di Maggie Nelson

 

 

[E’ uscito in questi giorni, per i tipi de il Saggiatore, il saggio di Maggie Nelson Sulla libertà. Un canto d’amore e di rinuncia, nella traduzione di Alessandra Castellazzi. Ne presentiamo l’introduzione per gentile concessione dell’editore]

 

 

 

Se vuoi parlare di libertà fermati qui

 

Volevo scrivere da tanto un libro sulla libertà. Volevo scriverlo almeno da quando il tema è emerso, inaspettatamente, come sottotesto in un mio libro sull’arte e la crudeltà. Stavo scrivendo un libro sulla crudeltà e poi ho scoperto, con stupore, che la libertà filtrava nelle crepe, aria e luce in quella cella soffocante. Quando la crudeltà mi ha sfinito, mi sono rivolta direttamente alla libertà. Sono partita da «Che cos’è la libertà?» di Hannah Arendt e ho iniziato ad ammucchiare le mie pile di libri.

 

Dopo non molto, però, ho cambiato rotta e ho scritto un libro sulla cura. Qualcuno ha pensato che il mio libro sulla cura fosse anche un libro sulla libertà. Ero soddisfatta, perché la pensavo anch’io così. Per un po’ ho pensato che non servisse più un libro sulla libertà – forse non mio, forse di nessun altro. Vi viene in mente una parola più svuotata, imprecisa, strumentalizzata? «In passato mi importava della libertà, ora mi importa soprattutto dell’amore» mi ha detto un amico.1 «Libertà mi sembra una parola in codice, vuota e corrotta, per guerra, un’esportazione commerciale, qualcosa che un patriarca può “concedere” o “revocare”» ha scritto un’altra.2 «È una parola bianca» ha detto un altro.

 

 

Spesso concordavo: perché non concentrarmi invece su qualcosa di meno contestato, un valore sicuramente più attuale e lodevole come l’impegno, il mutuo soccorso, la coesistenza, la resilienza, la sostenibilità o quella che Manolo Callahan ha definito «convivialità insubordinata»?3 Perché non riconoscere che forse il lungo protagonismo della libertà era al tramonto, che continuare a esserne ossessionati rifletteva una pulsione di morte? «La tua libertà mi uccide!» dicevano i cartelli dei manifestanti durante la pandemia; «La tua salute non è più importante della mia libertà» urlavano di rimando altri senza mascherina.4

 

Eppure, non riuscivo a rinunciare.

 

Il problema in parte riguarda la parola in sé, che ha un significato per nulla scontato né condiviso.5 In effetti, funziona un po’ come «Dio» perché, quando la usiamo, non sappiamo mai davvero di cosa stiamo parlando oppure se stiamo parlando della stessa cosa. (Parliamo di libertà negativa? Libertà positiva? Libertà anarchica? Libertà marxista? Libertà abolizionista? Libertà libertaria? Libertà dei coloni bianchi? Libertà decolonizzatrice? Libertà neoliberale? Libertà zapatista? Libertà spirituale? E così via). E qui arriviamo dritti al celebre enunciato di Ludwig Wittgenstein, «il significato di una parola è il suo uso». Pensavo a questa formula l’altro giorno quando sono passata accanto a un banchetto nel mio campus universitario, dove un cartello diceva: «Se vuoi parlare di libertà fermati qui». Ecco me se voglio! ho pensato. Così mi sono fermata e ho chiesto al ragazzo bianco, probabilmente uno studente dei primi anni, di quale tipo di libertà volesse parlare. Mi ha scrutato dalla testa ai piedi, poi ha detto lentamente, con una punta di minaccia, una punta di insicurezza: «Beh, la solita vecchia libertà». Allora ho notato che vendeva delle spillette divise in tre categorie: pro vita, triggerare i liberali, diritto alle armi.

 

Come dimostra l’opera di Wittgenstein, non bisogna paralizzarsi o rammaricarsi se il significato di una parola è il suo uso. Al contrario, è un invito a riconoscere qual è il gioco linguistico in azione. Nelle pagine seguenti adotterò questo approccio, dove la parola «libertà» sarà come un biglietto del treno riutilizzabile, timbrato e segnato dal passaggio in varie stazioni, mani e contenitori. (Ho preso in prestito questa metafora da Wayne Koestenbaum, che una volta l’ha usata per descrivere «come una parola, o un insieme di parole, permuta» nell’opera di Gertrude Stein. «Il significato della parola non è affar vostro» scrive Koestenbaum «ma è sicuramente affar vostro dove viaggia la parola.») Perché la confusione generata dal discorso sulla libertà non è diversa, nella sua essenza, dal rischio di fraintenderci quando parliamo di altro. E parlarci dobbiamo; anche, o soprattutto, se «non sappiamo più le parole», come dice George Oppen.

 

Una crisi della libertà

 

Ripensandoci, la scelta di attenermi a questa parola ha due motivazioni. La prima c’entra con la frustrazione che provo da anni per la sua appropriazione a destra (come dimostra il banchetto dello studente). Un’appropriazione lunga secoli: «Libertà per noi, sopraffazione per voi» è in vigore dagli albori della nazione. Ma dopo gli anni sessanta – un periodo in cui, rievoca lo storico Robin D.G. Kelley in Freedom Dreams: «La libertà era l’obiettivo che volevamo raggiungere; liberare era un verbo, un’azione, un desiderio, una richiesta militante. “Liberate la terra”, “Liberate la mente”, “Liberate il Sud Africa”, “Liberate l’Angola”, “Liberate Angela Davis”, “Liberate Huey” sono gli slogan che ricordo meglio» – la destra ha raddoppiato gli sforzi per rivendicarla. Sono bastati pochi, brutali, decenni di neoliberismo affinché il grido di battaglia per la libertà incarnato dalla Freedom Summer, dalle Freedom Schools, dai Freedom Riders, dal movimento Women’s Liberation e Gay Liberation, fosse surclassato dall’American Freedom Party, da Capitalismo e libertà, dall’Operation Enduring Freedom, dal Religious Freedom Act, dall’Alliance Defending Freedom e molta altra roba del genere. Questo spostamento ha indotto alcuni filosofi politici (come Judith Butler) a definire la nostra epoca «postliberatoria» (ma, come nota Fred Moten, «preliberatoria» sarebbe altrettanto corretto).6 In ogni caso, il dibattito sulla nostra posizione temporale rispetto alla libertà forse è il sintomo di quella che Wendy Brown ha definito una «crisi della libertà» incipiente, in cui «i poteri antidemocratici specifici del nostro tempo» (che possono prosperare anche nelle cosiddette democrazie) hanno prodotto dei soggetti – inclusi coloro che «lavorano a favore di “politiche progressiste”» – che appaiono «disorientati rispetto ai valori della libertà» e hanno permesso che «il linguaggio della resistenza [prendesse piede] senza una pratica di libertà più ampia».7 A fronte di questa crisi, ho scelto di attenermi al termine perché mi sembrava un modo di rinnegare il baratto, di saggiare le possibilità rimaste o svanite dalla parola, di non cedere terreno.

