di Massimo Palermo
Il dito e la luna
Nei giorni scorsi le polemiche legate al fastidio di alcuni spettatori per la romanità dei dialoghi di Michele Rech nella serie Strappare lungo i bordi sono rimaste a lungo tra gli argomenti di tendenza su Twitter. Polemiche certo minoritarie rispetto ai prevalenti consensi di pubblico e di critica che la serie sta ricevendo. Una serie da molti (incluso chi scrive) considerata un capolavoro, per tante ragioni. Innanzitutto, sa attraversare e rompere i confini: è una serie generazionale, ma sa parlare a persone di età diverse; è focalizzata sul disagio esistenziale delle identità maschili e sulla loro precaria educazione sentimentale (sintetizzato nella scritta amare le femmine è da froci: il valore epifanico delle scritte murali nella serie meriterebbe un intervento a parte), ma arriva a tutti, e potremmo continuare. Più di tuto la serie sorprende per la sua capacità di colpire con emozioni contrastanti lo spettatore, variando tra i registri del comico, del tragico, della riflessione esistenziale e di quella politica senza che questa mescolanza, a parte l’effetto di gettare sulle montagne russe emotive chi guarda, ceda solo un attimo sul piano della compattezza del racconto. Insomma, si viene molto spiazzati emotivamente, al punto da solidarizzare liberatoriamente con una delle citazioni che stanno più girando sui social: Però volevo guardà ’na serie, non fa’ psicoterapia, li mortacci tua!
Tra i tanti pregi di Strappare lungo i bordi, uno consiste proprio nell’essere stilisticamente disturbante: voglio dire che ai molti registri espressivi corrisponde un unico registro linguistico, quello del romanesco; per di più nemmeno affidato a una pluralità di voci ma ossessivamente ripetuto uguale a sé stesso per effetto della scelta dell’autore di doppiare con la propria voce nevrotica quasi tutti i personaggi[1]. E a noi pubblico del XXI secolo, nonostante ci siamo lasciati alle spalle da tempo le consolanti correlazioni della Rota Vergilii (ad argomento tragico corrisponde uno stile solenne e sostenuto, ad argomento comico uno basso e corporale) questo spiazzamento ancora (per fortuna) ci disturba. E, disturbandoci, ci fa riflettere. O, meglio, dovrebbe farci riflettere perché come spesso capita per le polemiche sui social questo sentimento di disagio, invece di essere spunto di riflessione, è diventato occasione per un’inutile contrapposizione pro o contro il romanesco di Michele Rech, la sua necessità di farsi vedere da un logopedista e altre amenità simili. Non voglio stare qui a scomodare l’aforisma del dito e della luna e perciò con le polemiche social la chiudiamo qui.
Vorrei invece riflettere con gli strumenti dello storico della lingua sul significato fortemente innovativo della scelta linguistica di Michele Rech, in arte Zerocalcare, e cercherò di spiegare perché dobbiamo essergli grati per ciò che sta iniziando a sperimentare, cioè l’uso del dialetto per parlare di argomenti alti, di filosofia, di psicologia, di politica. Ma per capire le ragioni della novità linguistica bisogna fare un passo indietro.
Il dialetto da gabbia escludente a spazio comunicativo d’elezione
L’Italia è stata per secoli – e fino a tempi recenti – immersa in una situazione di diglossia: una forma di bilinguismo caratterizzata da una separazione funzionale piuttosto rigida delle varietà in campo. La lingua comune era usata per la comunicazione scritta e formale (non solo letteraria) mentre l’area dell’oralità e dell’informalità era – salvo rare situazioni di ibridazione – territorio dei dialetti. Se sommiamo gli effetti di ciò all’altissimo numero di analfabeti (circa il 78% nel 1861, scesi ad “appena” il 27% nel 1921) si capisce che in questa situazione il dialetto era una gabbia comunicativa in cui molti italiani erano reclusi, per mancanza di alternative. Ne abbiamo la dolorosa testimonianza in tante scritture di semicolti. Ecco come Vincenzo Rabito, un siciliano del 1899 che ha imparato a scrivere da autodidatta in età adulta, autore con la sua autobiografia che costituisce una delle più intense storie del Novecento italiano visto dal basso, descrive la propria condizione:
Io era piccolo ma era pieno di coraggio, con pure che invece di antare ala scuola sono antato a lavorare da 7 anne, che restaie completamente inalfabeto[2].
