di N. Katherine Hayles

 

[Esce domani per Effequ L’impensato. Teoria della cognizione naturale, di N. Katherine Hayles (trad. di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini). Ne riportiamo un estratto, ringraziando l’editore].

 

Come un’armonia oscura che corre sotto i canti di lode per le luminose virtù della coscienza, il sospetto che la coscienza non sia quello che sembra (alla coscienza stessa) corre lungo tutta la storia del pensiero occidentale. Alla fine del Diciannovesimo e all’inizio del Ventesimo secolo, movimenti come il surrealismo, con pratiche come la scrittura automatica, cercarono di fratturare la superficie della coscienza per farne emergere qualcosa di meno razionale e meno votato alla coerenza. Alla fine del Ventesimo secolo la tendenza iniziò a dotarsi degli strumenti più affilati messi a disposizione dalla ricerca neuroscientifica sui traumi cerebrali e altre anomalie neurologiche, che si avvale di strumenti diagnostici sempre più avanzati, in particolar modo la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Opere di successo come L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks e L’errore di Cartesio di Antonio Damasio additarono il ruolo cruciale dei processi nonconsci nel garantire il normale comportamento umano e l’incapacità della coscienza di continuare a funzionare come se nulla fosse quando viene meno tale supporto.

 

Idee che si diffusero e indussero molti scrittori a tenersi al passo esplorando le crepe della coscienza. Parlo di opere come Il fabbricante di eco di Richard Powers, Brooklyn senza madre di Jonathan Lethem, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, Neuropath di R. Scott Baker e L’amore fatale di Ian McEwan. La proposta della critica non si fece attendere, con la categoria della ‘neurofiction’, come si vide nel numero speciale di Modern Fiction Studies a cura di Stephen Burn, a tema ‘neuroscienze e fiction moderna’[1].

 

Due opere di questa corrente si stagliano sopra le altre per l’incisività con cui analizzano i costi della coscienza e ne esplorano le implicazioni culturali, economiche, evolutive e etiche: Déja vu di Tom McCarthy e Blindsight di Peter Watts. Il narratore mai nominato di Déja vu è un uomo che ha perso le funzioni della cognizione nonconscia a seguito di un incidente mai specificato; in Blindsight il quadro si amplia alla rappresentazione di forme di coscienza anomale e all’esplorazione dei rischi connessi alla strada evolutiva percorsa dall’homo sapiens quando la specie (insieme ad altre forme di vita terrestri) raggiunse la coscienza. Entrambi questi romanzi sono influenzati in modo significativo dall’attuale ricerca neuroscientifica, ma non la seguono pedissequamente; scandagliano piuttosto le conseguenze della coscienza a una profondità assai maggiore di quella raggiunta dalla scienza, in particolare nelle dimensioni fenomenologiche e culturali, ed evidenziano l’importanza cruciale della cognizione nonconscia: in Déja vu attraverso la sua perdita, in Blindsight attraverso l’invenzione di una specie aliena che ha sviluppato una tecnologia enormemente superiore a quella terrestre anche se è priva di pensiero cosciente. Entrambi i romanzi mostrano quanto vengano messi in discussione o addirittura negati i presupposti delle culture occidentali tradizionali quando il primato della coscienza superiore è messo in dubbio, così come la sua associazione con l’autenticità, la sua capacità di dare senso alla vita (umana), la sua identificazione con la teoria economica dell’attore razionale, il suo intreccio con lo sviluppo di tecnologie sofisticate, e la superiorità percepita che conferisce agli umani in qualità di specie cognitivamente più avanzata del pianeta (e oltre).

 

Déja vu: la coscienza contro l’ostinato potere della materia

 

Dall’alone di vaghezza che circonda l’incidente di Déja vu, emergono chiaramente solo due dettagli: che il narratore ha subito un danno neurologico; e che ha ricevuto un risarcimento di otto milioni e mezzo di sterline. L’esatta natura delle lesioni resta sconosciuta, ma apprendiamo che il narratore ha perso il controllo motorio del lato destro del corpo (cioè ha subito un danneggiamento dell’emisfero sinistro del cervello) e che si sottopone a una terapia di “reinstradamento[2]” delle reti sinaptiche che gli consenta di tornare a muovere gli arti. Le funzioni sono parzialmente ripristinate, ma non con la fluidità che la maggior parte di noi dà per scontata.

