di Paolo Zublena

 

 

[E’ uscito da qualche giorno il numero 77 de il verri,  dedicato nella parte monografica al tema “E l’avanguardia ha trovato? Andrea Zanzotto”. Per gentile concessione della rivista. riprendiamo dalla sezione “fuori tema” un saggio di Paolo Zublena]

 

Una nuova collana del Mulino, La voce degli antichi, sembra voler riproporre la sempre predicata attualità dei classici greco-latini attraverso la mediazione di affermati specialisti che si soffermano su un testo a loro caro (e in genere a lungo studiato) e lo presentano al lettore di oggi (magari a quello ignaro di lingue classiche) in chiave divulgativa – dando spessore  alla loro lettura con una traduzione senza testo a fronte dell’opera esaminata, ad un tempo risultato e garante della loro interpretazione. Così, ad esempio, Guidorizzi su Edipo re, così Boitani sulle Metamorfosi di Ovidio. E tra i volumi in preparazione ci si può aspettare qualcosa di simile, tra gli altri, dal Tucidide e il colpo di stato di Canfora.

Il volume di cui qui si parla (Enrico Testa, Sofocle. La solitudine di Filottete, il Mulino, Bologna 2021) risulta – lo diciamo subito – per più motivi una parziale eccezione. Intanto, la scelta del testo, che non è – nel canone della tragedia attica oggi vigente – certo la pièce più nota, almeno a livello di diffusione scolastica e di presenza sulla scena teatrale italiana. Poi, tra i primi autori di questa collana, Enrico Testa è certamente quello che più si allontana dal suo oggetto per consuetudine di “mestiere”. Ben noto come storico della lingua e come studioso di letteratura capace anche di indagini comparatistiche, tuttavia Testa mai si era misurato in un corpo a corpo con un testo della grecità classica.

La relazione con la tragedia sofoclea è molto più del semplice confronto con un oggetto estetico: è nata al calor bianco di una passione giovanile, di cui vengono rese note compendiosamente le circostanze biografiche. Non all’Ippolito euripideo imposto dal rito scolastico della maturità, non alle più note tragedie sofoclee che così tanto hanno segnato la modernità attraverso le loro interpretazioni e rivisitazioni (Edipo re su tutte, ovviamente – ma anche Antigone ed Elettra), ma alle due tragedie di Sofocle che, in forma diversa, restituiscono il personaggio sofferente senza reti e senza resti si indirizzava l’attenzione del giovane Testa: e si intendono naturalmente l’Aiace e il Filottete[1]. Se d’altra parte Aiace è una sorta di campione insubordinato e irriducibile della virtù bellica arcaica sopravanzata dalla areté democratica[2], solo a Filottete spetta ragionevolmente la palma dell’eroe perseguitato dal fato e dagli dèi in modo palesemente e apertamente ingiusto e insensato. Del resto, la differenza delle due tragedie emerge in modo palmare dalla diversa rappresentazione del personaggio di Odisseo, mediatore persino con arie di pietà (e, in fondo, portatore degli interessi della comunità) nella prima, odioso lestofante e quasi magliaro (con la fioca copertura del bene comune e della volontà divina a fargli scudo) nella seconda.

Odisseo o Ulisse che dire si voglia (e lo si dice, anche per sottolineare che la vita del Laerziade postuma alla grecità classica e oggi così bene ricostruita nei libri di Piero Boitani[3] non è priva di riflessi sinistri provenienti dalla cinica e feroce Realpolitik da lui incarnata nel penultimo dramma sofocleo) a Testa non piace. E questa – si badi bene – non è un’ingenua presa di posizione in cui finiscano per incrociarsi magari indebitamente estetica ed etica: è proprio un giudizio sulla ricaduta che l’ombra di questo Ulisse avrà sulla civiltà occidentale. Si cita con una certa larghezza, perché è in ballo una delle acquisizioni fondamentali di questo libro:

 