Un secolo e mezzo di vita unitaria, di scuola pubblica e l’influsso dei mezzi di comunicazione di massa hanno fatto sì che sul finire del secolo scorso l’italiano sia diventato la varietà del repertorio più praticata sia in famiglia che nelle relazioni con estranei (dati ISTAT). Questa svolta importante (per la prima volta nella storia l’italiano conquista compiutamente il dominio dell’oralità) non è avvenuta a scapito dei dialetti ma ha aperto la strada da un lato al loro uso consapevole per scelta espressiva o identitaria del parlante, dall’altro all’utilizzo della lingua comune anche in situazioni di informalità. Ciò, per dirla con un tecnicismo, ha determinato il passaggio dalla diglossia alla dilalia: cioè lo spazio comunicativo “alto” (ufficiale, burocratico, scientifico) rimane patrimonio esclusivo della lingua, mentre l’area dell’informalità può essere coperta, a seconda delle situazioni, dall’italiano, dal dialetto o dall’incrocio di tali varietà. Quindi una situazione più fluida, ma che conosce ancora un blocco: al dialetto manca una fetta dello spazio alto della comunicazione, non certo quello della comunicazione espressiva (letteraria, musicale) già conquistato da tempo, ma sicuramente quello della riflessione, indipendentemente dal genere praticato, su temi “alti” come la medicina, la psicologia, la filosofia.
L’esperimento di Zerocalcare
Ecco allora la grande innovazione di Michele Rech, per la verità già sperimentata nella miniserie Rebibbia quarantine, che apre la strada all’uso del romanesco non solo per esprimere degrado e ci permette di ascoltare frasi come[3]
aa fine la gratificazione più bbella, quella che tu non conoscerai mai, non è inzegna’ a ’n regazzino la burocrazia grammaticale, che poi saa scorda du’ ggiorni dopo l’esame, ma sapere che in quarche modo je sei stato d’ispirazione
oppure
ma ’n te rendi conto de quanto è bbello! Che nun porti er peso del mondo sulle spalle, che sei soltanto un filo d’erba in un prato. Non te senti più leggero?
La cosa, come si diceva, porta con sé un discreto effetto di straniamento. Col suo amabile understatement Michele Rech ci fa credere che si tratti di una scelta dettata dalla pigrizia, un po’ come i suoi personaggi che non escono mai dal quartiere se non obbligati o si rifiutano di indossare altro che la tuta da ginnastica («per me pure ar ballo dee debbuttanti de Vienna uno ce dovrebbe pote’ anda’ in tuta»). In un’intervista a fanpage ci dice che per lui «paradossalmente, il romano è la lingua della comfort zone: io parlo più romano nelle interviste che con mia madre, non perché lo devo ostentare ma perché è la mia questione identitaria, che mi fa sentire trincerato nel mio fortino». Insomma, il romanesco come una sorta di tuta da ginnastica espressiva. Ma poi l’autore, che ha studiato anche se non vuole darlo a vedere, aggiunge, sornione: «il dialetto non si usa mai nei cartoni animati». In effetti, è proprio una novità. E praticare la sfida di usare un dialetto relegato fin dai tempi di Dante nella dimensione del turpissimum tristiloquium[4], unico tra i vernacoli a godere del privilegio di un doppio suffisso peggiorativo (romanesco e romanaccio) non è un’impresa da poco.
