamento in atto dell’uomo da Dio (con la conseguente punizione divina condita di fatica e dolore); oppure all’interpretazione della passione di Gesù come un passaggio cercato e necessario per un’elevazione a Dio, elevazione sia metaforica che concreta attraverso la successiva resurrezione dalla morte. È anche per questo che, per fare un esempio concreto, le gerarchie cattoliche osteggiano l’aborto e continuano a farlo anche contrastando, in modi diretti e indiretti, l’applicazione di una legge dello Stato (ad esempio influenzando le coscienze dei medici o, più prosaicamente, le loro possibilità di assunzione o di carriera nelle strutture sanitarie). La donna, in quanto essere umano, non sarebbe libera di decidere del proprio corpo e della sua sensualità (la decisione spetta agli interpreti dei testi sacri), la quale non può che essere finalizzata a un fine più alto del piacere in sé, ossia quello del concepimento, pena il riconoscimento del corpo come fonte di piacere legittima e svincolata da leggi morali (che, per inciso, nelle tradizioni religiose sono stabilite da uomini).

 

Stanti questi principi quindi, se ognuno potesse invece darsi la morte per evitare eccessive sofferenze sia fisiche che psicologiche dinnanzi ad una vita degradata e senza speranza, si sottrarrebbe al calvario del proprio corpo, sottraendosi a quel processo di purificazione, di derivazione religiosa, che contiene in sé il dolore di un corpo inteso come una prigione da cui l’anima vuole liberarsi per ricongiungersi al proprio creatore. L’uomo diverrebbe allora libero di decidere cosa fare del proprio corpo, considerandolo, al contrario di quanto sostengono in genere molte tradizioni religiose, non come prezioso anche in quanto fonte di dolore, non un disturbo se arreca piacere ma al contrario prezioso se arreca piacere o quantomeno serenità e intollerabile se arreca dolori estremi e condizioni degradanti. Un vero ribaltamento di certe concezioni ideologiche alquanto rigide.

 

Se dunque fosse legalizzata l’eutanasia passerebbe l’idea che ognuno, a certe condizioni, può decidere di morire senza sentirsi in colpa, senza dover dare conto di questa scelta a presunti interpreti del volere divino, ma solo alla propria coscienza. Passerebbe socialmente anche l’idea laica che il corpo non vale in quanto prigione dell’anima per la sua sensualità ma ha valore proprio per quella sensualità, e che il dolore estremo di per sé non è qualcosa di positivo che eleva lo spirito, qualcosa magari da cercare o abbracciare coraggiosamente, ma un fenomeno da contrastare in quanto indesiderato e degradante.

Perdita del potere sulle coscienze e del controllo dell’esperienza del corpo dei fedeli è ciò che le religioni (e nello specifico la Chiesa cattolica) non possono concepire. Perché se ogni istituzione ha come fine primario quello di sopravvivere, la perdita di potere spirituale connessa ai possibili cambiamenti culturali indotti dalla legalizzazione dell’eutanasia lascerebbe intravedere lo spettro di un ulteriore ridimensionamento della sua capacità di influenza sulle coscienze dei singoli (inclusi i rappresentanti politici) e quindi della società nel suo insieme. Un ridimensionamento quindi della sua funzione di mediatrice esclusiva delle questioni ultime dell’esistenza umana, sancito dal riconoscimento, etico e legale, della libertà di coscienza dei singoli di decidere in certe condizioni della propria vita.

5 thoughts on “Eutanasia tra corpo e potere

  1. Tralasciando il fatto che in questo articolo si assegna alla chiesa cattolica un ruolo che non ricopre più (d’accordo, è identitario avere un nemico da combattere, ma in questo come in altri campi dalla chiesa vengono al massimo proteste flebili e per dovere di firma, è giusto prenderne atto), una questione che a mio parere l’istituzione della libera eutanasia solleverebbe è: conserveremmo in questo caso il diritto di non essere soppressi quando il potere dovesse giudicare che siamo un peso, anche se noi non condividessimo tale giudizio? Lo so, si calca sul fatto che l’eutanasia è una scelta volontaria, che sono io che decido. Ma pensiamo a un caso che abbiamo sotto gli occhi, quello dei vaccini: io sono favorevole, il vaccino l’ho fatto e non condivido per nulla le proteste sollevate, tuttavia non si può negare che ci sia stata una fortissima spinta dall’alto affinché tutti compissimo questa libera scelta di vaccinarci. Non credo ovviamente che oggi in presenza di una legge sull’eutanasia si eserciterebbero pressioni analoghe per spingere in tal senso chi è debole, bisognoso di cure costose o magari non più produttivo: ma tra dieci, fra venti, fra cinquant’anni, visto che una legge del genere è fatta per durare e per creare una mentalità, che cosa potrebbe accadere? Si tratta di un problema che è giusto porsi.