 

La seconda motivazione – che complica la prima – è che la retorica emancipatoria delle epoche passate mi ha sempre insospettito, specialmente quando la liberazione è presentata come un singolo evento o orizzonte degli eventi. Spesso la nostalgia per le vecchie idee di liberazione – che in molti casi attingono a piene mani al mito della rivelazione, delle insurrezioni violente, del machismo rivoluzionario e del progresso teleologico – mi sembra poco utile o addirittura dannosa per affrontare alcune sfide del presente, come il riscaldamento globale. «I sogni di libertà» che ne prefigurano la venuta come un giorno del giudizio (per esempio il «giorno in cui tutti i figli di Dio […] potranno prendersi per mano e cantare come in quel vecchio spiritual nero: “Finalmente liberi, finalmente liberi; grazie a Dio onnipotente, finalmente liberi”» di Martin Luther King Jr.) sono importantissimi per immaginare i futuri che vogliamo. Ma possono anche farci credere che la libertà sia una conquista futura, anziché un’interminabile pratica presente, già in svolgimento. È un grave errore cedere la libertà alle forze del male, ma lo è anche aggrapparsi a tutti i costi alle sue concezioni trite e asfittiche.

 

Per questo motivo, la distinzione tra la liberazione (considerata come un atto momentaneo) e le pratiche di libertà (considerate come un processo) proposta da Michel Foucault è stata fondamentale per me; come quando scrive: «La liberazione apre un campo per dei nuovi rapporti di potere che vanno controllati con le pratiche di libertà». Questa affermazione mi piace molto, direi persino che è un principio guida di questo libro. Senza dubbio a qualcuno sembrerà incredibilmente guastafeste. (Rapporti di potere? Controllo? Il punto non è proprio sbarazzarcene? Forse, ma attenti a cosa desiderate.) È il punto di vista di Brown, quando dice che la libertà di autogovernarsi «richiede un uso del potere attento e inventivo anziché la ribellione contro l’autorità; è sobria, spossante e orfana». Credo che abbia ragione, sebbene «sobria, spossante e orfana» sia un grido di battaglia difficile, specialmente per chi già si sente spossato e poco accudito. Questo approccio, tuttavia, mi pare più stimolante e praticabile che aspettare «la “grande notte” della liberazione definitiva», per usare le parole dell’economista francese Frédéric Lordon, «la resa dei conti apocalittica seguita dall’irruzione improvvisa e miracolosa di una forma completamente diversa di rapporti umani e sociali».

 

Secondo Lordon, abbandonare le speranze per questa grande notte è «il modo migliore per salvare l’idea di liberazione»; e io sono tendenzialmente d’accordo. I momenti di liberazione – come quelli di rottura rivoluzionaria oppure le «vette d’esperienza» personali – sono importantissimi, perché ci ricordano che le condizioni che un tempo sembravano fisse non lo sono e perché danno la possibilità di cambiare rotta, alleviare il giogo, ricominciare daccapo. Ma è la pratica della libertà – cioè la mattina dopo, e quella dopo ancora – che, se siamo fortunati, occuperà gran parte delle nostre vite. Questo libro è su quell’esperimento senza fine.

 

Il nodo

 

«Qualunque sia la causa per cui lottate, vendetela nel linguaggio della libertà» ha detto una volta Dick Armey, membro della camera dei rappresentati per il Texas e fondatore di FreedomWorks. Tralasciando la mia opinione su Dick Armey, ho cominciato questo progetto dando per scontato che, negli Stati Uniti, la sua massima fosse destinata a durare. Quando mi sono messa all’opera, però, era ormai l’autunno del 2016 e la massima di Armey stava rapidamente tramontando. Dopo anni di «Freedom Fries», Freedom’s Never Free e del Freedom Caucus, la retorica della libertà pareva battere momentaneamente in ritirata, scalzata dal proto-autoritarismo. Nella corsa elettorale, ho passato fin troppo tempo a osservare i sostenitori online di Trump uscirsene con nuovi vezzeggiativi dispotici come «il patriarca», «il Re», «Daddy», «il Padrino», «il padre degli uomini» o, il mio preferito, «Trump Dio-Imperatore». E non mi riferisco soltanto alla folla di 8chan; dopo le elezioni, il Comitato nazionale repubblicano ha pubblicato un tweet natalizio annunciando «la buona novella di un nuovo Re», un indizio di quel che ci aspettava. Da allora, diverse analisi lessicali l’hanno confermato: la «libertà» scarseggia nel Trump-speak, tranne quando invoca cinicamente la «libertà di parola» come provocazione, oppure ricorre all’iterazione agghiacciante di libertà-come-impunità («Quando sei una star, puoi fare quello che ti pare»).8 Persino quando l’amministrazione provò a etichettare il gas naturale come «gas libero» nel 2019, sembrava più una farsa scatologica voluta che un serio tentativo di branding ideologico.

 

Negli anni seguenti, le edicole negli aeroporti si sono riempite di titoli come How Democracies Die; Fascism: A Warning; On Tyranny; Surviving Autocracy; e The Road to Unfreedom.9 L’avvertimento di Wendy Brown sulla «sparizione esistenzia- le della libertà dal mondo» tornava ad avvalorarsi insieme al timore che, dopo aver prediletto le libertà dei mercati rispetto a quelle democratiche per decenni, alcuni avessero perso il desiderio di autogovernarsi liberamente e avessero sviluppato invece un gusto per l’illibertà – persino un desiderio di soggezione. Questi timori mi hanno fatto pensare più di una volta al commento di James Baldwin in La prossima volta il fuoco: «Io personalmente ho incontrato solo pochissimi individui – e quasi nessuno di loro era americano – desiderosi veramente d’essere liberi. La libertà è un grave fardello».