Sofocle […] ci presenta un Odisseo che, per quanto si voglia difenderne la modernità e nobilitarne, con un certo sforzo, il sistema di valori (obbedienza al principio gerarchico, virtù del compromesso, capacità politiche, malleabilità morale), appare come un miserabile artefice d’inganni, un uomo senza scrupoli, un marchingegno di finzioni e di opachi discorsi, uno stratega sì ma della pavida ritirata, che dopo l’ultimo incontro-scontro con Filottete se la svignerà indegnamente. Insomma, un Odisseo degradato: quasi un Dulcamara da fiera sostenuto però da gran dosi di iattanza e dotato solo di armi verbali recuperate dal ferramenta della retorica. Una caricatura dell’eroe del mito? O semplicemente la costruzione di una figura necessaria all’ordito e al tema del dramma? Non diremmo. Sofocle tocca qui un punto o un nodo non meno vero di altri, anche se più imbarazzante, di quella ricchissima costellazione di senso che si è coagulata attorno al nucleo del tipo-Odisseo.[4]

 

Dopo aver passato in rassegna tutto il peggio che il mito e la sua tradizione ci dicono sulla figura di Ulisse, Testa esplicitamente evoca l’ombra – al di qua di una valutazione di tipo morale o addirittura moralistico – che il carattere fondativo e archetipico per la civiltà occidentale del protagonista dell’Odissea getta su quella stessa civiltà, la quale vedrebbe nel suo emblema «una fiducia riposta solo nelle proprie forze, una progettualità invadente che prende sé stessa come scopo, un’idea del viaggio come ritorno e non come dispersione ed esposizione allo sconosciuto, una sostanziale indifferenza verso gli altri»[5], che Testa legge con la lente del suo amato Lévinas.

Lasciando per un momento da parte la pur cruciale figura di Ulisse, cerchiamo di sunteggiare gli aspetti del Filottete ritenuti fondamentali da Testa, sulla scorta di una bibliografia i cui capisaldi sono ben tenuti presenti[6]. Intanto, tutti concordano che si tratti di una tragedia strana: unica per certe sue peculiarità (ad esempio l’esclusività del sesso maschile tra i protagonisti), caratterizzata da una «perenne procrastinazione»[7], centrata sulla solitudine e sulla sofferenza (fisica, in primo luogo) di Filottete – ma non meno sulla triangolazione tra il perseguitato Filottete, l’imbroglione Odisseo e l’indeciso Neottolemo (in bilico tra soggezione al potere e rigurgito di nobiltà[8]), la tragedia sofoclea manca di alcuni tratti monumentali e solenni che appartengono alla nostra idea più reçue del genere. Eppure questa mancanza – e la relativa ambiguità – è una sua forza: ed è tale da aver causato rivisitazioni e riscritture (a cominciare da Fénelon e Herder) anche molto distanti tra loro: quasi tutte però unite dal ridimensionare, ricollocare e rimotivare o rendere grottesca la sofferenza di Filottete. Volendo aggiungere una perlina al filo (che per altro Testa considera piuttosto cursoriamente: il suo scopo non è quello di ripercorrere la revisione del mito di Filottete, ma appunto di penetrare a fondo nella radicalità della variante sofoclea di quel mito) si potrebbe pensare alla per tanti rispetti imprevedibile riscrittura della poetessa americana Adrienne Reich – lesbica e femminista radicale che sceglie un personaggio e una tragedia così quintessenzialmente maschili per autorappresentarsi in una poesia d’amore:

 

I can see myself years back at Sunion,

hurting with an infected foot, Philoctetes

in woman’s form, limping the long path,

lying on a headland over the dark sea,

looking down the red rocks to where a soundless curl

of white told me a wave had struck,

imagining the pull of that water from that height,

knowing deliberate suicide wasn’t my métier,

yet all the time nursing, measuring that wound.

Well, that’s finished. The woman who cherished

her suffering is dead. I am her descendant.

I love the scar-tissue she handed on to me,

but I want to go on from here with you

fighting the temptation to make a career of pain.[9]

 

Quello che qui ci interessa – e il motivo della citazione, al di là del pregio del testo – è la mossa finale: bisogna combattere la tentazione di una «career of pain». Tutti, o quasi, hanno sempre detto a Filottete – così fanno sarcasticamente Odisseo, corrivamente il coro e ambiguamente (anche se a tratti – pare – con verace preoccupazione) Neottolemo: e poi tantissimi interpreti e rivisitatori – : «Go on», «move on». No: Testa è toto corde dalla parte di Filottete, della sua assoluta solitudine e della sua radicale sofferenza. E infatti, più volentieri che su tante note rivisitazioni del mito, si sofferma su un meno scontato – e delizioso – relitto della fortuna di Filottete, dal Mulino sulla Floss di George Eliot, in cui la ancor giovanissima protagonista Maggie, dopo aver sentito la storia di Filottete in seguito al ferimento al piede del fratello Tom, osserva «che quando una cosa ti fa molto male, è perfettamente lecito piangere, e che quella gente era molto crudele a non sopportarlo» (25).

