di Pietro De Marchi
[È da qualche settimana in libreria il volume di Luciano Zampese “S’incomincia con un temporale”. Guida a “Libera nos a malo”di Luigi Meneghello (Roma, Carocci, 2021). Il libro è stato presentato alla Biblioteca Bertoliana di Vicenza il 23 ottobre scorso. Pubblichiamo qui l’intervento che Pietro De Marchi ha tenuto in quell’occasione].
Capita raramente che l’impalpabile, fantomatica figura del lettore ideale si incarni in una persona. Nel caso di Libera nos a malo di Luigi Meneghello, di cui tra qualche mese si festeggerà il centenario della nascita (16 febbraio 1922), pare che tale felice congiuntura si sia verificata. Lettore appassionato dell’opera di Meneghello, Luciano Zampese è da una ventina d’anni uno dei suoi studiosi più prolifici nonché acuti; si pensi al suo volume La forma dei pensieri. Per leggere Luigi Meneghello, Firenze, Cesati, 2014, oppure all’altro, da lui scritto a quattro mani con Ernestina Pellegrini, Meneghello: solo donne, Venezia Marsilio, 2016. Non occorre elencare altri suoi importanti contributi in rivista o in atti di congressi, basterà dire che Zampese era senza alcun dubbio la persona più indicata, quasi vocata a scrivere questo libro: “S’incomincia con un temporale”. Guida a “Libera nos a malo” di Luigi Meneghello (Roma, Carocci, 2021).
Dopo una premessa, su cui tornerò alla fine di questo mio intervento, il libro di Zampese si apre con il capitolo (pp.15-37) intitolato Cenni di biografia per uno scrittore “biocentrico” (la definizione di scrittore biocentrico si deve a Cesare Segre). Cenni, si capisce, bastano dei cenni, perché disponiamo già di un esauriente profilo biografico di Meneghello, quello curato da Francesca Caputo per il volume delle Opere scelte (2006) nei Meridiani Mondadori, con la collaborazione o la supervisione dello stesso autore (in tutto una settantina di pagine fitte fitte). Ma qui i cenni biografici sono finalizzati a chiarire alcuni aspetti generali dell’opera letteraria di Meneghello, sgombrando il campo da sempre possibili o ritornanti equivoci. Meneghello è un autore che parte sì dalla autobiografia, ma per approdare a qualcosa che di molto la oltrepassa: che cos’era un paese italiano negli anni tra il 1920 e il 1960 e che cos’è stata la guerra civile tra il 1943 e il 1945, i due temi principali dei suoi primi e più celebri libri (Libera nos a malo, d’ora in poi LNM, e I piccoli maestri), lo sappiamo perché Meneghello ha tradotto in scrittura (e che scrittura!) situazioni e fatti che conosceva dall’interno, per esperienza diretta o perché tramandati da testimoni fededegni. Ma, ed ecco un’altra precisazione su cui Zampese insiste: l’interesse primario di Meneghello in LNM, come in altri suoi libri, non è saggistico o antropologico o storico, bensì letterario. Ne consegue così che, accanto al resoconto veritiero, non manchi il ricorso all’invenzione pura, quando necessaria o richiesta dalla situazione narrativa. Si pensi ad esempio, per LNM, ai compaesani inesistenti, ma costruiti con materiali autentici. Per un caso analogo, si ricordi il finale dei Piccoli maestri, con l’io narrante e la Simonetta, che nella realtà vera fuori dal libro non c’era, teste Mario Mirri alias Marietto, in quel momento, in quel luogo. Il binomio “cronaca-favola”, di cui si parla a proposito della tradizione orale dei fatti e fatterelli capitati a Malo, potrebbe valere anche come definizione del “genere” a cui appartiene quel libro diverso da tutti gli altri che è Libera nos a malo.