 

 

In un clima simile, era allettante l’idea di scrivere un libro che ci «riorientasse sul vero valore della libertà» o che incoraggiasse me e altri a unirsi alle pochissime persone che, secondo Baldwin, desiderano davvero la libertà. Questi trattati solitamen te cominciano con una dichiarazione forte su cos’è la libertà o cosa dovrebbe essere, come The Hawthorn Archives: Letters from the Utopian Margins di Avery F. Gordon: una raccolta descritta nella quarta di copertina come uno «spazio di fuga» verso la «coscienza politica degli schiavi fuggiti, dei disertori di guerra, degli abolizionisti del carcere, della gente comune e di altri radicali», dove Gordon dichiara (parafrasando Toni Cade Bambara) che: «La libertà […] non è la fine della storia o un obiettivo sfuggente e irraggiungibile. Non è uno stato-nazione  migliore, mascherato da cooperativa. Non è una serie di leggi ideali distaccate da chi le applica e da chi le rispetta. E di certo non è il diritto di possedere il capitale economico, sociale, poli tico o culturale per dominare gli altri e barattare la loro felicità in un mercato monopolistico. La libertà è il processo con cui sviluppare una pratica che consenta di eludere la servitù».

 

Molti di questi trattati mi hanno commossa ed educata.10 Ma, in fin dei conti, non sono il mio stile. Le pagine seguenti non propongono una diagnosi sulla crisi della libertà e una proposta su come aggiustarla (o aggiustarci), né un focus specifico sulla libertà politica. Invece, si concentrano sulla complessa pulsione alla libertà in quattro ambiti diversi – il sesso, l’arte, le droghe e il clima – dove la coesistenza tra libertà, cura e costrizioni, mi sembra particolarmente spinosa e intensa. In ciascun ambito, analizzo il modo in cui la libertà si aggroviglia alla cosiddetta illibertà, generando esperienze marezzate di compulsione, disciplina, possibilità e abbandono.

 

Siccome tendiamo ad associare l’illibertà – spesso giustamente – con circostanze oppressive che possiamo e dobbiamo impegnarci a cambiare, è comprensibile che a livello istintivo ci capiti di considerare crudele e doloroso il nodo tra libertà e illibertà. Per denunciare il modo in cui il dominio si traveste da liberazione, sentiamo di dover prima dipanare il nodo, provando a districare ciò che emancipa da ciò che opprime. Succede soprattutto quando affrontiamo il legame tra schiavitù e libertà nella storia e nel pensiero occidentale: sia perché queste due realtà si sono sviluppate e significate a vicenda, sia perché i bianchi, nel corso dei secoli, hanno aggirato con astuzia il discorso sulla libertà per posticipare, ridurre o rinnegare quella degli altri.11 È un approccio comprensibile anche quando l’obiettivo è denunciare le ideologie economiche che assimilano la libertà al desiderio di asservirsi al capitale.12

 

Ma se ci concedessimo di deviare – anche solo per un attimo – dal compito esclusivo di denunciare e condannare il dominio, scopriremmo che il nodo tra libertà e illibertà è più di un semplice tracciato delle brutalità commesse nei regimi passati e presenti. Perché lì si mescolano il controllo e l’abbandono, la soggettività e la soggezione, l’autonomia e la dipendenza, lo svago e il bisogno, l’obbligo e il rifiuto, il soprannaturale e il sublunare – a volte in un’estasi, altre in una catastrofe. Lì ci svestiamo dell’illusione che tutti gli individui desiderino soltanto, o almeno soprattutto, la coerenza, la prevedibilità, l’autocontrollo, l’azione, il potere o persino la sopravvivenza.

 

Questa destabilizzazione è affascinante, ma può rivelarsi anche spaventosa, deprimente e distruttiva. Fa parte dell’impulso alla libertà. Se ci prendiamo il tempo di sondarlo, potremmo ritrovarci meno intrappolati nei miti di libertà e negli slogan, meno stupiti e atterriti dai suoi paradossi, e più ricettivi alle sue sfide.

 

Coinvolgimento/Separazione

 

In Storia della libertà americana, lo storico Eric Foner spiega che l’idea americana di libertà è stata a lungo declinata in opposizioni binarie; prima fra tutte, per oltre quattrocento anni, la divisione tra libertà nera/bianca, considerando il ruolo fondante della schiavitù e delle sue successive incarnazioni.13 In un saggio del 2018 sul musicista Kanye West, Ta-Nehisi Coates traccia questo binarismo in termini netti, descrivendo la «libertà bianca» come:

 

Libertà senza conseguenze, libertà senza critica, libertà di essere orgogliosi e ignoranti; libertà di approfittarsi di una persona per poi abbandonarla un attimo dopo; libertà di Farsi Valere, libertà senza responsabilità, senza ricordi difficili; una Monticello senza schiavitù, una libertà Confederata, la libertà di John Calhoun e non la libertà di Harriet Tubman, che ti spinge a mettere in gioco la tua; non la libertà di Nat Turner, che ti spinge a dare ancora di più, ma la libertà del conquistatore, la libertà del forte costruita sull’antipatia o sull’indifferenza per il debole, la libertà dei pulsanti antistupro, dei pussy grabber e del ti scopo comunque, stronza; la libertà delle guerre invisibili per il petrolio, la libertà delle periferie marchiate da una linea rossa, la libertà bianca di Calabasas.

 

– tutto contrapposto alla «libertà nera», che Coates descrive come la libertà costruita sul «noi» anziché sull’«io», che «concepisce la storia, le tradizioni e le lotte non come un peso ma come un appiglio in un mondo caotico» e ha il potere di ristabilire tra le persone «una connessione […] di riportarle a Casa».

 

Questo libro parte dall’assunto che le nostre intere esistenze, incluse le nostre libertà e illibertà, sono costruite sul «noi» anziché sull’«io», che dipendiamo l’uno dall’altro ma anche da forze non umane che sfuggono alla nostra comprensione e al nostro controllo. Questo vale sia per chi intende il termine nella concezione del «nessuno è libero finché tutti non sono libe ri» (à la Fannie Lou Hamer) sia nella varietà «don’t tread on me» della bandiera di Gadsden, sebbene quest’ultima provi a smarcarsene. Ammetto che persino l’insistenza più appassionata sul nostro coinvolgimento e sulla nostra interdipendenza offra soltanto una descrizione della situazione, non un’indicazione su come viverla. La domanda quindi non è se siamo coinvolti, ma come negoziare, soffrire e danzare con quel coinvolgimento.