Insomma, Filottete ha tutto il diritto di lamentarsi (crudamente e quasi prelinguisticamente a volte, liricamente altrove), di maledire gli uomini, di accusare gli dèi. È rimasto solo per la sua malattia – per il suo piede canceroso che ripugna ai mortali ed è ritenuto sgradito agli immortali (di qui la ragione – o pretesto – per cui è stato lasciato a Lemno); è solo perché l’isola è inabitata (importante innovazione di Sofocle rispetto ai precedenti drammi su Filottete di Eschilo ed Euripide); ed è solo – e non è la ragione meno importante – perché tutti cercano di ingannarlo: «Pur nelle sue tante ferite, nel suo duplice lutto (biologico e sociale), nel suo essere faglia e scissione, rimane – il nichilismo qui non ha spazio – un io ridotto sì agli estremi termini ma, insieme e in un nodo d’antitesi, pulsante e semivivo, premorto e combattivo, partecipe di un tempo senza giorni che azzera l’individuo e di un’orbita di illusioni che scavalcano gli scogli di Lemno infondendo nuova e altra forza. Questo suo stato – umanissimo al massimo grado nel punto in cui rischia di farsi disumano – è quanto gli consente di contrapporsi all’Uno onnicomprensivo, al Tutto onnivoro in cui lo vorrebbe riassorbire Odisseo» (28-29). Questa paradossale forza di Filottete, forza della debolezza ma non propriamente dell’assoluta inerme impotenza – come pure si è voluto –, contrappone al noi politico di Odisseo e del coro una minimale ma inesorabile resistenza dell’io che è, a ben vedere, politica – o, quanto meno e in prima istanza, etica – pur essa.

La resistenza minimale di Filottete e del suo io passa attraverso il corpo e la voce: il corpo, rappresentato, come doloroso soma e la voce come vettore patemico. Il corpo è crudo fardello di dolore[10] e insieme quasi cadavere, ombra, larva[11]. La voce è il veicolo principale, se non unico, della dignità e della forza di Filottete: quella attraverso cui esprime le molteplici incarnazioni del páthos: dalla maledizione, al lamento, all’apostrofe, alla supplica. In essa – dice Testa – «la mancanza è forza» (47).

La phoné inarticolata in linguaggio – estremo esito di una lingua della sofferenza – si percepisce soprattutto nelle interiezioni, su cui varrà la pena di spendere qualche parola. Testa è ben consapevole che le interiezioni nel teatro greco pongono al traduttore un problema di fatto insormontabile, vuoi per la loro specificità pragmatica, vuoi per il significato solo in parte indeterminato, vuoi per l’abbondanza nel settore del greco antico rispetto a molte lingue moderne: «interiezioni, in sostanza intraducibili – riflesso di una condizione che oltrepassa la resistenza del corpo e che fa scendere il linguaggio al grado minimo di una lallazione che, a differenza di quella infantile, indica però non il suo farsi ma il suo disfarsi» (53). Questa tendenziale disintegrazione non deve però far pensare a una totale vacanza semantica, anche nelle interiezioni primarie: e per questo esse pongono un così cospicuo problema di traduzione. Il più recente tentativo di classificazione linguistica nel greco antico di questa misconosciuta parte del discorso si appoggia per l’appunto al corpus costituito dal maggiore teatro attico: le risultanze non sono sorprendenti, ma nemmeno del tutto pacifiche[12]. Prendiamo il caso più interessante, quello di παπαῖ.