I due capitoli successivi spiegano come è nato e come è fatto LNM (le due cose sono almeno in parte, come sempre, collegate). Il secondo capitolo, La genesi del libro (pp. 39-67) tiene fede al suo titolo, ma illustra anche la primissima ricezione di LNM: si mette così bene in luce il ruolo avuto dai primi lettori, l’amico di sempre Licisco Magagnato e il direttore della collana in cui il libro fu pubblicato, Giorgio Bassani; ma si illustra anche il rapporto, assai complicato e non privo di reciproche incomprensioni con l’editore Giangiacomo Feltrinelli, in occasione della prima edizione, del 1963, e poi della ristampa del 1969. Tutto è ricostruito su base documentaria, lettere, private o editoriali, materiali d’archivio conservati in varie sedi, alla Bertoliana di Vicenza, alla Biblioteca d’Arte del Museo di Castelvecchio a Verona, al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia, all’Archivio Olivetti a Ivrea: materiali in parte già editi e a disposizione gli studiosi, in parte scovati e messi a frutto per la prima volta da Zampese. Le pagine di questo capitolo riepilogano tra l’altro quella che Zampese chiama la “svolta poietica”, cioè il passaggio dalla originaria “forma diario” (il centinaio e più di foglietti appuntati nel corso dell’estate del 1960) alla “forma romanzo” o al “libro”, per riprendere la definizione preferita dallo stesso Meneghello. Ma nel capitolo c’è anche molto altro, e talvolta Zampese si appoggia giudiziosamente a interventi o autocommenti dello stesso Meneghello. A p. 53, ad esempio, si parla del rapporto, fondamentale per Meneghello, tra il riso e la bellezza: “se il libro non fa ridere vuol dire che non vale nulla”; ma il riso è sentito da Meneghello anche come “una forma di commozione” (p. 70), nel segno di quella tensione tra partecipazione e distacco, dello scrittore rispetto alla sua materia, messa in luce per primo da Paolo Milano quando recensì LNM nel 1963.
L’edificio “Libera nos”: architetture narrative, note, appendici (pp. 69-123) è il capitolo più lungo e impegnativo del volume: una vera e propria “guida alla lettura” lenta del testo. Si sosta sulle soglie del libro: il titolo, nato in Inghilterra, come per illuminazione, al ritorno da un soggiorno in Italia, e il suo significato; la fotografia di sovraccoperta delle edizioni Feltrinelli, voluta e procurata dallo stesso autore, della quale Zampese fornisce una mirabile ekphrasis interpretativa (p. 74). Si passa poi all’analisi dell’incipit a cui Zampese ha dedicato anni fa un accuratissimo saggio di analisi genetica e variantistica, che qui in parte riprende. Il capitolo continua presentando le tre parti principali della narrazione di LNM (capp. 1-12; 13-15; 16-31) e segnalando i legami tematici e stilistici tra i capitoli e tra i vari pezzi o paragrafi che fanno i capitoli; ecco allora messo in evidenza lo stretto legame tra l’incipit e l’explicit del libro, sottolineato anche dall’indice della ristampa Rizzoli del 1975 (S’incomincia con un temporale… e …Volta la carta la ze finia): all’inizio e alla fine ci sono due sere d’estate, quella del ritorno a Malo per le vacanze, e quella che prelude alla ripartenza, alla fine della stagione, a cui andrà collegato il culmine rappresentato dall’attacco del cap. 13, altro pilastro strutturale che sorregge la temporalità del racconto (“Mezzogiorno col sole…” ecc.). Segue la descrizione delle note e della loro tipologia, delle appendici, della dedica: i versi di Wallace Stevens citati da Meneghello (“I am one of you and being one of you / Is being and knowing what I am and know”) tematizzano sulla soglia finale del libro l’importanza dello scrivere dall’interno di un mondo a cui si appartiene e che si conosce a fondo. Anche in questo capitolo si incontrano osservazioni molto acute di Zampese. Tra le più interessanti quella che rileva nella terza parte di LNM (capp. 16-31) la riduzione o la scomparsa di quel “movimento a spirale”, con deriva e ritorni tematici nello stesso capitolo, che caratterizzava la prima parte del libro; così che il frammentismo della prima parte lascia il posto a una scrittura più distesa e un macrotema può occupare anche più di un capitolo (p. 91 e p. 104).