 

Sebbene Coates proponga una biforcazione del termine utile e precisa, alla fine del suo saggio diventa evidente – in primis a Coates, credo – che una libertà radicata nel «noi» anziché nell’«io» è dilaniata da una serie di complessità; questo libro affronta quelle complessità. Riflettendo sulla scomparsa di Michael Jackson, per esempio, Coates scrive: «Spesso è più facile scegliere la strada dell’autodistruzione se non pensi a chi trascini con te, morire ubriaco per strada se vivi quella deprivazione come tua soltanto e non come una deprivazione per la tua famiglia, i tuoi amici, la tua comunità». Essere più consapevoli del nostro coinvolgimento può aiutare, ma può anche confondere e ferire: constatando che il nostro benessere dipende dal comportamento degli altri, potremmo provare il desiderio, potente quanto infruttuoso, di metterli in discussione, controllarli e cambiarli. Tuttavia capire fino in fondo, intensamente, che i nostri bisogni, desideri o compulsioni possono entrare in conflitto con quelli degli altri o provocare dolore – anche a chi abbiamo di più caro al mondo – non significa per forza riuscire a scardinare la trappola. Come vedremo, questo dilemma diventa terribilmente chiaro nella condizione di dipendenza. Ma non risalta solo in questo campo.

 

Alcune persone non riescono a trovare rifugio – anzi, non possono trovarlo – dove vorrebbero gli altri: qualcuno preferisce le linee di fuga agli appigli; qualcuno rigetta d’istinto le massime moraliste; qualcuno trova – o è costretto a trovare – sollievo o sostentamento nel nomadismo, nell’accattonaggio cosmico, nelle identificazioni imprevedibili o stravaganti, nel barbonismo, nell’esilio ovunque non sia Casa. Sulla libertà presta particolare attenzione a queste figure e a questi vagabondaggi, perché non credo che rappresentino necessariamente l’adozione di ideologie tossiche. Viste da un’altra prospettiva, possono dimostrarsi espressioni del nostro coinvolgimento fondamentale, anziché un segno della nostra ineludibile separazione (questi termini sono di Denise Ferreira da Silva, dal suo saggio «On Difference Without Separability»). La vocazione più profonda di questo libro è capire come stringere un sodalizio che non comporti l’epurazione, che non contrapponga di riflesso libertà e dovere.

 

Contrapporre la libertà al dovere perpetua almeno due problemi enormi. Il primo è strutturale: come scrive Brown in States of Injury, «una libertà che abbia come opposto pratico e concettuale l’onere non può, necessariamente, esistere senza di esso; se per definizione gli esseri liberati esistono in quanto privi di oneri, allora dipendono dagli esseri onerati, su cui onera la loro libertà». Il secondo è affettivo, perché l’appello al dovere, all’obbligo, al debito e alla cura può trasformarsi in un attimo in qualcosa di moralmente opprimente, basato non tanto sulla comprensione e sull’accettazione, ma sulla vergogna, sul fallimento o sulla fiducia nella propria eticità rispetto agli altri. (Pensate allo slogan esasperato: «Non so come spiegarti che dovrebbe importarti degli altri» che è circolato sulle magliette e sui muri durante il Covid-19: avrò pensato qualcosa su questa falsariga almeno dieci volte al giorno, ma la convinzione che «tu» abbia bisogno delle mie spiegazioni molto probabilmente non aiuta il cambiamento.) In un’intervista alla fine di Undercommons, Stefano Harney affronta questo moralismo e prova a immaginare un’altra via: «Non è che non dovresti avere un debito con le altre persone, debito di qualcosa di economico, o debito con tua madre, ma che la parola “debito” dovrebbe scomparire e diventare un’altra parola, dovrebbe essere una parola più generativa». Non so ancora quale possa essere questa parola e nemmeno se, una volta trovata, saprò viverla. Ma sono sicura che la domanda va nella direzione giusta.

 

La libertà è mia e io so come mi sento

 

Fortuna volle che «Che cos’è la libertà?» fosse un punto di partenza meravigliosamente perverso. Perché qui Arendt riflette a lungo sulla propria convinzione che la «libertà» interiore non solo sia irrilevante rispetto alla libertà politica – quella capacità cruciale (per Arendt) di agire nella sfera pubblica – ma l’esatto opposto. Come Nietzsche prima di lei, Arendt ritiene che la libertà interiore sia una patetica illusione, un premio di consolazione per gli impotenti. Secondo la sua ricostruzione, l’idea iniziò a circolare nell’antica Grecia, per poi esplodere con l’avvento del Cristianesimo, che Nietzsche descrisse notoriamente come «una schiavitù morale» per via di quel beati i miti che è il suo assunto di base. «Lungo tutta la storia della grande filosofia» dice Arendt, «dai presocratici a Plotino, ultimo filosofo classico, manca qualsiasi interesse per la libertà»; la libertà compare per la prima volta con Paolo, e poi Agostino, nel racconto della loro conversione religiosa, un’esperienza che si distingue per la capacità di generare sentimenti interiori di liberazione in circostanze esterne opprimenti. La comparsa della libertà sulla scena filosofica, dice Arendt, è frutto degli sforzi degli oppressi e dei perseguitati «per arrivare a concepire la libertà in modo che si potesse essere “liberi” pur essendo, di fronte al mondo, schiavi». Arendt deride questo ossimoro apparente, non trovandovi nessun valore. E perché avrebbe dovuto, convinta com’era che «la libertà non assume portata reale e mondana. Senza un ambito pubblico protetto da garanzie politiche, la libertà non ha più uno spazio nel quale apparire al mondo. Può certo abitare ancora nel cuore degli uomini, sotto forma di desiderio, volontà, speranza o aspirazione struggente: ma tutti sappiamo bene come il cuore umano sia un luogo oscuro, e qualunque cosa accada nelle sue tenebre possa difficilmente esser chiamato un fatto dimostrabile».