 

Oliver Sacks racconta il caso della “ragazza disincarnata[3]”, una donna che, avendo perduto la propriocezione, era capace di muoversi solo concentrandosi coscientemente sui movimenti desiderati, come se fosse una burattinaia che controllava il proprio corpo-burattino. La donna si descriveva come “svuotata”, e qualcosa di simile sembra capitare anche al nostro narratore, che impara a simulare mentalmente a ripetizione il movimento desiderato, allenando le proprie reti sinaptiche a compensare il deficit causato dalla lesione. Ma nella realtà, diversamente che nella simulazione, la carota che tante volte si è allenato ad afferrare nell’immaginazione oppone un’ostinata resistenza: nodosa, pelosa, dotata di maligna capacità di azione. Il suo commento “La mia rovina: la materia[4]” non è solo un riferimento all’oggetto che l’ha colpito causandogli il danno cerebrale, ma parla in un senso più generale e metaforico della lotta contro le cose che è diventata la sua vita.

 

La forma assunta da questa lotta indica suggestivamente che una delle vittime dell’incidente è stato il nonconscio cognitivo. La coscienza si trova costretta a supplire al suo ruolo sobbarcandosi compiti che non le competono, come il riconoscimento e l’estrapolazione di pattern, l’integrazione di marcatori somatici in rappresentazioni coerenti del corpo, e la fusione di eventi avvenuti in luoghi e momenti diversi nella simultaneità della coscienza. Naturalmente la funzione primaria della cognizione nonconscia è prevenire il sovraccarico della coscienza, che ha capacità di assorbimento e di elaborazione delle informazioni limitate, cosicché la sua assenza spinge la coscienza a trovarsi costantemente sull’orlo del sovraccarico.

 

La coscienza del narratore compensa l’allentamento della connessione con il corpo e il mondo cercando sempre più controllo, fino a sfociare nell’ossessività. Questo processo, sostenuto dalla disponibilità economica data dal risarcimento, lo spinge a imbarcarsi nelle sue reinterpretazioni. Le reinterpretazioni mettono in scena la lotta tra il mondo della materia, imprevedibile e in costante trasformazione, e i tentativi del narratore di ‘catturarli’ riconducendoli a schemi familiari in situazioni controllate. Inizialmente fa pratica con il proprio corpo, per esempio ripetendo centinaia di volte gesti quotidiani come aprire la porta del frigorifero, finché il bordo della camicia non torna a sfiorare l’angolo del bancone della cucina nel modo corretto, la porta del frigorifero non torna a comportarsi docilmente ma non troppo, e così via. Quando trova il movimento ‘corretto’, viene ricompensato da un formicolio sulla spina dorsale e altri segnali somatici che lo fanno sentire, per un istante, come un autentico essere vivente. Le sue ripetizioni ossessive sono tentativi di ricreare artificialmente quelle simulazioni cerebrali modali che Lawrence Barsalou[5] ritiene essenziali per il normale funzionamento umano[6]. Essendo ormai incapace di ottenerle attraverso un processo mentale spontaneo, il narratore cerca di esternalizzarle, ma si rende rapidamente conto che la versione surrogata funziona molto peggio. La sensazione di soddisfazione è troppo breve; e per ricatturarla deve mettere in piedi reinterpretazioni sempre più bizzarre.

 

Ma il narratore non ha perso solo la fluidità cinestesica, ha anche perduto la capacità neurologica di provare empatia, forse per il danneggiamento dei neuroni specchio[7]. A causa di ciò, e grazie all’improvvisa disponibilità di denaro, non trova strano fornirsi di ‘personale’ che tratta come se fossero suoi schiavi personali di cui può disporre come più gli aggrada – attori, progettisti di scena e, più importante di tutti, Nazrul Ram Vyas della Time Control UK: “Naz mi facilitava tutto. Realizzava tutto[8]”. Il narratore, incapace di sentirsi connesso al mondo per mezzo dell’azione incarnata, cerca di ricreare le connessioni tramite l’introspezione cosciente. Così accade per esempio durante il primo incontro con Naz, mentre questi, su sua richiesta, fa una telefonata: “Nella mia mente tracciai un triangolo dal tavolo del ristorante al satellite nello spazio che avrebbe ricevuto il segnale, e poi di nuovo giù fino all’ufficio della Time Control[9]”. Oppure, quando si imbatte in un gruppo di operai che stanno installando dei cavi sotto il manto stradale, e riflette sulle connessioni che stanno rendendo possibili, li dichiara più che bramini, dèi, che installavano i cablaggi del mondo, poi li ricoprivano: “i loro percorsi, i loro giunti[10]”.