Si potrebbe dire che il Filottete è la tragedia del παπαῖ. Testa avverte subito l’importanza di questo elemento lessicale e la difficoltà della resa: «Così un’interiezione istituzionale del dramma come papái (che qui non si può fare altro che rendere con aaah!) viene ripetuta nel medesimo verso in sequenza – figura vocale del male che “trafigge da parte a parte” Filottete. Forse ha un senso non solo di richiamo formale e di compattezza strutturale il fatto che la stessa interiezione ricorra poco più avanti quando – quasi parlando tra sé – Neottolemo avverte ormai chiaramente, preso da pietà per Filottete, la lacerazione tra il compito indegno di cui è stato incaricato e la sua vera natura ed è a un passo dal porre fine all’impostura. Nel momento in cui il suo discorso gli appare “senza via d’uscita”, troviamo nelle sue parole papái; con la sua sola espressione vocale precedente a ogni articolazione linguistica, l’interiezione – resa qui con misero me in “Ma ora, misero me, ora io che faccio?” – avvicina subito i due personaggi agendo da figura sonora in cui si specchiano i loro dolori: fisico quello di Filottete, morale e interiore quello di Neottolemo» (54). Lettura fine, in linea con la miglior critica sofoclea[13], cui si può aggiungere quanto segue: παπαῖ non è elemento particolarmente comune e appare in Sofocle con assai maggior frequenza che in Eschilo e in Euripide; la metà circa delle occorrenze sofoclee è concentrata proprio nel Filottete, in cui la sua semantica (espressione di dolore continuato[14]) trova una destinazione ideale; molti critici hanno notato che il cruciale passaggio in cui Filottete subisce il primo attacco parossistico del suo male è letteralmente punteggiato e sfigurato da interiezioni di lamento, molte delle quali extra metrum, ma culmina proprio (almeno secondo una parte degli editori) con un trimetro interamente costituito da interiezioni, l’impressionante v. 746: «ἀπαππαπαῖ, παπᾶ παπᾶ παπᾶ παπαῖ»[15].

Da queste sponde liminari del linguaggio, nonché dal suo uso più propriamente mitico-rituale scaturiscono anche gli insulti, le maledizioni, le stesse suppliche che spesso si intrecciano nel discorso di Filottete e che Testa rende nella traduzione con grande sensibilità. E a un orizzonte di senso non poi così distante appartengono molti dei silenzi (di Filottete e di Neottolemo) che caratterizzano questa tragedia: carico di tensione, ad esempio, il silenzio di Neottolemo durante la furibonda litigata tra Filottete e Odisseo – in cui il giovane matura la sua decisione e la sua indipendenza – rafforzamento e non diminuzione della sua presenza come giustamente sosteneva Reinhardt ripreso da Testa (61)[16]. Proprio nell’analisi degli scambi linguistici tra i personaggi Testa sintetizza quanto scritto dalla sterminata tradizione critica dando però un suo taglio di lettura, basato soprattutto sull’interpretazione dei margini del linguaggio e sulla sua ambigua relazione con il potere. A tal proposito, conclude perentoriamente Testa che rispetto al profluvio di non detto, di parole ambivalenti, di distorsioni esplicite e di ambigui silenzi (da parte del furfantesco Odisseo, del corrivo Coro e anche del sempre oscillante Neottolemo) «stride come una salutare dissonanza la parola di Filottete. Soprattutto in due particolari forme d’enunciazione: la supplica e la maledizione» (71). Due modalità al massimo grado patemiche e rituali allo stesso tempo che affiancano – come vettori brucianti di páthos – il linguaggio della sofferenza di cui si diceva poco fa: a caratterizzare Filottete come il più etico e il più patico (il più etico perché il più patico) degli eroi sofoclei[17].