 

Nella sua disamina del neoliberismo, Brown allarga il ragionamento affermando che «la possibilità di sentirsi “emancipati” senza esserlo costituisce un elemento di legittimità importante per le dimensioni antidemocratiche del liberismo». Lo capisco: può sembrare illusorio sentirsi liberi ed emancipati pur cedendo, mettiamo, i nostri dati personali a uno stato di sorveglianza aziendale; guidare a tutta velocità una macchina a benzina che con le sue emissioni contribuisce alla fine prematura della vita sul pianeta; darsi ai festeggiamenti per il Pride, lasciando dietro di sé montagne di plastica micidiale per gli oceani; scrivere un libro sul sentirsi liberi mentre dei razzisti corrotti ed ecocidi ci spingono verso l’autocrazia e fanno man bassa della fiducia collettiva. La domanda è come riconoscere questa embricatura senza abbandonarsi al feticcio del debunking, della decontaminazione e del malessere. (Pensate, per esempio, al consiglio stupefacente rivolto dall’ex rappresentante democratico Barney Frank agli attivisti, per cui stare bene significa svolgere un cattivo lavoro: «Se avete a cuore una causa e vi impegnate in attività collettive divertenti, stimolanti e che accrescono la vostra sensazione di solidarietà, quasi certamente non state facendo del bene alla causa». Sorvoliamo su come sia possibile costruire e abitare un mondo divertente e stimolante e ricco di solidarietà, senza averne mai fatto esperienza e godimento. Il prerequisito per creare il mondo che vogliamo è stare male, chiaro?)14

 

Dal canto suo, Baldwin comprendeva il rischio di concentrarsi sulla cosiddetta libertà interiore anziché conquistare e mantenere il potere politico. Ma metteva in guardia anche dal pericolo di ignorare la prima a favore della seconda. In effetti, subito dopo aver rimarcato il fardello della libertà, scrive: «Mi si obietterà che sto parlando di libertà politica in termini di morale, ma il fatto è che le istituzioni politiche di qualunque paese sono sempre minacciate e, in definitiva, sono rette e guidate dalle condizioni morali del paese».

 

Sempre minacciate e, in definitiva, rette e guidate. Che cosa significa? Datevi pure ai sondaggi, ma è impossibile quantificare o tracciare questa relazione. Non si può misurare uno stato morale che supererebbe il test di Arendt come fatto dimostrabile. Ma se c’è una cosa che l’era Trump, e le campagne di disinformazione che l’hanno inaugurata, ha reso lampante, è che «la politica è sempre emotiva».15 E somatica: i picchi libidinali trapelano dal nostro corpo, sono trasformati in codice binario, ci sono riproposti come guerre sui social che a loro volta influiscono sul nostro stato somatico ed emotivo quotidiano, oltre che sui risultati delle elezioni. Le persone sviluppano tremori, un’alta pressione sanguigna o il reflusso, quando vedono i bambini migranti separati dai loro genitori alla frontiera; un’attivista di Black Lives Matter che piangeva il fratello ucciso dalla polizia è caduta in coma dopo un attacco di asma ed è morta a ventisette anni; il fallimento del governo nella gestione della pandemia ha provocato un’impennata di dolori cronici, abusi e autolesionismo. In questo vortice, non dobbiamo aver paura della cosiddetta oscurità nel cuore umano, né convincerci che sia nettamente distinta dalla «portata reale e mondana», come la definisce Arendt.16

 

Invece, potremmo chiederci: perché il progetto di sentirsi bene, per dirla con Moten, «è quasi sempre osceno sia dalla prospettiva di chi comanda sia di chi resiste»?17 Qual è il rapporto tra «sentirsi bene» e «sentirsi liberi»? Che effetto ha sulla nostra comprensione (o esperienza) dei due termini, l’insistenza – così americana – che la libertà conduca al benessere o che più libertà conduca a più benessere?18 Come possiamo discernere – o a chi spetta discernere – quale tipo di «sentirsi liberi» o «sentirsi bene» nasce o si nutre della cattiva fede (o del peccato – ecco allora l’invocazione dell’oscenità, cioè «assistere a qualcosa d’immondo»), e quale invece è fecondo e trasformativo? Come si può parlare di sentirsi bene e di sentirsi liberi senza dimenticare, come ci ricorda Nietzsche, che il desiderio di potenza fa «sentire bene» certe persone?19 Che fare delle sensazioni positive date dalle esperienze di costrizione, di obbligo, di resa della libertà e di quelle negative date dal sentirsi disancorati, superflui o unici detentori della libertà? Che fare della libertà catastrofica, elettrizzante, di non aver «niente da perdere», dove la morte può rappresentare un asintoto o la fine del gioco? Freedom is mine and I know how I feel, la libertà è mia e io so come mi sento, cantava Nina Simone in una can zone intitolata – cos’altro? – «Feeling Good». Da che pulpito io, o altri, possiamo accusarla di falsa coscienza, concludendo che il suo sentimento di libertà sia privo di potenza, capacità di propagazione, valore in sé? Come si può pretendere di sapere o giudicare la piena natura e la portata di quella propagazione, quando avviene nel corso del tempo, è ingovernabile e continua a viaggiare, persino mentre scrivo?

 

Per confrontarmi con queste domande, ho scelto come guida le parole dell’antropologo David Graeber, che in Possibilities scrive: «L’azione rivoluzionaria non è una forma di abnegazione, una dedizione cupa a fare tutto il necessario per raggiungere un mondo di libertà futura. È l’ostinazione sprezzante a comportarsi come se si fosse già liberi». Le prossime pagine si concentrano sulle persone che hanno agito così, perché credo ci sia una linea sfocata se non illusoria tra il fare «come se» e «l’essere» per davvero. Mi insospettisce chi pretende di saper dettare la differenza, e pure chi ambisce a sminuire o offuscare il fatto che sentirsi liberi, sentirsi bene, sentirsi emancipati, sentirsi uniti, sentirsi potenti, può essere letteralmente contagioso, può avere la forza di frantumare l’illusione non solo della separazione delle sfere, ma anche del presunto sé.20

 

Lavoro paziente

 

Il libro sulla libertà che avete tra le mani si è rivelato anche un libro sulla cura, e non mi stupisce; ho già sondato questo intreccio in passato. Mi ha stupito invece che scrivere di libertà, e in qualche misura di cura, significasse anche scrivere di tempo.