 

Là dove il narratore mostra le conseguenze di una coscienza che opera senza la cognizione nonconscia, Naz incarna il paradigma cognitivista della coscienza come manipolazione di simboli formali e indipendenza dai segnali provenienti dalle azioni incarnate e dalle sensazioni modali: “Lo sguardo [di Naz] si fece vacuo mentre la cosa che aveva dietro agli occhi mulinava, elaborando. Aspettai finché il suo sguardo non mi disse di continuare[11]”. Assieme, Naz e il narratore rappresentano un’idea della cognizione umana che assume tratti da incubo: una razionalità priva di empatia; decisioni prese senza il supporto della cognizione nonconscia; azioni fatte senza le connessioni create dall’essere incorporati nel mondo.

 

[…]

 

Blindsight e le neuroscienze 

 

Mentre in Déja vu i riferimenti alle neuroscienze sono quasi sempre impliciti, in Blindsight sono messi in bella vista, anzi, in alcune occasioni Watts si spende in ‘spiegoni’[12] malamente giustificati per illuminare chi legge; include persino una bibliografia dei titoli neuroscientifici che ha impiegato. Perciò non è sorprendente che abbia incluso nel romanzo un personaggio che ricorda il narratore di Déja vu, il “sintesista” Siri Keeton. Il danno neurologico che in Déja vu è la conseguenza di un incidente, qui deriva da una emisferectomia radicale, cioè la demolizione chirurgica di un emisfero cerebrale, un intervento eccezionale effettuato per risolvere l’epilessia fuori controllo di Siri. Ne consegue un’incapacità di provare empatia che lo induce ad agire perlopiù attraverso calcoli razionali, come si vede nella scena iniziale in cui interviene per salvare un suo compagno di scuola, Robert (Rob) Paglino, dalle botte di un gruppo di bulli. Li coglie di sorpresa e li fa a pezzi, senza preoccuparsi dei danni che causa e del tutto privo di empatia verso il loro dolore. Rob, pur essendo stato salvato dall’intervento di Siri, è scioccato dalla sua violenza e gli darà il soprannome di ‘Ultracorpo’[13].

 

Anche Siri reagisce al proprio deficit elaborando strategie compensatorie, ma di tipo molto diverso da quelle del narratore di Déja vu: diventa un esperto di ‘topologie informazionali’, micromovimenti facciali, sottigliezze gesturali nella comunicazione di intenzioni, sentimenti e motivazioni indipendenti dal contenuto semantico. Opera in maniera molto simile al ‘sociometro’ che descriverò nel capitolo 5, con la differenza che lavora allenando le sue percezioni invece che usando strumentazioni esterne. Si rende conto che gli altri lo trovano strano, ma riflette: “La gente non può accettare che i pattern posseggano un’intelligenza autonoma che non ha niente a che spartire con il contenuto semantico che galleggia in superficie; se manipoli la topologia nella maniera corretta, il contenuto la segue docilmente[14]”.

 

La sua capacità risulta ancora più straordinaria se si tiene conto che Siri non prova empatia. Lui compara questa sua abilità con la stanza cinese del filosofo John Searle, un esperimento mentale ideato per confutare l’intelligenza artificiale forte: Searle immagina un uomo su una sedia in una stanza con una fessura sulla porta, e qualcuno che da fuori inserisce delle sequenze di caratteri cinesi nella fessura. L’uomo non legge né parla alcuna forma di cinese, ma estrae caratteri cinesi da un cestino ai suoi piedi, usando un manuale d’istruzioni per associare la stringa in entrata con una nuova che compone e invia all’esterno sempre tramite la fessura. Le sue risposte sono così ben formate che l’interlocutore si convince di avere a che fare con un parlante cinese che capisce sia le domande che le risposte. L’argomento di Searle è che l’uomo nella stanza è come un computer: può associare simboli seguendo delle regole, ma non sa che cosa significano. Alla sfida posta dalla stanza cinese sono state date molte risposte; quella adottata da Siri è una delle più convincenti: che non è l’uomo in sé a capire il cinese, ma è la stanza intera, incluso il manuale d’istruzioni, il cestino con le lettere e anche la sedia.

