di Paolo Costa

 

1. Charles Taylor, il filosofo canadese, compie oggi 90 anni.

 

La ricorrenza è un’occasione propizia per riflettere sull’eredità intellettuale di un pensatore fuori dal comune. Per parecchio tempo è stato difficile indicare con precisione il suo principale contributo al dibattito filosofico contemporaneo. Nato come filosofo della mente e dell’azione, Taylor si è successivamente affermato come un interprete non mainstream dell’idealismo tedesco, in particolare dell’opera di Hegel.i Sull’onda della rinascita della filosofia politica il suo profilo pubblico ha guadagnato in riconoscibilità in quanto critico del nuovo liberalismo dell’uguaglianza di John Rawls e come un sostenitore non incondizionato del multiculturalismo e delle politiche dell’identità.ii È a quel punto, però, che il vero asse della sua riflessione ha preso forma in maniera inconfondibile. Dopo la pubblicazione di Sources of the Self (1989) gli sforzi di Taylor si sono infatti progressivamente concentrati sull’obiettivo di indagare a fondo l’identità moderna e i suoi conflitti, e i risultati di questo impegno lo hanno consacrato come uno degli interpreti più originali della Grande Trasformazione.iii

 

Un programma di ricerca così ambizioso gli ha consentito, tra l’altro, di valorizzare al massimo le competenze trasversali affinate in tre decenni di grande laboriosità, di cui sono testimonianza i due volumi dei Philosophical Papers (1985).iv L’identità moderna, secondo Taylor, non è infatti una faccenda strettamente psicologica. È piuttosto una questione di posizionamento del soggetto in uno spazio morale che dopo il Rinascimento ha cambiato progressivamente la sua topografia e, con essa, il numero, la forza motivazionale e la distribuzione del ventaglio di beni architettonici (libertà, giustizia, benevolenza, ragione, natura, Dio) che fungono da fonti per le scelte importanti dell’agente. Essere un individuo occidentale moderno, insomma, significa sia appartenere al genere umano (e quindi, alla luce dell’antropologia filosofica tayloriana, essere e avere un corpo dotato di un’intenzionalità complessa, resa ancora più intricata dall’articolazione dei desideri in due livelli con grandezze di valore non commensurabili e dal carattere irriducibilmente interpretativo della relazione del soggetto con se stesso) sia realizzare la propria umanità all’interno di cornici culturali e immaginari cosmici, sociali, religiosi non solo storicamente e geograficamente specifici, ma addirittura “speciali” in virtù del dinamismo e dell’espansione globale della civiltà europea negli ultimi cinque secoli.

 

Riflettere sull’identità moderna significa quindi interrogarsi sull’origine e la destinazione di fenomeni storici rilevanti ed enigmatici come la scoperta dell’interiorità, l’universalizzazione dell’autogoverno democratico, la laicità, l’affermazione della vita comune, la nascita della sovranità statale, la “naturalizzazione” del cosmo, l’autonomizzazione dell’arte, oltre alle varie avventure intellettuali e istituzionali che tali innovazioni hanno portato con sé. Detto altrimenti, indagare l’identità moderna equivale nella sostanza a realizzare una nuova “fenomenologia dello spirito”. Da questo punto di vista, in effetti, l’itinerario di Taylor può essere descritto col senno di poi come una riscrittura metodica della sua monografia su Hegel che, non a caso, era incorniciata da una duplice riflessione sugli «obiettivi di un’epoca nuova» e sui macrodisagi in cui la Neuzeit da ultimo si incaglia: individualismo, egemonia della razionalità strumentale, perdita di senso e libertà, eclissi dei fini, ecc.

 

La forza di questa versione, allo stesso tempo indebolita e riflessivamente potenziata, di fenomenologia della coscienza moderna, risiede essenzialmente nella sua flessibilità e inclusività. Nasce infatti come un progetto di ricerca strutturalmente aperto e, in quanto opera in linea di principio incompiuta, sollecita il contributo attivo del lettore, quali che siano la sua età, professione o competenze. D’altra parte, il segreto della civiltà moderna sta proprio nell’ambizione di vivere senza un centro conclamato di gravità o, per usare un’altra metafora, con orizzonti irriducibilmente fratturati. “Moderni”, sono infatti sia il razionalismo illuministico sia il controilluminismo romantico, sia l’ideale autocentrato di una libertà come non interferenza sia la spinta eccentrica del modello di un’autodeterminazione espressiva, sia la passione per l’autogoverno sia la fuga nel privato, sia il rigetto del proprio passato religioso sia la fioritura selvaggia delle spiritualità, sia il biocentrismo sia la distruzione senza precedenti dell’ambiente naturale.