 

Questo libro ha richiesto molto tempo. O almeno, quello che sembra un tempo molto lungo. Tra tutti i generi letterari, la critica sembra sempre richiedere più tempo. Per questo forse Foucault l’ha descritta come «un lavoro paziente che dà forma alla nostra impazienza di libertà». Mi sembra giusto.

 

Il lavoro paziente si distingue dai momenti di liberazione o dalle sensazioni fugaci di libertà perché continua. Siccome continua, offre più spazio e tempo per sensazioni variegate, persino contraddittorie, come la noia e l’entusiasmo, la speranza e la disperazione, la determinazione e l’apatia, l’emancipazione e la coercizione, il sentirsi bene oppure no. Questi tentennamenti possono rendere più difficile riconoscere che il nostro lavoro paziente è una pratica di libertà. «L’arte è come stare in prigione con una limetta per le unghie e cercare di evadere» ha detto l’artista britannica Sarah Lucas; con il tempo, ho iniziato a provare qualcosa di simile per la scrittura. È un cambiamento: se non ricordo male, quando ero più giovane la scrittura era uno strumento per «sentirmi libera». Mentre adesso mi sembra un incontro forzato e quotidiano con i miei limiti, siano essi di trattazione, energia, tempo, conoscenza, concentrazione o intelligenza. La buona notizia è che queste difficoltà o aporie non influiscono sull’effetto del nostro lavoro sugli altri. In effetti, mi sembra sempre più spesso che l’obiettivo del nostro lavoro paziente non sia la liberazione in sé, ma una capacità più profonda di lasciar andare, un attaccamento sempre minore al risultato.

 

Il discorso buddista sulla liberazione segue come un’ombra questa idea di lavoro paziente, di libertà come lotta politica interminabile, perché la libertà assoluta è immediatamente accessibile attraverso le attività più banali come la respirazione. Sentite per esempio come raggiungere la liberazione secondo il monaco buddista vietnamita Thích Nhất Hạnh: «Quando l’inspirazione è il tuo unico pensiero, lasci andare tutto il resto. Diventi una persona libera. La libertà è possibile con l’inspirazione. Si può raggiungere in due, tre secondi. Lascia andare tutti i dispiaceri e i rimpianti del passato. Lascia andare tutte le incertezze e le paure del futuro. Ti godi l’inspirazione; sei una persona libera. È impossibile misurare il grado di libertà di una persona che sta inspirando nella meditazione». Non sto chiedendo di crederci, non sto dicendo che io l’abbia provato. Ma sono aperta alla possibilità. Se non fosse possibile, non vi chiederei di farlo, dice il Buddha.

 

Sulla libertà non sostiene che il respiro nella meditazione ci garantirà equità e giustizia sociale o invertirà la rotta del riscaldamento globale. Ma se vogliamo sbarazzarci della propensio ne alla paranoia, alla disperazione, alla sorveglianza, che minaccia e controlla persino i benintenzionati – propensioni che, assecondate di continuo, plasmano le possibilità del presente e del futuro – ci serviranno dei metodi per sentire e sapere che esistono altri modi di essere: non solo in un futuro rivoluzionario che potrebbe non arrivare mai, né in un passato idealizzato che probabilmente non è mai esistito o è ormai perduto per sempre, ma nel qui e ora. È questo che intende Graeber con «comportarsi come se si fosse già liberi». E se qualche volta significa proteste e fantocci (nello stile di Graeber), altre volte significa sviluppare pratiche più sottili per sopportare l’indeterminatezza, e le gioie e i dolori del nostro rapporto ineludibile.

 

NOTE

1 Molti hanno collegato, anziché contrapporre, l’amore e la libertà: si veda «Love as the Practice of Freedom» di bell hooks, dove hooks afferma: «L’attimo in cui decidiamo di amare iniziamo ad avvicinarci alla libertà»; il legame di Foucault tra le «pratiche di libertà» e la «cura di sé»; l’attenzione del filosofo ed educatore brasiliano Paolo Freire all’«atto di amore» come impegno per la «causa della libertà».

2 A.L. Steiner, corrispondenza privata, 6 agosto 2016.

3 Si veda Manolo Callahan, «[Covid‑19] (Insubordinate) Conviviality in the Covid‑19 Conjuncture». Ringrazio Fred Moten per avermi segnalato questo articolo.

4 Si vedano i commenti di Ammon Bundy del marzo 2020 sul Covid-19: «[Questo virus] è sfruttato in ogni modo dentro e fuori dal governo, dalla gente che vuole prendersi quel che non gli spetta. Prego perché ci siano abbastanza persone pronte a destarsi e battersi per anteporre sempre la libertà alla sicurezza!». Si veda anche il commento dello storico Jelani Cobb sul suo feed Twitter nell’aprile 2020: «Chi protesta in favore delle riaperture continua a dire: “Vivere liberi o la morte”. Qualcuno dovrebbe dirgli che le due cose non si escludono a vicenda».

5 Questo metodo riecheggia quello di Eric Foner, come descritto nell’introduzione di Storia della libertà americana: «Anziché vedere la libertà come una categoria definita o un concetto predeterminato, io la considero “un’idea sostanzialmente contestata”, che per la sua stessa natura rappresenta il pomo della discordia. L’uso di tale concetto presuppone automaticamente un dialogo in corso con altre idee concorrenti».

6 Si veda La vita psichica del potere di Judith Butler, pp. 17‑18; si veda anche la discussione di Moten al riguardo in Black and Blur, p. 29.

7 Si veda States of Injury di Wendy Brown (1995), dove Brown spiega perché l’agenda politica progressista che esige che lo stato «rinforzi i diritti e accresca la logica assistenzialista per le entità socialmente più vulnerabili e svantaggiate: persone di colore, omosessuali, donne, specie animali a rischio, zone umide minacciate, boschi secolari, i malati e i senzatetto» può essere plasmata più dal risentimento nietzschiano (es: «La vendetta morale degli impotenti» sui potenti) che dai «sogni di democrazia – che gli esseri umani possano governare se stessi governando gli altri». Si veda anche La libertà è una lotta costante di Angela Davis, dove Davis ci ricorda utilmente: «C’è da una parte il movimento di liberazione e dall’altra il tentativo di ridurlo talmente da costringerlo in una cornice molto più circoscritta, quella dei diritti civili. I diritti civili hanno un’importanza immensa, ma la libertà è un concetto più ampio».