 

Analogamente, Siri non capisce l’empatia usando i neuroni specchio o altre funzioni neurologiche; invece, l’addestramento e l’esperienza (i suoi protocolli) gli permettono di osservare con estrema attenzione, trarre inferenze ed estrapolare da ciò delle conclusioni su quello che gli altri provano. Dice al suo amico Rob: “L’empatia non è tanto immaginarsi come si sente l’altra persona; è più immaginarsi come mi sentirei io se mi trovassi al suo posto[15]”. Il suo metodo è differente, e consiste nel cercare di intuire i sentimenti degli altri e da quelli risalire alle loro motivazioni. “Io osservo. Tutto qui” racconta a Rob: “Guardo quello che fanno le persone e poi immagino cosa potrebbe averle spinte ad agire così[16]”.

Durante la conversazione Rob menziona casi simili a quelli della “ragazza disincarnata” di Oliver Sacks (senza peraltro citarlo): “Alcuni di loro sostengono di sentirsi svuotati. Inviano un segnale motorio alla mano ma possono solo sperare che sia arrivato, perché non hanno riscontri. Allora usano la vista: guardano la mano mentre si muove per compensare il fatto che non la sentono. È un surrogato del normale meccanismo di azione e reazione che diamo per scontato”. E continua: “tu usi la tua stanza cinese nello stesso modo. Hai ricostruito l’empatia quasi da zero, e da certi punti di vista – non tutti, che te lo dico a fare? – la tua versione è migliore dell’originale. È per questo che sei così bravo con la Sintesi[17]”.

 

Nelle valutazioni di Rob resta sottinteso che vi sono differenze cruciali tra sentire empatia e ricreare la conoscenza che produce. A volte Siri sogna il sé stesso di prima, e quando succede, è impressionato dalla vividezza della sua vita precedente. “A volte… A volte sogno di lui. Di essere lui […]. Era tutto — colorato. Tutto era più saturo, sai? I suoni, gli odori. Più intensi che nella vita reale[18]”. Questa differenza, la sensazione cioè di essere immersi in un ambiente sensorialmente ricco piuttosto che ricrearlo dall’esterno, è quello che Derrida chiama ‘la differanza’ tra autenticità e reinterpretazione, e che ha conseguenze disastrose nella vita del narratore di Déja vu. Per Siri, il deficit è meno dannoso nell’immediato, anche se ci sono passaggi cruciali in cui emerge come una forza determinante nel dare forma al suo percorso.

 

Note

 

[1] Stephen J. Burn, Neuroscience and Modern Fiction in «Modern Fiction Studies» vol. 61 n. 2, 2015.

[2] Tom McCarthy, Déjà vu: il romanzo dei ricordi perduti, Isbn Edizioni, Milano 2013, p. 19.

[3] Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi eBook, Milano 2013, pp. 57-69.

[4] Tom McCarthy, Déjà vu, Op. cit., p. 18.

[5] Lawrence W. Barsalou, Grounded Cognition, Op. cit.

[6] Sono debitrice verso l’editor anonimo #1 della Chicago University Press per questa idea.

[7] Non è rilevante chiedersi se ciò abbia senso dal punto di vista fisiologico. McCarthy si astiene saggiamente dallo specificare l’esatta natura del trauma del narratore, scegliendo invece di lasciare a chi legge la possibilità di immaginarla sulla base delle sue azioni.

[8] Tom McCarthy, Déjà vu, Op. cit., p. 65.

[9]Ibid. p. 74.

[10]Ibid. p. 86.

[11]Ibid. p. 75.

[12] Traduzione di infodump, termine coniato nelle scuole di scrittura creativa e che significa letteralmente ‘cumulo di info-spazzatura’ [NdR].

[13] Peter Watts, Blindsight, Tor Books, New York 2006, p. 58 [TdT].

[14]Ibid. p. 115.

[15]Ibid. p. 234.

[16]Ibid. p. 233.

[17] Ivi.

[18]Ibid. p. 234.

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