di Rino Genovese
[Esce oggi per Quodlibet il saggio di Rino Genovese Socialismo utopico, socialismo possibile. Ne anticipiamo l’introduzione].
Questo piccolo libro si propone di riprendere la discussione teorica intorno al socialismo muovendo dall’assunto che il suo concetto non è affatto l’opposto di quello di individualismo. Il collettivismo servito in salsa totalitaria sotto il nome di “socialismo reale”, nei paesi dell’ex blocco sovietico, ne era soltanto una perversione, poiché la centralità conferita all’individuo nella modernità è un presupposto essenziale del pensiero socialista. Il primo a introdurre una connessione e una tensione tra i due termini, nella Francia della monarchia di luglio, fu probabilmente Pierre Leroux[1]. E rientra del resto nel significato più profondo della questione sociale ottocentesca la spinta in direzione di una endiadi, anziché di una pura e semplice contrapposizione tra i concetti di individualismo e socialismo. Il movimento socialista, nel passaggio dalla dimensione ideale all’impegno concreto per la trasformazione della società, proclamerà che l’esaltazione moderna dei diritti dell’individuo è monca e si distorce se non riconosce i diritti di quella larga parte della società che si trova in condizioni di diseguaglianza sostanziale. È da qui che prenderà le mosse l’idea dei diritti sociali come qualcosa da rivendicare in modo specifico. La loro affermazione si scontra con un’organizzazione economica incentrata sulla proprietà privata, la mette in discussione, proponendosi di limitarla e in prospettiva di abolirla. Questa correzione della modernità dal suo interno, riformistica nel senso della riforma sociale, non è altra cosa dal fine ultimo inteso come superamento della forma capitalistica di produzione e di consumo: piuttosto lo ingloba in sé come una linfa vivificante della quotidiana pratica politica ed economico-rivendicativa.
Socialismo è allora la piena realizzazione dell’individualismo moderno, prefigurazione di un modo di produrre e di consumare non più capitalistico e di una vita sociale svincolata dal bisogno e dall’interesse economico, che comprimono o limitano la libera espressione degli individui. Insomma, ciò che Marx riassunse nei termini di un salto dalla preistoria alla storia, dal regno della necessità a quello della libertà. Certo – nella storia francese del XIX secolo, e non solo – la riforma sociale assumerà anche movenze insurrezionaliste (si pensi, per fare soltanto un nome, a un tenace militante come Auguste Blanqui) e, nella variante di un anarchismo più o meno “esemplare”, perfino terroristiche. Ma questi erano aspetti di un’eredità in senso lato giacobina più che caratteristiche precipue del socialismo. Le lotte sociali da cui il socialismo prese le mosse ebbero un carattere essenzialmente economico, e pour cause: si trattava di battersi per la riduzione della giornata lavorativa e per salari dignitosi, puntando a una legislazione che consentisse la generalizzazione delle conquiste mediante il principio di una universalizzazione dei diritti. Tutto ciò è da porre in stretta relazione con la rivoluzione industriale e fa parte della vicenda ottocentesca europea.
Il prosieguo della storia, con l’invenzione novecentesca dello Stato sociale – un correttivo delle storture capitalistiche ma anche qualcosa che, nelle sue formulazioni radicali, tendenzialmente fuoriesce dal quadro del capitalismo –, ha spostato sul piano di una contaminazione dell’economia con la politica una domanda di emancipazione che proveniva anzitutto dagli opifici, dalle fabbriche, dai luoghi della produzione. Ma quando il socialismo apparve per la prima volta in Europa, sulla base di quella che era la mano d’opera “libera sul mercato” (e per questo non libera nella più ampia vita sociale), altrove, nelle Americhe, vigeva ancora il sistema schiavistico. La schiavitù salariata coesisteva con la schiavitù vera e propria – così come, in maniera non troppo dissimile, il lavoro manuale minorile e servile convive nel mondo attuale con la condizione precaria di una forza lavoro soprattutto intellettuale. Non si dà soluzione di continuità (sebbene ai socialisti ottocenteschi, e soprattutto a Marx, sembrò che vi fosse) tra il capitalismo e le altre forme oppressive di organizzazione economica. Al tempo stesso, quindi, non può esservi soluzione di continuità tra una lotta e un’altra: tra l’esigenza di cancellare il sistema schiavistico, per esempio, e quella di migliorare, e poi superare, la condizione del salariato.
Il tratto distintivo del socialismo non si dà tanto nella dimensione economica (o economicistica), quanto in una proposta di emancipazione che, pur inizialmente fondata sulla condizione lavorativa dell’operaio europeo, mostrando come si possa intervenire su una forma specifica di oppressione, si proietta a trecentosessanta gradi. In altre parole, è la generalizzabilità d’intervento di un movimento di progresso a essere al centro del discorso politico socialista. Dire universalismo dei diritti sociali, a partire da situazioni particolari tra loro differenti, e dire socialismo è tutt’uno.