8 Per approfondire il tema della libertà nel trumpismo, si veda il saggio di Lauren Berlant «Trump, or Political Emotions», pubblicato poco prima dell’elezione di Trump nel 2016: «Trump è libero. Fa i suoi calcoli, ma non sembra interessato alle conseguenze di quello che dice; i suoi sostenitori si godono l’effetto della sua libertà. Basta guardare l’intervista geniale da Full Frontal di Samatha Bee – dove i partecipanti al convegno del partito repubblicano ripetono, più e più volte: Stiamo con Trump perché non è politicamente corretto, il politicamente corretto ha rovinato l’America – per pensare, la gente si sente così poco libera […] Vuole l’onestà, ma in realtà cerca soprattutto la libertà di non vergognarsi. I diritti civili e il femminismo non sono solo una questione legale dopotutto, sono una questione di forma e di emozioni: quei “gruppi di interesse” entrano e respingono quelle che sembrano le reazioni spontanee, istintive, delle persone. Per esempio le persone sono umiliate o licenziate, quando stanno solo scherzando e divertendosi un po’. Essere contro il politicamente corretto significa: “non mi sento libero”». Per ulteriori analisi sulla libertà come passepartout e il suo rapporto con il dominio, si veda il contributo di Wendy Brown in Authoritarianism: Three Inquiries in Critical Theory di Brown, Gordon e Pensky. Nel 2020 è emersa una nuova versione nichilista della «libertà» di Trump in risposta alle misure sanitarie pubbliche legate alla pandemia da Covid-19.

9 Come muoiono le democrazie; Fascismo: un avvertimento; Sulla tirannia; Sopravvivere all’autocrazia e La via dell’illibertà. [N.d.T.]

10 Qualche altro esempio di questo approccio, da una varietà di campi diversi:

– sul fronte mainstream delle elezioni politiche, il linguista George Lakoff ha scritto che i democratici devono «inquadrare e definire» qual è la loro accezione di libertà, è cioè l’accezione per cui senza le risorse pubbliche come «strade, ponti, sistema autostradale, fognature, riserve idriche, aeroporti e controllo del traffico aereo, Banca Federale, ufficio brevetti, istruzione pubblica per gli impiegati, sanità pubblica, rete elettrica, comunicazioni satellitari, internet […] aria pura, acqua pura, prodotti e alimenti sicuri, sicurezza pubblica, accesso all’istruzione e alla salute, abitazioni, impieghi» non saremmo davvero liberi. «I Repubblicani si riempiono la bocca della libertà» dice Lakoff, «ma i Democratici sono il vero partito della libertà e devono ribadirlo.» Sono sicura che molti critici (di sinistra) del Partito Democratico dissentiranno con questa analisi e la interpreteranno come una versione annacquata del genere di libertà immaginato da Marx (o persino dai socialisti democratici), ma continuando […]

– Nel campo degli studi Lgbtq+, Janet Jackobsen e Ann Pellegrini hanno affermato (in Love the Sin) che «spostando il dibattito da un fulcro ristretto sul “diritto” alla libertà, speriamo di cambiare un movimento [il movimento Lgbtq] che, nella sua posizione attuale, è soltanto contro qualcosa (la discriminazione) in uno attivamente e fieramente a favore di qualcosa (la libertà)».

– La libertà riveste un ruolo predominante nel pensiero anarchico; come scrisse Mikhail Bakunin: «Io sono veramente libero soltanto quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o una negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più sono numerosi gli uomini liberi che mi circondano, più profonda e più ampia è la loro libertà, più estesa e più profonda e più ampia diviene la mia libertà». Accettare quella libertà come fondamentale è, nell’essenza, un fenomeno sociale, poiché se «la libertà di uno infrange necessariamente la libertà dell’altro», l’anarchia tratta l’atto di equilibrismo tra il desiderio individuale e il bene collettivo come una tensione positiva, «una componente inerente e creativa dell’esistenza umana», che va affrontata ricorrendo a metodologie come la democrazia diretta e il processo decisionale basato sul consenso per creare «una società libera di individui liberi» (vedi Anarchism and its Aspirations di Cindy Milstein).

11 Celebre l’indagine del sociologo Orlando Patterson su questo legame, in Slavery and Social Death, dove – dopo oltre mille pagine – arriva «alla scoperta sensazionale» che «l’ideale più acclamato in Occidente [la libertà] emerse come conseguenza necessaria della schiavitù e dello sforzo di negarla». Questo conduce Patterson a quel che definisce «un enigma strano e sconvolgente: dovremmo tenere in grande considerazione la schiavitù per ciò che ha conseguito oppure dovremmo mettere in discussione il nostro concetto di libertà e il valore che gli assegniamo?». Saidiya Hartman raccoglie, incisiva, questa domanda in Scenes of Subjection, offrendo un resoconto meticoloso e orripilante del discorso sulla schiavitù propugnato dai bianchi per soggiogare di nuovo i neri appena liberati nell’epoca della ricostruzione e oltre, dimostrando non solo che le forme di schiavitù, privazione dei diritti e sopraffazione violenta si mascherano da liberazione, ma anche che il soggetto liberale «libero» dipende da chi è «denigrato e deprecato, chi è castigato e soggiogato da svariate maledizioni corporali», la «sostanza carnale che permette all’universale di raggiungere il suo etereo splendore».

12 Si veda Lordon, Willing Slaves of Capital. Si veda anche il concetto di Marx sulla «doppia libertà» del lavoratore: «Dunque, per trasformare il denaro in capitale, il possessore di denaro deve trovare che disponga della propria forza-lavoro come di una merce, in quanto persona libera, e che, d’altra parte, non abbia da vendere altre merci, che gli manchi tutto il necessario per realizzare la sua forza-lavoro».

13 Altre persone e movimenti hanno sicuramente avuto una parte in questa conversazione – si veda, per esempio, Unequal Freedom di Evelyn Nakano Glenn, dove Glenn analizza la storia dei messicani e degli anglosassoni nel sudest, degli asiatici e degli haole alle Hawaii, comparandola alla storia dei bianchi e dei neri nel sud dell’America. Si veda anche Storia della libertà americana di Foner, sul conflitto riguardante l’idea di libertà dei nativi americani, che «si centrava sulla volontà di preservare la propria autonomia culturale e politica e mantenere il controllo delle terre dei padri» (p. 51) e la nozione dei coloni bianchi/destino manifesto, che esigeva l’annientamento di quell’autonomia. Ma data la particolare centralità materiale, giuridica e filosofica dello schiavismo e delle sue successive incarnazioni nella storia americana, la diade bianchi/neri ha informato e dominato a lungo il discorso nazionale sulla «libertà».