Alla luce di questo, si potranno e dovranno considerare anche i cosiddetti tre finali della tragedia. Il primo, quello che vedrebbe il perfido Odisseo vittorioso, padrone dell’arco di Eracle e pronto a puntare su Troia, lascia un Filottete non solo patiens, ma totalmente sconfitto, ridotto a un nulla – ma in esso è evidente la scarsa coerenza con il personaggio persino combattivo e comunque resistente che Sofocle ha costruito per tutto il dramma. Il secondo finale sarebbe un rovesciamento dell’intera storia mitica degli Achei: la caparbia insubordinazione di Filottete sta per impedire che sia scoccata la freccia destinata a uccidere Paride e a mettere fine alla guerra di Troia: abbattendo la storia mitica come la conosciamo (e come soprattutto la conoscevano gli spettatori del 409 a.C.) «la sacra ferita di Filottete, con il suo pus maleodorante, diventa contrassegno assoluto di forza e dignità morale» (79). Ma il terzo finale, quello davvero ultimativo, che impone la volontà degli dèi attraverso l’apparizione di Eracle, non cancella del tutto il secondo, la possibilità che ne era balenata. Eracle, pur legato in un rapporto di philía a Filottete, non spende per lui una parola di pietà, né motiva in alcun modo la sua sofferenza alla luce di una imperscrutabile teodicea. Scrive Testa: «Chi ha ancora a mente il precedente, illusorio e possibile, finale e lo confronta con questo avverte uno stridore ironico – che è, in realtà, tragico al quadrato» (81). E suona in effetti ironico l’appello di Eracle alla «pietà degli dei» (εὐσέβεια) da serbare a Troia, vista la carneficina che tutti conoscono e in particolare la crudele macelleria di cui si rende protagonista Neottolemo stesso (nota a tutti attraverso la Piccola Iliade). E l’ultimo spicciolo di páthos Filottete lo spende per l’addio al suo decennale riparo, la disabitata e astorica Lemno, prima di reimmergersi con ben scarso entusiasmo nell’agone della storia.

Non possiamo chiudere senza qualche osservazione sulla traduzione di Testa, che segue la parte saggistica del volume. Secondo il costume della collana, manca il testo a fronte: e quindi la resa in italiano deve sobbarcarsi tutto il peso dell’autonomia. Questa traduzione unisce spigliatezza dialogica, tensione lirica (specie ovviamente nelle parti monodiche), mantenimento della brutalità del linguaggio, tendenza a renderne con soluzioni non scontate i modi più legati all’inarticolato e al non detto. A una prima lettura, potrà persino sembrare che Testa abbia calcato la mano su alcune caratterizzazioni (il cinismo di Odisseo, le accensioni di Filottete), ma in realtà chi confronti la traduzione con il testo greco e con le altre traduzioni correnti si potrà facilmente accorgere del forte rispetto per la lettera che anima tutta l’impresa. Ovviamente questo è terreno sui cui si potranno esprimere con maggiore competenza gli specialisti: e tuttavia, da non specialista, vorrei portare qualche esempio di soluzioni felici e di rare e ben motivate forzature.

Del tutto giustificato sembra «con lui sempre lì a lanciare atroci bestemmie» che rende «ἀγρίαις […] δυσφημίαις» dei. vv. 9-10, quand’anche l’intenzione di Sofocle sia in primo luogo quella di far rimarcare a Odisseo la distanza siderale di Filottete dalla euphemía richiesta dal rito. A volte Testa sembra voler rinforzare l’allusione al mare, anche quando essa è nascosta o implicita nel testo greco, come nella magnifica sequenza che rende i vv. 188-190 («α δ᾽ ἀθυρόστομος / Ἀχὼ τηλεφανὴς πικραῖς / οἰμωγαῖς ὑπακούει»): «Solo l’eco – querula – del mare / lontano risponde ai suoi lamenti amari» (e, del resto, l’immagine di Filottete solo che dialoga con l’eco del mare appare cruciale per tutta la lettura offerta in questo libro). «E io qui ancora ad andare a pezzi nel mio patire» rende con grande icasticità e richiamo di parole-chiave il greco «ἀλλ᾽ ἀπόλλυμαι τάλας» del v. 311. Del resto lo stesso Testa dà ragione di una traduzione lievemente forzata – almeno rispetto a quelle prevalenti – quella di «ὦ μελέα ψυχά» (v. 712) con «Amara nuda vita». La resa pare finalizzata a una interpretazione del testo più limpidamente orientata verso la caratterizzazione di Filottete come solitario uomo di dolore: «E riassume questo catalogo di patimenti e di privazioni nell’espressione vocativa o meléa psychá che, resa per lo più dai traduttori con “O anima in pena!”, abbiamo preferito invece tradurre – visti la materialità corporea della situazione, il significato di psychá anche come ‘esistenza di una persona’ e la mancanza in essa delle cose più essenziali con “amara nuda vita”» (46; con la precisazione dell’autore che l’uso è più «rasoterra» rispetto al senso “tecnico” che il sintagma nuda vita ha assunto nel dibattito filosofico contemporaneo). Un esempio di lieve incrudimento del testo originale può essere l’appellativo bastardo più volte rivolto da Filottete a Odisseo, che fa da traducente a espressioni magari meno diafasicamente connotate: ma non ci si allontana di certo dallo spirito del testo. Notevole la scelta di evidenziare il sarcasmo di Odisseo spezzando «χαῖρε τὴν Λῆμνον πατῶν» (‘divertiti a passeggiare per la tua Lemno’) in «Goditi la tua Lemno. Fatti delle belle passeggiate». Nella sua semplicità, appare del tutto condivisibile – e un sicuro guadagno rispetto agli usuali e stitici ah o ahi – la scelta di tradurre il reiterato ἆ con cui esordisce la prima crisi del male di Filottete con un più crudo grido «Aaah… Aaah… Aaah…». E sempre restando alle interiezioni, si è già detto sopra della difficoltà di traduzione posta dal frequente παπαῖ (reso, ma non univocamente, con aaah). Si osserverà in ultimo come «ἐμὲ δὲ τὸν πανάθλιον» del v. 1026 sia tradotto non con un semplice ‘io, sfortunato’ o ‘io, infelice’, ma con il suggestivo e tematicamente centrale «io, dolore fatto uomo»; e, in modo sottilmente simmetrico, lo stesso accada all’«ἄθλιός γ᾽ ἀνήρ» del v. 1214» che diventa «io uomo fatto dolore». La traduzione sancisce e completa insomma – e dispiace averne potuto dare qui solo pochi esempi – l’interpretazione del testo sofocleo presentata nella parte saggistica.