  2. Se si arriverà al referendum voterò a favore, ma senza molta convinzione. È vero quanto scritto nell’articolo, che l’eutanasia riguarda una questione di potere, ma non solo quello esercitato dalla chiesa (e dalle religioni) sulle coscienze e sui corpi, si tratta anche del potere dell’individuo, dell’idea di poter fare qualunque cosa, anche governare la morte. E da qui nascono i miei dubbi, che, ripeto, non mi impediranno di votare a favore. Due questioni in particolare mi confondono le idee: mi sembra che dietro l’eutanasia ci sia la rimozione della morte quale essa è: evento incontrollato, che arriva quando arriva e che dovremmo accettare nella sua imprevedibilità; anche quale momento terminale della vita, imparando a vivere in qualche modo preparandosi a tale eventualità. Invece, ed è la seconda questione, passa l’idea che anche la morte sia governabile dall’individuo, che risulta così sempre più sovrano su tutto, libero di decidere su ogni cosa e questa mi pare un’idea riduttiva di libertà, che riporta ogni cosa all’individuo, sempre più inteso come soggetto totalmente autonomo, senza legami di responsabilità verso gli altri
    Un altro aspetto dell’articolo mi lascia perplesso, là dove si parla del corpo fonte di piaceri. Mi viene da pensare cosa succede quando la sua vitalità si attenua, quando inizia la decadenza? La società odierna ci insegna a nascondere i segni dell’avvicinarsi della fine, o meglio ancora a comportarci in modo sano per prolungare l’efficienza del corpo e i piaceri che esso ci dà. Tutti i messaggi pubblicitari, ma anche tanta produzione hollywoodiana, sono pieni di questa nuova figura: il 60-70enne ancora in forma, agile, prestante “non ostante” l’età. La giovinezza non finisce mai, non deve finire mai. Ma se la nostra idea di corpo è che deve darci appagamento (non solo sessuale, anche semplicemente di mobilità, di mente ecc.), quando il corpo invecchia facilmente si apriranno le porte della depressione. Se abbiamo rimosso per tutta la vita il momento del decadimento, quando poi sopravviene, e prima o poi succederà a tutti, quando proprio non si potranno più fare camminate in montagna, guidare auto sportive, fare sesso sia pure con viagra ecc. allora tanto vale smettere di vivere. Non c’è questo pericolo?

  3. Concordo totalmente con il signor Luigi. Riflettere anche sul lato potenzialmente oscuro di questa eventuale scelta legislativa non è un atto peregrino, specie in società come le nostre, iperliberiste, dove la misura della vita è quello dell’efficienza, del merito, dell’utilità nel produrre “valore”. E dove si tende alla privatizzazione sempre più marcata della responsabilità, per la qual cosa si deve introiettare nella coscienza il senso dell’utilità complessiva della propria vita all’efficienza del mercato, sì da trarne le debite conclusioni in caso si diventi un costo non ripagabile, a meno di cospicue risorse personali.

  4. Sono molto d’accordo con quanto scrive Luigi, direi che l’inevitabile introduzione di una legge che consente la scelta della “buona morte” (e come si può negarne il diritto a chi la vuole per sé?) rischia di portarci verso una antropologia modellata fin nel profondo dalle ragioni tutt’altro che umane del nudo calcolo economico (se non servo più, se il mio dolore non serve a niente, se sono soltanto un capitolo di spesa, meglio morire). Quanto questo possa dirsi una conquista di civiltà non saprei dire. Quanto all’articolo mi pare trascurare drasticamente l’elemento propriamente spirituale dell’esperienza religiosa (fede-speranza-carità, per intendersi) a vantaggio di una lettura storico-sociologica un po’ scontata e ormai anche superflua, per molti versi, e anche in questo concordo con Luigi.

  5. Non condivido l’argomento della china scivolosa brandito da Luigi e accettato da Alberto e Mauro. Anzitutto, le modalità di accertamento della volontà seria, genuina, informata del soggetto che sceglie di porre fine alla sua esistenza in condizioni di sofferenza psico-fisica sono ampiamente collaudate e nessun sanitario (od operatore giuridico) si sognerebbe di applicarle a cuor leggero. In secondo luogo, la pretesa linea di congiunzione tra la vaccinazione anti-Covid e la dolce morte imposta dallo Stato a chi non potesse manifestare la sua volontà in un (possibile?) futuro distopico è tracciata solo da chi indulge in un pregiudizio antigovernativo (alludo all’attuale governo italiano) circa le sue scelte politiche in materia sanitaria: una cosa è rinunciare alla propria vita senza recare pregiudizio alla salute di nessuno, un’altra rinunciare alla vaccinazione a rischio di contribuire al perpetuarsi di condizioni di diffusione di un virus che può rivelarsi fatale per certe categorie di persone particolarmente fragili.

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