14 L’autrice e attivista adrienne maree brown ha sollevato la questione in Pleasure Activism: The Politics of Feeling Good (2019). Si veda anche l’esplosione di opere sulla «Black Joy», come nell’omonimo progetto di Kleaver Cruz; si veda anche il libro di Gabrielle Civil, performer e scrittrice, Experiments in Joy.

15 Si veda Berlant, «Trump, or Political Emotions». Si veda anche Depression di Ann Cvetkovich.

16 In una lettera stupefacente indirizzata a Baldwin, pubblicata sul New Yorker nel 1967, Arendt mette una pietra sopra il «vangelo d’amore» di Baldwin. «L’amore è estraneo alla politica» scrive Arendt «e, quando vi s’immischia, porta soltanto ipocrisia. Tutte le caratteristiche da lei ritrovate nella gente nera: la bellezza, la propensione alla gioia, il calore, l’umanità, sono caratteristiche ben note delle genti oppresse. Nascono dalla sofferenza e sono i beni più preziosi di tutti i paria. Purtroppo, non durano nemmeno cinque minuti dalla liberazione. L’amore e l’odio si appartengono, entrambi sono distruttivi; ce li si può permettere soltanto in privato e, come popolo, soltanto finché non si è liberi.» (Anche Moten commenta questa lettera: si veda Black and Blur, pp. 84-88.) Arendt qui confuta la tesi che i popoli oppressi siano detentori di una conoscenza speciale, una tesi che, filtrata dal registro teleologico, spesso assume la forma di «sofferenza redentrice». Come ha scritto lo storico britannico Paul Gilroy in The Black Atlantic, la sofferenza redentrice prende ciò che «inizialmente era sentito come una maledizione» (come la «maledizione di essere senza patria e la maledizione dell’esilio forzato») e se ne riappropria. Questa riappropriazione, nota Gilroy, è «un elemento familiare nella teologia di Martin Luther King Jr., che non solo sostiene che la sofferenza nera ha un significato ma che questo significato può essere esteriorizzato e amplificato in modo da beneficiare la condizione morale del mondo intero». Dopo la Seconda guerra mondiale, c’è stata una proliferazione di affermazioni simili riguardo all’esperienza ebraica ed era precisamente quello che Arendt respingeva (per Arendt era pericoloso trattare qualsiasi gruppo come una bussola morale indifferenziata, meno incline alla banalità del male o alla seduzione del potere). Simili rivendicazioni attraversano il pensiero femminista o almeno la corrente secondo cui le donne sono più portate per le relazioni, l’intimità e la cura rispetto al mito insensibile della libertà individuale. Mentre alcune femministe sostengono che le donne dovrebbero esercitare più individualismo e meno cura compulsiva dell’altro, per individuare e vivere un’autonomia più funzionale a se stesse, altre invocano una rivalutazione culturale del «lavoro femminile» di cura e accudimento, sostenendo che si tratti di una forma di conoscenza (o, da una prospettiva economica, di lavoro non retribuito) che tiene insieme la società, offrendo i legami che rendono la vita degna di essere vissuta. Alcune femministe, va detto, considerano ingenua ed essenzialista l’idea che le donne abbiano un accesso privilegiato all’integrità etica capace di redimere un mondo malato (si veda, per esempio, Split Decisions della giurista Janet Halley, dove Halley stronca il femminismo orientato alla cura della psicologa Carol Gilligan e della giurista Robin West).

17 Moten, corrispondenza privata, 9 ottobre 2016.

18 Si veda Marcus e Schwartz, «Does Choice Mean Freedom and Well-Being?». Si veda anche Development as Freedom di Amartya Sen.

19 Ovviamente, si può «stare bene» anche riproducendo, diciamo, le occupazioni dei coloni bianchi, come esamina Anthony McCann nei suoi scritti sull’occupazione del Malheur Wildlife Refuge in Oregon da parte di Bundy and Co. In un articolo del 2016 intitolato «Sovereign Feelings», McCann scrive (in via congetturale) degli occupanti: «Devono essere stati benissimo là. Anche se non sapevano granché, anche se in fin dei conti si sentivano (ed erano) smarriti, è un posto stupendo e dev’essere stato fantastico trovarsi lì. Tralasciamo, per il momento, la questione di che cos’è un posto, o che cosa significa sentirsi smarriti, o smarriti in un posto; atteniamoci alle sensazioni, anche se il posto è una sensazione, anche se lo smarrimento è spesso il modo con cui si prova o un modo per raggiungere la sensazione. Dev’essere stato grandioso semplicemente stare lì in quella terra, in quel paesaggio, lì dove si trovavano – in un territorio da poco liberato, appena inventato, disegnato dalle linee della propria attività, dei propri sentimenti. Dopotutto, non erano soltanto lì, non erano soltanto lì dentro, ma erano quel posto – e quello, questa cosa nuova tutta per loro, si cullava in un’immensità scintillante».

20 «Meno sei sicuro di te» ha detto Moten, «più una comunione diventa possibile» (si veda «The Black Outdoors», una conversazione pubblica con Hartman). Queste idee sul rapporto tra il sé e la comunione appartengono a diverse tradizioni spirituali, per esempio il Buddismo Mahāyāna, che considera l’io individuale come un’illusione che intralcia la strada verso la comprensione dell’unità; anche i biologi usano il dolore per ricordarci che, nella biosfera, «esiste solo una verità immutabile: nessun essere è puramente individuale; niente è composto soltanto da sé. Tutto è formato da cellule estranee, simbionti estranei, pensieri estranei. Per questo ogni forma di vita assomiglia più a un singolo universo che a un singolo guerriero, attraversa la vita ruzzolando in modo stravagante come lucciole nella notte. Vivere significa partecipare alla comunione permanente e reinventarsi di continuo dentro una rete incommensurabile di relazioni» (Weber, Matter and Desire, p. 36).

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