di Vanni Bianconi
[E’ uscito nelle scorse settimane per Nottetempo Tarmacadam. Ventuno incantesimi di Vanni Bianconi. Proponiamo qui un capitolo del libro]
Colonia penale – dragomanno
S. è londinese, vive a Londra da quindici anni. Pare ci si possa definire londinesi dopo averci vissuto per sette anni. A Roma, ci vogliono sette generazioni: un rapporto diverso con il tempo e con il passato che si ritrova in ogni aspetto delle due città – la città eterna, l’eterno presente. “Era come se per motivi pragmatici il tempo, e la storia di Londra, avessero smesso di esistere. La ricerca del profitto e della gratificazione immediata aveva trasformato il passato in un paese straniero”, scrive Peter Ackroyd sugli anni sessanta, ma l’osservazione sembra valere per quasi tutta la storia di Londra, mentre invertendone i termini a piacere si ottengono descrizioni di Roma più che accettabili.
S. è londinese, si era trasferito nel quartiere di King’s Cross molto prima che diventasse la città nella città che è ora. In pochi anni l’intera zona, il triangolo tra St Pancras, il canale e York Way, è stata trasformata. In quel periodo di transizione gli spazi inerti tra gru e cantieri prendevano vita: un bar e un orto venivano costruiti con i materiali di scarto, e ricostruiti nel prossimo spazio vuoto quando dovevano sgomberare; in cima a una piccola collina casuale c’era una piscina riempita di carissima acqua pura. Sono stati accuratamente conservati e in qualche modo integrati alcuni vecchi muri e il piccolo ecoparco lungo il canale che sale verso Camden. Sulla riva opposta, i gasometri vittoriani erano stati smantellati tutti, ma quattro, dopo essere stati tirati a lustro, sono stati ricostruiti. Il numero 10, l’11 e il 12 sono abitati: le strutture dei gasometri contengono gli edifici come fossero pannoloni o deambulatori per vecchi ormai immobili; gli edifici colmano le strutture dei gasometri e svuotano il restauro del suo significato: la loro bellezza sta nel modo ornato in cui contengono il niente. Una qualità che si può ancora apprezzare, pure moltiplicata sulle sue colonne di specchi, nel numero 8, trasformato in giardino pubblico. Di questo quartiere, negli anni sessanta Ian Nairn scriveva: “L’equivalente ottocentesco di un angelo barocco non è un angelo vittoriano, ma un gasometro barocco. L’intera zona dietro St Pancras è di una frenesia incredibile: tunnel, prospettive, treni sullo sfondo, strade per ogni dove. Se non ti suscita reazioni immediate, soffermati finché accade qualcosa: ne varrà la pena”.
S. è londinese. Prima di ottenere l’asilo politico e la cittadinanza, era a Londra illegalmente e accettava qualsiasi lavoretto, come applicare etichette lussuose su bottiglie di vino scadente: le bottiglie arrivavano spoglie dalla Turchia e da chissà dove, e gli venivano appiccicati su i loro nuovi documenti, fregiati di castelli francesi e tenute italiane, per integrarsi meglio. Quando S. fece la richiesta d’asilo fu portato nello stanzino dell’uomo che racconta le storie. C’era un altro ragazzo insieme a S., e a entrambi l’uomo confezionò un nuovo passato, adatto alla richiesta d’asilo. Il passato reale era sufficientemente drammatico, ma non è questo il punto: è l’aspettativa che conta, e va soddisfatta a ogni costo. S. ottenne il permesso di soggiorno, l’altro lo status di rifugiato.
Una volta in regola, S. ha studiato design d’interni e animazione digitale; in seguito ha girato un paio di cortometraggi, ora scrive racconti. Prima di arrivare a Londra, S. aveva trascorso l’adolescenza in Arabia Saudita, dove l’unica cosa che poteva leggere era il Corano (e l’ḥadith, il Tafsī’r, il Fiqh) e l’unica cosa a cui poteva pensare era la donna (e i suoi capelli, il suo collo, le sue gambe) che, come molti adolescenti sauditi, non aveva mai incontrato. Oggi S. legge tanto, anche molto Kafka, ma solo Deleuze in modo maniacale o religioso, ogni titolo più volte.