 

La coscienza moderna nasce quindi fin dagli albori lacerata, decentrata, e impegnata in un esercizio di spietata autocritica il cui primo esempio è offerto dalla svolta romantica di cui è teatro la cultura tedesca di fine Settecento. In questo senso la modernità si è sempre trovata davanti a un bivio che, all’esterno, ha assunto per lo più la forma di sfide mortali (guerre, totalitarismi, crisi politiche ed economiche, emergenze sanitarie ed ecologiche) mentre dall’interno è stato vissuto di norma come una latente crisi d’identità. Oggi, tanto quanto due secoli fa, le domande «chi siamo?», «chi vogliamo essere?» incorniciano le scelte quotidiane degli individui moderni e rendono forse persino più preziose le lezioni che si possono trarre dalla conflittualità spirituale, intellettuale, morale di cui sono intrise le loro esistenze.

 

2. In Modernità al bivio, il libro che ho progettato e curato per celebrare i novant’anni di Taylor, mi sono posto come obiettivo proprio quello di illuminare la sua capacità, a mio avviso più unica che rara, di rendere giustizia a tale complessità culturale e farne tesoro con un intento non solo teorico, ma pratico-orientativo.v Il perno del volume è costituito da un lungo saggio inedito sulle poetiche romantiche che è un’anticipazione del libro già annunciato cinque anni fa nelle pagine finali di The Language Animal.vi Per dare almeno un’idea di come questo cardine sia il vertice di un triangolo la cui area copre un territorio filosofico pieno di sfumature e risonanze, al testo sono stati affiancati due scritti mai pubblicati prima in italiano che risalgono a due periodi diversi della carriera di Taylor (rispettivamente, gli anni Novanta e gli anni Settanta del Novecento). Dal gioco di rinvii, echi e incastri tra i tre lavori dovrebbe emergere con chiarezza quel ritratto ambivalente e non conciliato della condizione umana (individuo e totalità, affermazione e trascendenza della vita, coesistenza dialettica di forza e senso) che rappresenta probabilmente la principale eredità della svolta romantica settecentesca. La seconda parte del libro ruota invece attorno a una lunga intervista realizzata per l’occasione in cui Taylor ripercorre le principali tappe del suo itinerario filosofico e ne discute la portata e il significato senza troppi giri di parole. Queste riflessioni offrono infine lo spunto a un drappello rappresentativo di interpreti internazionali della sua opera per chiosare e delucidare gli snodi fondamentali del suo pensiero.

 

Lo scopo del tributo, come notavo sopra, è far toccare con mano l’utilità di quel ponte gettato tra vita attiva e contemplativa che è il dono principale che Charles Taylor lascia in eredità ai suoi lettori. Nei difficili anni che ci attendono dovremo percorrere più volte questa instabile passerella in entrambe le direzioni per rispondere alle sfide di una civiltà che è probabilmente arrivata al bivio più insidioso di una storia fatta di grandezze e miserie, di cui è doveroso fare tesoro con la giusta dose di umiltà e coraggio.

 

3. È proprio a quest’ultima, desueta, virtù intellettuale che vorrei dedicare la seconda parte del mio tributo.

Uno degli effetti collaterali più interessanti della scissione tra scienza, etica ed estetica inaugurata nella prima metà del Settecento dall’illuminismo scozzese è il cortocircuito che scaturisce dall’attribuzione della virtù del coraggio agli intellettuali o agli artisti. Chi considera cruciale la contrapposizione tra opere edificanti o sentimentali e opere autentiche quando è chiamato a giudicare il valore di un prodotto dell’ingegno umano è di norma convinto che la differenza la faccia, appunto, il “coraggio”. Secondo questa intuizione, per dare vita, se non a un capolavoro, almeno a un contributo significativo alla cultura, cioè all’autocoscienza umana, è essenziale guardare dritto negli occhi l’abisso dell’esistenza. Il rifiuto delle facili consolazioni, in particolare, è spesso ritenuto un requisito indispensabile della genuina creatività intellettuale. In questo senso, i membri del pantheon filosofico, artistico, letterario moderno, insomma, sarebbero individui “geniali” che non arretrano di fronte allo squallore, brutalità o insensatezza della condizione umana.

 

Questo non significa, però, che da simili ingegni ci si aspetti poi lo stesso coraggio nella vita di ogni giorno. Il fatto che un gigante del pensiero possa essere un fifone nella quotidianità non ci sconcerta più di tanto. Se veniamo a sapere che ha paura anche della sua ombra, la scoperta non pregiudica certo il nostro giudizio su di lui come “artista”. Che tipo di coraggio è, allora, il coraggio intellettuale? E che relazione ha con la capacità di fare fronte saldamente alle inevitabili prove dell’esistenza?