I tre capitoli successivi del libro di Zampese si concentrano su tre aspetti fondamentali di LNM: la lingua, il tema dell’infanzia, la poetica dei luoghi. Nel capitolo sulla lingua, “Ma qui la lingua è tutto, o quasi…” (pp. 125-140), Zampese tiene conto, come è ovvio e giusto che sia, degli studi di Giulio Lepschy e di altri, a incominciare dalla questione dei “trasporti”; e tuttavia aggiunge molto del suo, ad esempio nell’intepretazione dell’interplay tra dialetto e italiano letterario. Riprendendo uno spunto di Meneghello, Zampese parla di un dialetto sotterraneo o meglio subacqueo, di una lingua che scorre sotto, pronta ad affiorare in superficie, coerentemente con la postura di chi vuole scrivere dall’interno, da dentro un mondo che è (o è stato) il suo. Anche la questione della lingua in LNM ha dunque sempre a che vedere, conclude Zampese, con la questione, cruciale per Meneghello, del vero e del falso, del genuino e dello spurio.
Quello sull’infanzia a Malo (“Ma c’è un ma…”: l’infanzia a Malo, pp. 141-154) è il capitolo in cui si illustra con dovizia di esempi, sempre adeguatamente commentati, quella che uno studioso come John Scott, amico e collega di Meneghello all’università di Reading, già nel lontano 1965 definì il recipe di LNM, e cioè il dialogo tra la voce adulta e la visione bambina, o tra il bambino Gigi e il professor Meneghello (Il bambino e il professore è stato per un certo tempo un titolo papabile del libro di Zampese, poi felicemente soppiantato dall’attuale e definitivo). L’infanzia e la sua visione dal basso è stata per Meneghello una imprescindibile prospettiva sul mondo, da far funzionare in opposizione a quella degli adulti: basti pensare alle pagine iniziali di LNM sui Vibralani o sugli atinpùri. Meneghello, in perfetto accordo con altri scrittori del Novecento, si è lasciato portare dal bambino che è stato, non ha dimenticato la chiave dell’infanzia.
Il capitolo intitolato Topografie (pp. 155-171) indaga la varietà degli spazi in cui si muovono i personaggi di LNM; in queste pagine si esemplifica quella che è la poetica dei luoghi, di cui Meneghello parla nel suo discorso del 1986, L’acqua di Malo, che considerava il miglior introibo alla materia maladense, e si illustra il nesso tra le descrizioni dello spazio e l’accresciuto lirismo della prosa meneghelliana. In questo capitolo ci sono tra l’altro alcune delle pagine più belle del libro, e qui insieme alla competenza linguistica e filologica brilla anche la qualità della scrittura dello stesso Zampese. Del resto, è una convinzione non solo mia: non si può essere veri lettori di Meneghello se, quasi per contagio stilistico, non si impara a scrivere bene, o meglio. Basterebbe leggere il passo che, tra p. 158 e p. 159, commenta spiritosamente l’espressione dialettale s’ciopascóndare (più o meno il gioco del nascondino).
Il sugo di vivere a Malo (pp. 173-194) è il capitolo in cui si riassume appunto il succo di tutta la storia. Qual era l’ethos di Malo? Quello che derivava dall’identità artigiana della parte più attiva e creativa della sua popolazione, e che consisteva in primo luogo nell’ammirazione per il lavoro ben fatto, ma che non escludeva l’attrazione per la vita in tutte le sue forme: l’eros, la religione popolare, la forza delle donne, la loro resilienza, e l’innata capacità di raccontare di alcuni paesani. Malo è vista da Meneghello come un teatro diffuso, dove l’oralità e la mimica sono patrimonio un po’ di tutta la comunità. E qui vien fuori o torna alla ribalta (perché in realtà fa capolino in vari punti del libro) anche lo Zampese classicista, che non teme (ma fa benissimo) di paragonare le storie orali dei maladensi a quelle degli aedi dell’antica Grecia, i cantori delle gesta degli eroi: “Prima di LNM, Malo aveva i suoi aedi” (p. 191). Nel famoso episodio della visita in paese dei tre vescovi, ad esempio, l’imitatio di Felice, il protagonista della memorabile scena e dell’indimenticabile imprecazione, il racconto orale di Mino, l’aedo, e infine la trascrizione scritta di Meneghello-Omero (con il suo commento finale, che aggiunge comicità al comico della situazione: “Li considerava fratelli”) sono i tre momenti di un processo che trasforma la vita vera di un paese prima in racconto orale molte volte ripetuto per il divertimento degli astanti e poi in letteratura universale, più vera del vero, fissata per sempre nelle pagine di un libro.