S. è di padre etiope e madre eritrea. I due paesi erano in guerra e S. ha trascorso l’infanzia in un campo profughi in Sudan. Dopo la colonizzazione italiana e il mandato britannico, l’Eritrea era stata occupata dall’Etiopia, ma l’esercito etiope si è ritirato nel 1991 e nel 1993 è stata dichiarata l’indipendenza eritrea. Eppure la pace tra i due paesi è stata firmata solo nel 2018, dopo l’elezione del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, un uomo che sembra capace di cambiare molte cose. Cosa cambierà in Eritrea è ancora da vedere. Per un ventennio la guerra nominale è servita a rendere necessarie misure straordinarie, come la leva forzata permanente che fa di ogni eritreo tra i 17 e i 50 una recluta a cui ogni altra attività è preclusa, uomini ridotti a manodopera gratuita al servizio dello stato. Le caserme sono diventate prigioni e le prigioni gulag per i disertori. Si dice che il dittatore Afewerki sia ancora al potere perché più di lui si teme il vuoto che lo seguirebbe. L’unica forma di resistenza sarebbe l’emigrazione. Allo stesso tempo, le tasse pagate dalla diaspora eritrea costituiscono una delle principali fonti di guadagno del paese. S. dice che Asmara è la più bella città d’Africa. Non che ci abbia mai messo piede.
Nel campo profughi in Sudan, ancora bambino, S. ha perso l’udito, interamente da un orecchio e quasi interamente dall’altro. Per quantificare le sue capacità uditive in due parole, il dottore gli ha assicurato che senza apparecchio acustico sentirebbe i reattori di un grosso aereo solo se stesse seduto sotto l’ala. Gli apparecchi acustici migliorano di anno in anno però, e l’ultimo che S. ha ricevuto ha fatto una grande differenza; dopo un primo momento di gioia, S. si è fatto serio e ha chiesto al dottore: “Perché adesso?” Poche settimane dopo, le misure di austerità nel Regno Unito hanno decretato che la sordità non è più un handicap, e S. ha smesso di ricevere il sussidio di invalidità. Deve cercare altri lavori, adesso. E questa, a dire il vero, non è la storia di S., ma dei suoi primi clienti. S. lavora come interprete per richiedenti asilo di lingua araba, che vengono in buona parte dal Corno d’Africa, da dove viene S.
“Dragomanno” (interprete tra gli europei e i popoli del Vicino Oriente) viene dall’arabo targ’amân (“interprete, traduttore”), dal verbo targ’ama (“interpretare, spiegare”), di origine caldea, prossimo a taraga (“essere occulto, oscuro”).
I suoi primi clienti sono un avvocato indiano e un giovane eritreo, stazionato in un centro di accoglienza profughi di Manchester. Per l’assistenza legale il ragazzo deve venire fino a Londra. Il ragazzo entra nella stanza, sembra rilassato, come se stesse pensando ad altro o non gliene importasse niente. Forse perché il suo interprete è sordo, perché il suo avvocato è indiano. Risponde a malapena alle prime domande, poi smette di parlare del tutto, mentre l’avvocato è preso da un attacco di monologhi che dura fino alla fine della sessione. Dice: “Sono un grande avvocato”, “Sono quello che ti salverà”. Si ripete più volte, con parole appena diverse. S. è a disagio, è da un po’ che ripete le stesse affermazioni, ma il ragazzo sembra non curarsene. La sessione ha termine e il ragazzo se ne va senza aver esposto il suo caso, torna a Manchester e dovrà ripresentarsi due settimane più tardi. S. si chiede se l’avvocato indiano tratta i casi in questo modo per moltiplicare il numero di sessioni finanziate dallo stato.