Scritto in una lingua elegante, pungente e talvolta vibrante, il saggio di Testa – non meno della sua notevole traduzione – può servire da viatico sia per chi conosca bene il Filottete, sia per chi ne abbia solo una vaga reminiscenza scolastica, sia infine per chi lo ignori del tutto. La personale e acuminata interpretazione non esclude una pregevole vena divulgativa, in cui la complessità viene resa soprattutto con i mezzi della tensione verbale ed eventualmente della metafora non convenzionale. Chi poi abbia presente il lavoro del Testa studioso e poeta, potrà sicuramente riconoscere come, con sottile understatement, il testo sia disseminato di una serie di risonanze che rimandano alla poetica dell’autore: all’attenzione per i margini della lingua come per le esperienze marginali tra antropologia e letteratura, alla speciale considerazione per la dialogicità, alla presa di voce di un io assediato e sofferente – ma non sconfitto –, all’antipatia per l’os rotundum della retorica finalizzata alla conquista e alla gestione del potere. Ma anche chi lo conosca bene rimarrà forse colpito dal fatto che a inaugurare molti di quei sentieri di ricerca e di scrittura siano stati, sul limite di adolescenza, quella strana tragedia di Sofocle e quello strano eroe che è Filottete.

 

(Immagine: Giovanni Gaibazzi, Filottete nell’isola di Nasso, 1834, Museo Nazionale della Pilotta, Parma)

 

 

[1] Si potrebbero aggiungere a buon diritto anche le Trachinie, ma ostano almeno due motivi: la durezza e l’autoritarismo che Eracle conserva fino al rogo sull’Eta e il fatto che esse siano la tragedia di Deianira non meno (e forse più) che quella del sofferente Eracle.

[2] Si rimanda – in rappresentanza di una bibliografia larghissima – a quanto scritto nella Prefazione di Sofocle, Aiace, prefazione e traduzione di Maria Grazia Ciani, testo e commento di Sabina Mazzoldi, Marsilio, Venezia 1999, p. 29.

[3] A partire da Piero Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, il Mulino, Bologna 1992.

[4] Enrico Testa, Sofocle. La solitudine di Filottete, il Mulino, Bologna 2021, p. 64.

[5] Ivi, p. 66. Le successive citazioni dal libro di Testa saranno date a testo senz’altra indicazione che il numero di pagina tra parentesi tonde.