Il capitolo 8, Paralipomeni (pp. 195-207), insegue le continuazioni della materia di Malo in altri testi di Meneghello: i veri e propri “paralipomeni di un libro di famiglia” e cioè Pomo pero (1974), ma anche il già ricordato L’acqua di Malo (ripreso poi in Jura) e infine Maredè, Maredè… (1991), ovvero gli originali “sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina”, come recita il sottotitolo. Con questo capitolo Zampese fuoriesce dai confini cronologici della genesi e della prima e seconda ricezione di LNM, ma come sappiamo la “liberazione” da Malo non finì per Meneghello con il libro d’esordio, e quindi questo capitolo sta benissimo lì dove sta, alla fine del libro. Quasi alla fine del libro, a dire il vero, perché prima della bibliografia, c’è una sopresa, il capitolo 9, il più breve di tutti, Un’introduzione di Luigi Meneghello a “Libera nos a malo” (pp. 209-211). È un vero regalo che Zampese ha fatto ai suoi lettori e a tutti gli aficionados di Meneghello. Si tratta della trascrizione di un testo inedito (su trama e contenuto di Libera nos a malo) che Meneghello inviò a Giorgio Bassani nel febbraio 1963, rispondendo alla richiesta di un paio di paginette di descrizione del libro ad uso dei librai. Il testo di Meneghello incomincia con due paragrafi che mi permetto di citare per esteso:
Il libro s’impernia sui rapporti tra un uomo e la sua patria; c’è un uomo che vive all’estero dopo la guerra, sui venticinque anni, è andato via dall’Italia, e si è immerso in un mondo tutto diverso, nel cerchio magico di un’altra lingua e di un’altra cultura (è in Inghilterra). Ritorna periodicamente in Italia, e questi ritorni sono soprattutto una cosa estiva, dunque deformata un po’, l’Italia dell’estate. Va nel paese dov’è nato, dove sta suo padre, dove vivono gli amici d’infanzia; di anno in anno le strade assolate, i caffè, la gente che invecchia, rendono le consuete immagini di tenerezza e di noia. È un mondo fermo, senz’altro senso che un senso privato, inutile a comunicarsi, stanco.
A un certo punto queste impressioni si maturano in una specie di reazione chimica; nasce un significato fulminante, l’uomo si avvede che stando lontano dall’Italia il mondo di cose italiane che si porta dentro si è approfondito e schiarito. Tutto ha senso ora, il paese che è la quintessenza dell’Italia, le antiche radici di ciò che lui è e noi italiani siamo, la gente, il paesaggio, i temporali. Scoppia un temporale, e comincia il libro.
Ma tutto il testo inedito meriterebbe di essere trascritto. Zampese ha già messo a frutto questa introduzione d’autore nelle pagine della sua Guida a LNM. Ma quel testo suscita altre curiosità e stimoli per altri approfondimenti. Basti pensare alla relazione che Meneghello suggerisce tra “il filo incantato delle parole” delle filastrocche dei primi capitoli di LNM e l’ ASA NISI MASA di una delle scene più memorabili di quello che allora era l’ultimo film di Fellini, 8 ½ (tra parentesi: sappiamo che Fellini ammirò moltissimo il libro di Meneghello, come del resto può immaginare chi abbia visto Amarcord).
Ma è ora di concludere questo mio caloroso invito alla lettura. Nella Premessa, proprio nelle prime battute del libro, Luciano Zampese mette per precauzione le mani avanti e confessa ai suoi lettori che “Parlare, e peggio, scrivere di un autore e di un libro che si amano sono esperienze che lasciano sempre l’insoddisfazione di sé: quello che abbiamo vissuto leggendo e rileggendo una scrittura amata riusciamo a farlo riapparire, se siamo fortunati, solo qua e là, come un pallido riflesso”. In tre righe di testo, due occorrenze del verbo “amare”. Viene in mente un saggio di Roland Barthes, l’ultimo da lui scritto e dedicato a Stendhal: On échoue toujours à parler de ce qu’on aime. Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama. Se è una regola, questa, avrà come tutte le regole anche delle eccezioni. E questo libro di Zampese parrebbe essere proprio una di quelle.