Non si può sostenere, perciò, che l’esistenza di un proletariato e di un movimento operaio, dal punto di vista concettuale, siano una condizione necessaria affinché si formi un orizzonte socialista. Ne sono stati in Europa un presupposto storico, questo sì, ma il progetto di un affrancamento degli individui dall’oppressione quale che sia è già potenzialmente socialista con il semplice porre quest’obiettivo come perseguibile, qui e ora, mediante forme collettive di organizzazione e di lotta. Il momento utopico e quello pragmatico fanno parte entrambi di un socialismo che non può (non può più) essere presentato come una scienza. Nessuna critica dell’economia politica costituisce l’alfa e l’omega di un tale pensiero. Esso va al di là di un mondo incentrato sull’economia, sfera differenziata della società attraverso il cui osservatorio privilegiato si ricaverebbero verità da fissare in guisa di dottrina. Se anche il superamento del modo capitalistico di produzione e di consumo fosse impossibile da realizzare, il fatto che la sua prefigurazione possa tradursi, e anzi si sia tradotta, in un movimento di trasformazione della società rende plausibili proposte di emancipazione in altri ambiti della vita sociale.
Per fare un esempio e contrario, si prenda il caso di ciò che è avvenuto in Egitto dal 2011 a oggi. Un impetuoso movimento di democratizzazione della società è incappato prima nella trappola politico-religiosa (islamista), e ha subìto poi quasi come male minore la restaurazione del regime militare. Se in quel paese avesse potuto affermarsi una prospettiva democratico-socialista di eguaglianza, sulla base di una valorizzazione moderna delle differenze individuali, l’esito negativo, forse, sarebbe stato ribaltato. La dimensione puramente comunitaria, nella ripetizione degli usi e costumi di una cultura, può condurre un movimento di massa al fallimento. Il nesso democrazia-socialismo si nutre di un conflitto sociale a più facce, in grado di collocare all’interno della lotta comune una molteplicità di esigenze tutte particolari e tutte universalizzabili nella forma di un riconoscimento di diritti per le donne e gli uomini che vi prendono parte. Sulla piazza Tahrir andò in scena lo psicodramma di una cultura ancestrale che non riesce a liberarsi dalle proprie pastoie.
Se i confini di una qualsiasi identità culturale non sono trascesi, se non si passa da un “noi” presupposto a un “noi” elettivo, ossia al conflitto sociale plurale fatto di diverse rivendicazioni universalizzabili in senso democratico, non si esce dalla chiusura nel passato. Uno spirito progressista, di rottura delle abitudini consolidate, è ineliminabile dall’orizzonte democratico-socialista. Si può dire ciò che si vuole riguardo all’estenuazione della modernità, riguardo alla dissociazione tra lo sviluppo tecnico ed economico e il progresso morale e civile (per usare una formulazione illuministica), o anche (come io stesso ho fatto più volte) circa una storia non-contemporanea, che reca in sé quale basso continuo il ritmo di un passato da cui non può sbarazzarsi: ma se non si recupera uno spirito progressista di messa in questione delle tradizioni dal loro interno non si potrà ricominciare a parlare di socialismo.
La questione è che la rottura deve avvenire all’interno delle diverse culture, non può essere imposta o suggerita dall’esterno in maniera occidental-colonialista, come pretenderebbe un universalismo illuministico e liberaldemocratico incapace di autocritica. Tipico della rottura socialista è il suo prodursi a partire da situazioni particolari di oppressione. Non andò diversamente, nei suoi albori europei, riguardo alla condizione operaia. Il che significa: o ci si emancipa da sé o non ci si emancipa affatto.
Infine, al socialismo appartiene l’intera sua storia per quanto complicata possa essere, quella dei suoi errori e delle sue virtù. Le chance che in essa si ritrovano vanno viste come elementi riattualizzabili di volta in volta a seconda delle circostanze. Non v’è dubbio che lo Stato sociale, secondo lo slogan “dalla culla alla tomba”, abbia avuto in sé un germe burocratico-autoritario (che si è espresso al peggio nella variante comunista sovietica). Una correzione di marca socialista libertaria, non puramente socialdemocratica, è quella che – chance a suo tempo minoritaria – sarebbe da ipotizzare nel quadro della ristrutturazione dello Stato sociale su basi federalistiche europee. È un’acquisizione di potere dal basso, quella che si prospetta, nel senso di un intreccio tra democrazia rappresentativa e forme di democrazia non delegata. L’intervento statale sovranazionale di domani, non paternalistico, dovrebbe tenere conto dei dati e dei pareri provenienti dalle imprese e dalle cooperative autogestite secondo criteri di democrazia interna. Utopia? La parola non spaventa quando si abbia la consapevolezza che il pragmatismo e l’utopia sono l’uno il necessario complemento dell’altra.
[1] P. Leroux, Individualismo e socialismo, Diabasis, Reggio Emilia 2008.