Forse la relazione è la stessa che sussiste tra tipologie diverse di coraggio, di cui registriamo l’esistenza quando, per dire, incontriamo qualcuno che non ha paura di lanciarsi col parapendio mentre trema come una foglia di fronte alla poltrona del dentista, o restiamo perplessi di fronte a una medaglia d’oro al valor militare che sviene alla vista di un’innocua biscia d’acqua. D’altra parte, chi, dopo Darwin e Freud, si aspetta più coerenza o una personalità armonica dagli esseri umani?

 

Nessuno di questi esempi, però, sembra avere un legame diretto con il coraggio di guardare negli occhi l’abisso della condizione umana. Il coraggio di un’artista o di un pensatore fuori dall’ordinario, diciamo una Simone Weil o una Hannah Arendt, sembrerebbe essere piuttosto l’esemplificazione di un coraggio “universale” o “assoluto” – qualcosa di analogo al carattere “intelligibile” di cui parla Schopenhauer sulla scia di Kant – una specie di virtù archetipica o di tonalità morale fondamentale. Se le cose stanno così, non avrebbe senso allora attendersi da un maestro – e Taylor per me lo è stato in ogni senso della parola – se non un temperamento coraggioso, quantomeno l’impegno a vivere la propria vita con coraggio?

 

4. Sicuramente ci sarà qualcuno che, arrivato a questo punto, avrà la tentazione di tagliare la corda sbuffando: «Ma questi sono vaneggiamenti da incurabili romantici: che c’entrano scienza e arte con tutto ciò!»

Se lo ha fatto, ha toccato esattamente il punto che vorrei sviluppare in tre rapidi passaggi prima di concludere. Quando pensiamo oggi al romanticismo la prima associazione che ci viene spontaneo fare, in effetti, è quella con una sensibilità esaltata. D’altra parte, nella poesia, nella pittura e anche nella prosa romantica l’intensità con cui viene tematizzata, rappresentata o nominata la posta in gioco dell’esistenza umana, del nostro essere al mondo, raggiunge sempre dei livelli di guardia: è pericolosamente vicina, cioè, al confine che separa la padronanza di sé dall’abbandono a forze che, sfuggendo al controllo dell’individuo adulto, ne minacciano l’autonomia.

 

Perché è così intensa, così drammatica, la relazione dei “romantici” con gli altri, con la società, con la natura? La risposta che ha dato Charles Taylor a questa domanda rappresenta, a mio avviso, il vero tesoro filosofico, non sempre apprezzato fino in fondo, della sua lunga e fortunata avventura intellettuale. Ciò che dobbiamo ai romantici, in particolare alla generazione dei romantici tedeschi di fine Settecento a cui si riallaccia esplicitamente la riflessione del filosofo quebecchese, è una specifica modulazione moderna di ciò che fa di noi umani una specie animale sui generis. Taylor ha un termine tecnico per indicare questo elemento: strong evaluations – «valutazioni forti».

Vorrei richiamare l’attenzione del lettore soprattutto sull’aggettivo: le valutazioni in questione sono «strong», forti. Il termine forza, ovviamente, rientra nella costellazione semantica del “coraggio”, anche se la forza esercitata da questo tipo di valori è piuttosto la forza invisibile ed enigmatica di un centro di gravità o di un asse di rotazione. Gli esseri umani sono creature speciali, cioè, perché non si limitano a desiderare cose, azioni, persone, chimere, facendone i referenti delle proprie volizioni arbitrarie, ma le desiderano perché le considerano desiderabili, cioè degne di essere desiderate. In questa condizione di tensione strutturale tra l’io e il mondo, tra il sé e il non-sé, si dischiude uno spazio di relazioni ideali che rende le esistenze umane una faccenda enormemente più densa, intricata, seria di quanto non sarebbe se il semplice fatto di desiderare qualcosa lo rendesse automaticamente desiderabile.

 

Ecco, secondo Taylor, i romantici, scossi dal tentativo illuminista di addomesticare intellettualisticamente la forza trasformativa di questa esperienza umana basilare, sono stati i pionieri o le avanguardie di un’esplorazione creativa di quegli ambiti dell’esistenza – il corpo, l’amore erotico, il gioco, il sacro, la spiritualità, l’arte, le appartenenze comunitarie – in cui l’intensità delle valutazioni forti eccede di norma la capacità del sapere analitico, del calcolo, dell’astrazione, di imbrigliarne il potere motivante che è, nel suo nucleo irriducibile, una forma di commozione, un essere afferrato, un appropriarsi che simultaneamente espropria.

