di Gianluigi Simonetti

 

[Questo articolo è apparso sul «Domenicale» del «Sole 24 Ore»].

 

Luigi Blasucci è morto venerdì scorso a Pisa all’età di novantasette anni. Novantasette anni sono tanti, eppure la notizia ha comunque sorpreso alcuni di coloro che l’hanno conosciuto e frequentato nel tempo. Non solo perché questo grande studioso era ancora, nonostante l’età avanzata, lucidissimo e attivo: nei giorni scorsi si attendeva un suo intervento al convegno recanatese di studi leopardiani (mentre solo due anni fa aveva festeggiato il suo novantacinquesimo compleanno con splendide lezioni a Pisa e a Siena). La sorpresa nasce soprattutto al pensiero della inesauribile vitalità di Blasucci – appena screziata, ogni tanto, dall’ombra della malinconia – e dalla persistente freschezza del suo rapporto con la letteratura, che lui traduceva nel piacere spontaneo di frequentare, oltre agli amici di sempre, gli studiosi più giovani. Per non parlare della disinvoltura con cui non solo a lezione, ma anche nelle conversazioni più semplici continuava a calamitare l’attenzione dei suoi interlocutori, a insegnare qualcosa ai suoi ultimi allievi.

 

La morte di Blasucci stupisce, in sostanza, come sempre stupisce la scomparsa di un uomo vivace e speciale. E speciale, nel suo ambiente, Blasucci lo era per molte ragioni. Cominciando dalle più frivole – come forse è giusto per una personalità così ricca di senso dell’umorismo – ricordiamo ad esempio la sua bellezza fisica e il suo portamento, amministrati entrambi con scioltezza e brio. Poi la sua eleganza senza affettazione, insieme signorile e popolare, nel parlare e nel vestire: le giacche a coste essenziali, nei toni dell’ocra e del verde, che indossava con la classe di un attore d’altri tempi. Queste caratteristiche, unite a una notevole esperienza della vita, al gusto per l’aneddoto e alla varietà degli interessi extraletterari (tra cui una passione non occasionale per il calcio, che seguiva da juventino sfegatato), regalavano a Blasucci un profilo affascinante, per non dire decisamente cool: in una cerchia, quella dell’accademia, che di solito non eccelle nell’ambito.

 

Eppure queste qualità non avrebbero avuto importanza se Blasucci non le avesse innestate su due ordini di valori culturali e umani tanto essenziali quanto tutto sommato inconsueti per chi fa il suo (ed il nostro) lavoro: da un lato l’onestà intellettuale, dall’altro un vero orecchio per la letteratura – nel suo caso soprattutto per la grande poesia.

All’onestà intellettuale fanno capo le caratteristiche più evidenti dello stile direi mentale di Blasucci, ovvero la chiarezza e la concretezza del pensiero e dell’espressione – io credo in gran parte forgiate nei lunghi anni dell’insegnamento liceale nella provincia di Pisa, nella quale era ricordato come una presenza leggendaria. Lo stesso Blasucci amava definirsi, ironicamente, un ‘critico liceale’: voleva dire che proprio insegnando a scuola, e misurandosi con un pubblico di non specialisti, aveva appreso quelle virtù di semplicità, trasparenza e ragionevolezza che avrebbe poi esercitato da professore di Letteratura italiana, prima all’Università di Pisa e poi a lungo presso la Scuola Normale, dove gli specialisti non mancavano certo. Così, aiutato da una solida impostazione stilistica e filologica (aveva studiato con Luigi Russo, Mario Fubini e Gianfranco Contini), in settant’anni di carriera Blasucci ha attraversato le stagioni dello strutturalismo, della semiotica, della decostruzione, degli studi culturali – ricche di idee rivoluzionarie e ambizioni teoriche ma anche di gerghi fumogeni e narcisismi frastornanti – senza smettere mai di essere limpido, sagace e preciso. Blasucci, insomma, non barava mai. La sua conoscenza dei classici – studiava solo scrittori di grandezza assoluta – era profonda e partecipe, sancita tra l’altro da una memoria prodigiosa che gli permetteva di citare a memoria i passi più diversi di Dante e Ariosto, Montale e Leopardi. Anche per questo eccelleva soprattutto nelle arti difficili e senza tempo del commento e della explication de texte: specialità che richiedono competenza e coraggio, analisi del dettaglio e visione d’insieme, rigore filologico e sicurezza di sintesi.

 

Ma la capacità di tenere insieme il microscopio e il telescopio non può darsi, e non si dava in Blasucci, senza talento naturale e gusto sicuro – l’orecchio, appunto – nel riconoscere prima i tratti stilistici più importanti di un’opera, e poi proiettarli (con la giusta prudenza) su scenari storici e culturali più vasti. Come ha notato Pierluigi Pellini, operava in Blasucci un’attenzione costante alla collocazione storica e psicologica degli elementi studiati: «dei singoli testi nell’opera di un autore, del singolo fenomeno metrico in un contesto formale più ampio, degli uni e degli altri nella storia dei temi e delle forme». Come capita soltanto ai più dotati tra gli stilcritici, Blasucci ha scritto pagine importanti di storia letteraria e linguistica a partire da campionature puntuali se non micrologiche: la terzina e gli esordi dei canti di Dante, l’ottava di Ariosto, gli oggetti poetici montaliani, la posizione ideologica delle Operette morali… Proprio Leopardi del resto è stato l’autore su cui Blasucci si è esercitato di più, e con i risultati più cospicui, anche in virtù di una sintonia superiore, sentimentale anche. Lo testimoniano i vari libri che gli ha dedicato – dal fondamentale Leopardi e i segnali dell’infinito, del 1985, al recente La svolta dell’idillio e altre pagine leopardiane, del 2017; e lo sancisce il monumentale e per certi versi definitivo commento ai Canti, al quale ha lavorato per tutta la vita (al primo volume, apparso due anni fa per la Fondazione Pietro Bembo, dovrebbe unirsi a breve il secondo e ultimo).

 

Sono risultati che rimarranno, come rimane l’esempio di un lavoro brillante, appassionato e solido condotto su opere a loro volta indimenticabili. Ma alla sorpresa di cui dicevo all’inizio si somma, alla fine di questo bilancio, l’impressione spiacevole che a Luigi Blasucci la cultura letteraria italiana debba infine qualcosa in più rispetto a quanto riconosciuto fin qui. E che serva a chi resta uno sforzo ulteriore, al presente e in futuro, per restare all’altezza di ciò che lui e altri studiosi della sua generazione ci hanno insegnato a esplorare.

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