Durante una sessione fanno una pausa di cinque minuti. Ma il ragazzo scompare, per riapparire mezz’ora più tardi. S. nota un sacchetto di TK Maxx, un rivenditore di marche a prezzi ribassati dove anche S. compra i vestiti quando può. La reazione dell’avvocato è inattesa: rimbrotta il ragazzo ma bonariamente, con una preoccupazione genuina, si direbbe, poi si concentra sul suo caso. Che ben presto sembra a posto, forse pronto per essere inoltrato alle autorità. Poi il ragazzo dice: “C’è un’altra cosa”. È sposato, vuole che sua moglie lo raggiunga. L’avvocato se la prende, mesi prima si era dato un gran daffare per stabilire l’età del ragazzo. Chiede: “Quanti anni hai?”
“Diciassette”.
“Quando hai lasciato il tuo paese dovevi averne dodici”.
“Al mio paese ci sposiamo presto. Non dormiamo insieme finché abbiamo diciotto anni”.
L’avvocato inizia a ripetere un mantra minaccioso. “Non dire che sei sposato, non sei sposato”. Il ragazzo seguita a dire, muovendo appena le labbra, che è sposato, si sono sposati molto giovani, no non ci sono documenti che lo provino, ma lei lo deve raggiungere qui, è sua moglie, e l’avvocato grida che se continua con quella storia presto sarà lui a raggiungere lei, che è imperativo procedere in maniera coerente dall’inizio alla fine. La conversazione non avanza, l’interprete perde sempre più parole, l’avvocato se la prende anche con lui, è stufo di doversi ripetere solo perché S. ha problemi di udito. Fortunatamente anche questa sessione finisce.
Un’altra sessione. Parlano di un evento, uno di quelli importanti nella storia del ragazzo, l’avvocato chiede quando è accaduto, il ragazzo risponde il 25 aprile.
“Come fai a sapere che era il 25 aprile?”
“Me lo sono scritto. Volevo ricordarlo”.
“Ma come facevi a sapere che data era?”
“Perché lo sapevo, era il 25 aprile”.
“Ascolta quando ti parlo. Come facevi a saperlo?”
“Era sera, del 25 aprile. Me lo sono scritto sul braccio prima di partire”.
“Non mi stai ascoltando”.
“Perché so che…”
L’avvocato balza in piedi e fa segno verso la porta con due braccia, con due mani. Grida al ragazzo di uscire.
S. rimane seduto un po’ più a lungo, poi esce a sua volta. La segretaria, quella molto alta, ingiunge a S. di spiegare al ragazzo che deve farsi perdonare, deve pregare l’avvocato di occuparsi del suo caso, scusarsi sinceramente dal fondo del cuore, cercare di prendere le mani dell’avvocato nelle sue. S. traduce ammutolito, il ragazzo lo guarda e ascolta pacifico, come se non ci trovasse niente di strano. Quando tornano nella stanza, il ragazzo si mette una mano sul cuore e dice che è sinceramente dispiaciuto, e profondamente grato, tutto quel che diverrà della sua vita dipende dall’avvocato, come vorrebbe non averlo mai offeso, e implora l’avvocato di accettare il suo caso e accettare le sue scuse. S. traduce, mentre pronuncia questa richiesta la sua voce si fa sempre piùnasale, e una tensione che non percepiva da tanto tempo lo fa sudare come un bugiardo – un bugiardo che dice di mentire.
L’avvocato aspetta calmo che finisca di parlare, poi ritrova la sua furia come se l’avesse semplicemente messa in pausa e riprende a gridare. Tra le cose che grida, ce ne sono di importanti, cose rilevanti per il caso del ragazzo, per capire come trattare la richiesta d’asilo, ma S. perde tutte le cose che dice, un ambaradan, o molte delle cose che l’avvocato dice, S. sta traducendo il tono furioso, il rifiuto, il verdetto, FUORI, FUORI, FUORI e non farti più vedere, dice S. e mentre lo dice si alza ed esce a sua volta dalla stanza.