[6] Per comodità del lettore, considerando che questa singolare tragedia è tanto poco ricca di eventi quanto sottilmente complessa e ambigua nella sua trama (nonché nella rielaborazione del mito che essa opera), forniamo una sintesi equilibrata dell’intreccio: «Filottete, affetto da una ferita purulenta e maleodorante provocatagli dal morso di un serpente, è stato abbandonato dai Greci a Lemno durante la rotta verso Troia. Ora su quell’isola deserta e inospitale approdano Odisseo e Neottolemo, incaricati dagli Atridi di recuperare l’arco di Eracle che l’eroe ha conservato con sé: un oracolo ha infatti rivelato che senza quell’arma Troia non potrà essere espugnata. Neottolemo, figlio d’Achille, dovrà ingannare l’eroe, fingendo di aver lasciato i Greci adirato perché le armi del padre non sono state riconsegnate a lui, ma assegnate a Odisseo: quell’Odisseo che Filottete odia più di tutti perché proprio da lui è venuto il consiglio di abbandonarlo a Lemno. Neottolemo è riluttante a usare la frode, ma alfine Odisseo lo convince. Mentre il giovane resta dinanzi alla grotta che Filottete ha eletto a sua misera dimora, Odisseo ritorna alla nave. Quando Filottete rientrando dalla caccia vede Neottolemo e apprende che è il figlio di Achille, subito simpatizza con lui e gli racconta la sua triste storia e la sua vita di indicibili stenti e sofferenze; ancor più lo sente a sé vicino quando Neottolemo gli riferisce, mentendo, che gli Atridi e Odisseo lo hanno privato delle armi del padre. Quando Neottolemo dice di voler ripartire, Filottete lo scongiura di prenderlo con sé a bordo e di riportarlo in patria. Neottolemo sembra acconsentire. Ma ecco che sotto le false spoglie di un mercante di ritorno da Troia arriva un marinaio inviato da Odisseo, preoccupato che il piano vada a buon fine. Egli porta due notizie: la prima è che i Greci stanno cercando Neottolemo per ricondurlo a Troia; l’altra è che Odisseo e Diomede stanno dirigendosi su Lemno per prelevare Filottete perché, come ha annunciato l’indovino Eleno, senza di lui Troia non cadrà. Il falso annuncio ha l’effetto di accelerare la partenza: Filottete è pronto a seguire Neottolemo sulla nave. Ma una crisi violenta del suo male lo assale: in preda agli spasimi, affida l’arco e le frecce al giovane, nel quale ripone piena fiducia, pregandolo di serbarle contro ogni possibile insidia; poi, spossato, prende sonno. Il coro di marinai che ha accompagnato Neottolemo invita l’eroe ad approfittarne; ma il giovane replica che gli dèi vogliono che insieme alle armi anche Filottete in persona giunga a Troia. In realtà egli prova una profonda compassione per Filottete, sì che, quando questi si sveglia e sta per avviarsi con lui verso la nave, preso dal rimorso, non può fare a meno di svelargli la sua intenzione di condurlo a Troia. La reazione di Filottete è di delusione e di disperazione. Supplica Neottolemo di lasciarlo sull’isola e di restituirgli le armi, e Neottolemo, cedendo al suo animo nobile, sta quasi per farlo. Ma ad impedirglielo giunge Odisseo. Filottete viene immobilizzato e, poiché si ostina a non voler abbandonare la sua grotta, Odisseo e Neottolemo tornano alla nave con l’arco e le frecce, lasciando che ancora per un po’ gli facciano compagnia i marinai di Neottolemo. In Neottolemo tuttavia il rimorso per un’azione sentita come iniqua si fa sempre più forte: dissociandosi da Odisseo e da lui invano contrastato, decide di riportare le armi a Filottete. Ma ogni tentativo di convincerlo a salpare con lui per Troia, facendogli balenare la prospettiva della guarigione dal suo male e della gloria che potrà ottenere espugnando la città, si rivela inutile: Filottete vuole essere ricondotto in patria. Già i due si dirigono verso la nave, quand’ecco che compare in alto Eracle a piegare gli eventi nella direzione voluta dagli dèi: Filottete andrà a Troia, dove guarirà; e la sua presenza e quella di Neottolemo consentiranno finalmente ai Greci di conquistare la città» (Massimo Di Marco, La tragedia greca. Forma, gioco scenico, tecniche drammatiche, Carocci, Roma 2019, pp. 300-301).