Si potrebbe osservare che in una certa misura il compito di Michele Rech è facilitato dallo statuto di “lingua di tutti” che il romanesco si è conquistato grazie alle sue caratteristiche intrinseche di dialetto molto fiorentinizzato – conseguenza di vicende storiche del dialetto su cui non abbiamo qui modo di soffermarci – e alla simpatia di cui ha goduto a lungo nel dopoguerra presso ampie fette di pubblico. Come ha osservato Tullio de Mauro, il romanesco è diventato nel dopoguerra «res omnium […] il dialetto che tutti in Italia finiscono con l’usare, se devono ricorrere ad un’espressione forte, popolaresca». E, aggiungiamo noi, il dialetto che tutti più o meno capiscono, per effetto della sovraesposizione mediatica di cui ha goduto. Il compito è facilitato però solo in una certa misura, dal momento che in tempi più recenti si sono avute diverse avvisaglie del fatto che tale popolarità della parlata di Roma sia giunta al capolinea. «L’insofferenza per il dominio del romano nei mezzi di comunicazione è crescente», come ci ricorda opportunamente Paolo di Paolo in un interessante articolo su Repubblica dedicato al “caso” Zerocalcare. Di questa situazione di contesto sono un’eco le polemiche social sull’inappropriatezza dell’uso del dialetto nella serie, di cui si diceva in apertura.
Si sono avanzati paragoni tra l’uso del romanesco nella serie Strappare lungo i bordi e nei romanzi di Gadda e Pasolini. Certo, i due autori costituiscono precedenti importanti, ma va tenuto presente, di là dalle oggettive diversità semiotiche (lì romanzi, qui fumetto di animazione) e delle varietà di romanesco usate, che l’operazione di Michele Rech è diversa: schematizzando un po’ per ragioni di brevità diciamo che Pasolini nei suoi romanzi romani lascia spazio al romanesco di periferia dei suoi pischelli solo nei dialoghi brevi, che costituiscono un rumore di fondo. Come ci ricorda Walter Siti «il parlato dei personaggi non è molto di più, per lui, di una colonna sonora», mentre il narratore tiene saldamente per sé le fila nella diegesi e nei commenti presenti nelle didascalie, luoghi testuali liminari tra le zone dei personaggi e quelle del narratore, e in queste zone utilizza poco il discorso indiretto libero (cioè la voce e la visione del mondo dei personaggi). Gadda, certo, è riuscito nell’impresa di rimescolare le carte, frantumando le paratie tra diegesi e mimesi e fondendo la voce dei personaggi con quella del narratore, anche se l’operazione gli è meglio riuscita col lombardo della Cognizione del dolore che col romano-cispadano del Pasticciaccio. Michele Rech, fatta la tara sulle diversità dei generi, compie a mio avviso ancora un’altra operazione. Ci mette la faccia, cioè, ci mette la voce: la propria, che esprime le fragilità, i dubbi, i disagi e le aspirazioni del personaggio, e quella dell’armadillo (Valerio Mastandrea) coscienza critica, più spiritello cinico e dispettoso che rassicurante angelo custode. Annulla così ogni tentazione di pastiche gaddiano (e per fortuna, abbiamo conosciuto già troppi nipotini degeneri dell’ingegnere!) e stabilizza su un unico registro il basso e l’alto, realizzando così la sua personale polifonia.
Aspettiamo allora altri fumettisti in grado di sperimentare il tentativo di dar voce con altri dialetti a discorsi alti e impegnati, così forse la smetteremo con le polemiche pro o contro la pronuncia di Michele e arricchiremo il nostro spazio di comunicazione espressiva. Come per la multiculturalità infatti, anche per il plurilinguismo la strada veramente inclusiva è quella additiva, non sottrattiva.
Note
[1] Precisiamo per chi non ha visto la serie che, tolte poche eccezioni, i personaggi hanno tutti la voce di Michele Rech, tranne l’armadillo (coscienza critica di Zerocalcare) a cui presta la voce Valerio Mastandrea. Attenzione però: Alice, che per tutta la narrazione ha una voce metallica-artificiale, nell’episodio finale si umanizza ed è interpretata da una doppiatrice.
[2] V. Rabito, Terramatta, Torino, Einaudi, 2007, p. 4.
