di Linnio Accorroni
Vocali, rubrica a cura di Linnio Accorroni
Caro M.,
ad una prima corsiva lettura m’era sembrata geniale l’introduzione dell’algido, crepuscolare Julian Barnes a Una visione del mondo, micro-antologia dei racconti di John Cheever che Feltrinelli ha appena pubblicato. Geniale quell’introduzione perché poggiata su una doppia versione, antiteticamente costruita, della personalità di Cheever, questo Čechov alcolico della East Coast, meno languoroso, ma più disinibito del russo, più lowbrow, ma meno esistenzialista dell’autore di Zio Vania. Prolifico autore Cheever ( malgré soi, si direbbe, se si pensa a ciò che confidò ad un amico: –Ho tanta voglia di scrivere un racconto quanto quella di scoparmi un pollo-) di più di 200 racconti (questa edizione Feltrinelli ne raccoglie appena sedici), alcuni dei quali eccelsi, purissimi capolavori, quali Il nuotatore, Una radio straordinaria o, ancora, I dolori del gin, con struggente epifania joyciana in finale di racconto. La prima versione della vita di Cheever, virata da Barnes tutta in positivo, appare tanto melensamente irreprensibile da non sfigurare in un corsivo di Gramellini: Cheever ci appare come un perfetto family man, felicemente succube di sfolgoranti successi letterari e soavi virtù domestiche, tutto uno scialo di moralità, pregi e virtù ai limiti dell’agiografia. La seconda versione, invece, rovescia totalmente l’impianto su cui era costruita la precedente: rimbalza da quelle righe l’immagine luciferina di Cheever come di un maudit stelle e strisce a scoppio ritardato, maniacale depresso ciclotimico in balia di pesanti dipendenze sessuali ed alcoliche. Due versioni agli antipodi, dunque; e l’una che contraddice, in toto, l’altra. Eppure è sempre della stessa persona che si sta parlando; è sempre la vita di John Cheever quella che viene setacciata e riletta da Barnes, autore di quel grande romanzo di sommersa inquietudine che è Il senso di una fine, in queste due maniere diametralmente opposte. Poi, piano piano, mi sono reso conto che lo « Schema Barnes » (e cioè la Versione 1, successivamente contraddetta e smontata, dalla Versione 2) non era poi così sorprendentemente originale, perché, per esempio, si attagliava, mimeticamente, alle biografie di alcuni scrittori che se la ridono beati dai più alti cerchi del mio Pantheon privato. E, per cominciare, sono partito proprio da quel Flaubert a cui lo stesso Barnes, nel 1984, ha dedicato un’ abbagliante, eterodossa anti-biografia intitolata Il pappagallo di Flaubert . Sottoponiamo quindi la vita di Flaubert allo «Schema Barnes».
Flaubert: Versione 1: grande e disinvolto puttaniere, la cui variegata frenetica attività sessuale lo condurrà a frequentare, con estenuata voluttà, i bagni turchi del Cairo e le prostitute di Marrakech e di Tunisi, tanto da contrarre la sifilide che lo tormenterà a lungo (peraltro, condivisa da una pregiatissima ed invidiabile compagnia: Daudet, Maupassant, Baudelaire, Jules de Goncourt et alia). Viaggiatore incallito, ha compiuto lunghe, avventurose scorribande in Francia e all’estero: Svizzera, UK, Egitto, Siria, Palestina, Turchia, Grecia, Italia, Algeria, Tunisia, Germania, Belgio. Dopo il succès de scandale di Madame Bovary, diventa un mondano habitué di salotti e circoli letterari. Odiava la democrazia (Démocrasserie la definisce in una sua lettera e cioè, mancando nella nostra lingua un sinonimo perfettamente corrispondente, la Demomerdata, la Demoporcata, la Demoschifezza) quanto l’umanità: « L’umanità si è messa a girare le sue macchine e, vedendo che ne sgorgava oro, ha esclamato: È Dio! E quel Dio, essa lo mangia! ».
Flaubert :Versione 2: Flaubert è universalmente noto come l’eremita di Croisset, epiteto che gli deriva da una esistenza claustralmente appartata nella nuova casa di famiglia, dove si rifugiò dopo il primo attacco di epilessia e nella quale visse un’esistenza monacale dal 1844 fino all’anno della sua morte (1880). È legato, in maniera morbosa, alla figura di sua madre, di sua nipote e a quella della sua Musa, Louise Colet, con la quale allaccia una tormentata (ecco un eufemismo!) relazione amorosa e che costituirà la base di un epistolario di clamorosa bellezza. Adora l’umanità in toto, senza distinguo, soprattutto quella sommersa da un oblio irredimibile: « Io simpatizzo altrettanto e forse più sulle miserie scomparse dei popoli morti, a cui nessuno pensa ora, con tutte le grida che hanno lanciato e a cui nessuno pensa più ».
E Céline?
Versione 1: l’eroe che, volontario, a soli 18 anni va in trincea, guadagnandosi la Croce di guerra e la medaglia militare e le copertine dei giornali; medico filantropo che lavora in giro per il mondo per la Società delle Nazioni e poi medico dei poveri a Montmartre, che cura spesso gratis et amor dei.
Versione 2: l’autore di famigerati libelli antisemiti, il collaborazionista, il delatore che denunciava alle autorità tedesche molti suoi conterranei in quanto «stranieri ebrei non naturalizzati».
E Proust? Da una parte il mondanissimo esteta ed estenuato dandy (Versione 1) ed il sepolto vivo nella sua stanza foderata di sughero per comporre, prima della morte, quell’immensa Cattedrale della memoria che è la Recherche (Versione 2)? Ma non è così anche per Nabokov? E per Tomasi di Lampedusa? E per Sebald? E Bernhard? E Philip Roth? E…E…E… adesso basta! Mica posso snocciolare qui, impudicamente, tutto l’affollato catalogo del mio privatissimo politeismo letterario!
[Immagine: John Cheever].
suggerisco gratis et amore dei il proverbio ‘gratis et amore dei’ invece di ‘gratis et amor dei’ visto nel suo articolo, grazie – a.ferrarini
Lei ha ragione, a. ferrarini. Grazie per la gentile e puntuale osservazione. Linnio Accorroni