È qui che la virtù del coraggio a cui facevo riferimento sopra torna a essere essenziale. Per Taylor la riscoperta romantica delle valutazioni forti non è infatti il sintomo di un crollo nervoso o del bovarismo di persone che sono rimaste ai margini del processo di civilizzazione moderno e della sua ragnatela di pratiche di socializzazione e autodisciplinamento. Al contrario, nella sua ottica, diventare delle sonde, dei “sensori” moderni delle valutazioni forti non ha nulla di sentimentale, escapistico, soggettivistico, ma è una forma avventurosa di apertura all’alterità. L’accesso a questo «interspazio», né esclusivamente soggettivo né puramente oggettivo, è esattamente ciò che rende speciale il genere umano che, contrariamente a quanto teorizzato dai debunkers antiumanistici, non reclama uno statuto eccezionale per ciò che ha “dentro” di sé, per la sua “essenza” o “natura”, ma merita una considerazione speciale per ciò che può diventare grazie alle cose che incontra fuori di sé, nello spazio di pressioni incrociate dischiuso dalle valutazioni forti.

 

Riassumendo, il coraggio intellettuale di Taylor che celebriamo oggi, nel giorno del suo novantesimo compleanno, è la virtù filosofica indispensabile per l’esplorazione rigorosa di questo fenomeno, hidden in plain sight, della forma di vita moderna. Hartmut Rosa l’ha descritta con parole non convenzionali nel suo contributo a Modernità al bivio:

 

Ecco perché gli scritti di Taylor hanno un effetto portentoso sui cuori e le menti degli studenti in ogni angolo del pianeta. La freddezza distaccata e l’aridità emotiva così tipiche dei contributi filosofici e teorici in ambito accademico non gli appartengono in alcun modo. Quando si legge un suo articolo, saggio o libro, quella che si sente risuonare è sempre la voce impegnata di qualcuno a cui le cose stanno veramente a cuore e che ha qualche suggerimento da dare. Questo è il motivo per cui i suoi scritti sono letti, compresi e fatti propri non solo dagli studiosi, ma dai politici e dalla gente comune in tutto il mondo. […] Ecco spiegato l’arcano. C’è un motivo se Taylor continua a viaggiare e discutere le sue teorie con lavoratori, studenti, studiosi, papi e pubblici di ogni lingua e nazionalità. Non lo fa per diffondere una particolare conoscenza filosofica, ma per raffinare sempre di più la nostra spiegazione della situazione difficile in cui ci troviamo. Mentre facciamo il nostro ingresso nell’antropocene – l’epoca in cui l’essere umano sarà posto di fronte alle sue responsabilità ultime – questo sforzo è senza dubbio d’importanza decisiva per il futuro dell’umanità. Mi auguro, perciò, che Taylor non smetta di combattere la sua battaglia prima di raggiungere i cento anni!vii

 

Note

 

i Cfr. C. Taylor, The Explanation of Behaviour (ed. or. 1964), Routledge, London 2021; C. Taylor, Hegel, Cambridge University Press, Cambridge 1975. Per una ricostruzione complessiva dell’itinerario teorico di Charles Taylor rinvio a P. Costa, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano 2001.

ii Cfr. C. Taylor, Cross-Purposes: The Liberal-Communitarian Debate (1989), in Philosophical Arguments, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1995, pp. 181-203 [trad. it. di A. Ferrara, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e Liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 137-169]; C. Taylor, The Politics of Recognition (1992), in Philosophical Arguments, cit., pp. 257-288 [trad. it. di G. Rigamonti, La politica del riconoscimento, in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 41-103].

iii Cfr. C. Taylor, Sources of the Self: The Making of the Modern Identity, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1989 [trad. it. di R. Rini, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993].

iv Cfr. C. Taylor, Human Agency and Language: Philosophical Papers I, Cambridge University Press, Cambridge 1985; C. Taylor, Philosophy and the Human Sciences: Philosophical Papers II, Cambridge University Press, Cambridge 1985.

v Cfr. C. Taylor, Modernità al bivio. L’eredità della ragione romantica, a cura di P. Costa e con contributi di R. Abbey, R. Beiner, R. Bhargava, N. Kompridis, A. Laitinen, J. Maclure, D. McPherson, M. Meijer, H. Rosa, J. Smith, N. Smith, Marietti 1820, Bologna 2021.

vi Cfr. C. Taylor, The Language Animal: The Full Shape of the Human Linguistic Capacity, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2016.

vii Cfr. H. Rosa, Alla ricerca della «spiegazione migliore»: Charles Taylor intellettuale pubblico e teorico critico, in C. Taylor, Modernità al bivio, cit., p. 193.

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