[3] Breve nota metodologica: i sottotitoli realizzati da Netflix sono “normalizzanti”, nel senso che italianizzano foneticamente e graficamente il parlato di Michele Rech. Nelle mie citazioni cercherò quindi di esser più fedele ai dialoghi e mi distaccherò di conseguenza dai sottotitoli.
[4] Dicimus igitur Romanorum non vulgare, sed potius tristiloquium, ytalorum vulgarium omnium esse turpissimum “diciamo dunque che la ripugnante parlata, piuttosto che il volgare, dei romani, di tutti i volgari italiani è il più turpe”. (De vulgari eloquentia I, XI, in Dante Alighieri, Opere, Milano, Mondadori, 2011, vol. I, p. 1255. Testo e traduzione di Mirko Tavoni).
Tutto giusto, tutto molto colto, tutto bene. Ma Valerio, il doppiatore dell’Armadillo, si chiama Mastandrea: senza la “erre”. Attenzione alla lectio facilior, dunque.
Non sono riuscito a superare la metà dello scritto, e me ne discpiace, ma il fatto è che parte da un assunto che non posso condividere: il siciliano, il napoletano, il friulano, il sardo e svariati eccetera, sono lingue a tutti gli effetti linguistici. È fuori luogo pensare che nei secoli passati si parlasse un “dialetto”, dialetto di che??? Dialetto significa variante di strada di una lingua, quindi per assurdo il calabrese di reggiocalabria, linguisticamente parlando è un dialetto del siciliano; sempre linguisticamente, il barese lo è del napoletano. Ma nessuna delle due lo è dell’italiano.
Se vedi la documentazione dello stato delle due sicilie (che arriva a fine 800) sono generalmente in latino per le comunicazioni con il clero, in castigliano o catalano nei casi che riguardano le relazioni con la famiglia Borbone o comunque con la penisola iberica, e per il resto sono in napoletano o in siciliano… manco mezza in italiano!!! Probabilmente lo stesso potrebbe dirsi di molti stati preunitari del nord italia. È anche vero che in passato non esisteva il concetto di “lingua ufficiale” ma certamente, per la maggior parte degli stati italiani, non era l’italiano.
L’italiano era una lingua sostanzialmente diplomatica del centro italia.
L’italiano è diventata una lingua condivisa, non tanto con la scuola pubblica, ma con la televisione….
Qualunque sia la conclusione del ragionameto, sicuramente interessante, però parte da un assunto sbagliato, che, a mio avviso, dovresti rivedere.
Napoletano e siciliano non sono mai state usati quali lingue amministrative, si legga https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/il-napoletano-in-tribunale-con-linterprete-e-i-piemontesi-a-napoli-con-litaliano/7414 oppure Verena Schwägerl-Melchior, «’Plurilinguismo ricettivo’ – una chiave di lettura per l’Italia spagnola?», in «Reperti di plurilinguismo nell’Italia spagnola (sec. XVI-XVII)», a cura di Thomas Krefeld, Wulf Oesterreicher, Verena Schwägerl-Melchior, Berlin/Boston, De Gruyter, 2013, pp. 261-279.
Condivido ogni aspetto di questa analisi e apprezzo molto il confronto con Pasolini e con Gadda, che è inevitabile e nello stesso tempo facilmente esposto, come in questo articolo non accade, a semplificazioni e analogie tanto superficiali quanto prive di fondamento.
Grazie! :-)
Condivido l’analisi linguistica, anche se capisco il fastidio che può dare la pervasività del romanesco nei media. La serie è ben fatta, ma non penso che sia un capolavoro, come non ritengo che i fumetti del pur bravo Zerocalcare siano capolavori, ma questo interessa meno. Ricordo che l’uso del dialetto nei cartoni animati non è una novità assoluta: ci fu il caso di Fantazoo (forse si ricorderanno Alvaro il bue e Camilla la tartaruga).
Ps. segnalo un refuso (tuto>tutto) a circa metà del primo paragrafo.