[7] Così Umberto Albini citato da Testa (19). Allarghiamo il prelievo: «il suo [scil. di Sofocle] Filottete ha una configurazione insolita: è un dramma vischioso, improntato da una perenne procrastinazione, da un’ininterrotta tensione psicologica, che non si trasforma mai in gesto definitivo, in atto risolutivo. La tragedia sta appunto nel dover attendere, nel dover mentire, nel ritrattare, nel ritrattarsi: sulla dinamica degli eventi prevale una rallentante, soffocante pena, e la catastrofe coincide con una pena protratta. In consonanza, vibra insistente la nota della sofferenza: e frustranti, perché infruttuosi, risultano i trucchi escogitati contro Filottete» (Umberto Albini, Appunti sul «Filottete», in Viaggio nel teatro classico, Le Monnier, Firenze 1987, pp. 53-64, alla p. 54).

[8] Sulla cruciale figura di Neottolemo non ci soffermeremo qui più di tanto, ma bisogna pur avvertire che essa è al centro del dibattito sul Filottete quanto e più dello stesso protagonista e di Odisseo. Di Neottolemo Testa considera soprattutto la caratterizzazione linguistica: inizialmente spalla di Odisseo, poi via via più emancipato e infine phílos di Filottete nell’apparente abbandono dell’impresa troiana, il suo dire è sommamente ambiguo e ambivalente. Spesso i suoi asserti sono bivoci non in una semplice prospettiva dovuta alla cosiddetta ironia tragica, ma proprio per una almeno congetturabile volontà di dire et ne pas dire attribuibile al personaggio: il che – se si oppone alla spudorata ricerca di inganno di Odisseo – è però non meno distante dalla nettezza della parola di Filottete.

[9] Adrienne Rich, Twenty-one Love Poems, in The Dream of a Common Language. Poems 1974-1977, Norton, New York, 1978. Fornisco una mera traduzione di servizio: «Mi rivedo anni fa a Sunio / dolorante per un piede infetto, Filottete / in foma di donna, zoppicante per il lungo cammino / sdraiata su un promontorio sopra il mare scuro, / guardando verso le rocce rosse fino a dove un ricciolo silenzioso / di bianco mi ha detto che un’onda si era abbattuta, / immaginando la spinta di quell’acqua da quell’altezza, / sapendo che il suicidio intenzionale non era nelle mie corde, / e tuttavia per tutto il tempo curando, misurando quella ferita. / Bene, tutto ciò è finito. La donna che amava / la propria sofferenza è morta. Io sono la sua discendente. / Mi piace la cicatrice che mi ha lasciato, ma voglio continuare da qui con te / combattendo la tentazione di costruirmi una carriera di dolore».

[10] «Se, infatti, la solitudine è uno dei chiodi in cui è confitto il suo stare al mondo, l’altro, non meno importante, è il dolore, la sofferenza fisica, elemento cruciale sia in termini tematici sia formali: un consumarsi senza rimedio in un vicolo cieco della vita e dell’essere» (35).

[11] Con larva, e non con il semplice fantasma, Testa rende l’«εἴδωλον» del v. 947.

[12] Lars Nordgren, Greek Interjections, De Gruyter-Mouton, Berlin 2015. Da questo volume recupero i dati quantitativi sulle occorrenze di παπαῖ.

[13] Si veda al proposito il commento di Pucci ai vv. 895-899 in Sofocle, Filottete, Introduzione e commento di Pietro Pucci, Testo critico a cura di Guido Avezzù, Traduzione di Giovanni Cerri, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, Milano 2003, pp. 261-262.

[14] «There is some variation in the use of παπαῖ, but on the whole it seems quite clear to express the speaker’s experience of pain, either physical or mental. The evidence also seems to point at παπαῖ having a reference to a prolonged – rather than a sudden – sensation» (Nordgren, Greek Interjections, cit., p. 123).

[15] Sul linguaggio della sofferenza di Filottete si veda soprattutto Vincenzo Di Benedetto, L’uomo sofferente, in Sofocle, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 191-215, alle pp. 195-198. Ricordiamo in particolare la martellante paratassi, i tratti metrici insoliti e l’espressività di un male il cui carattere Di Benedetto battezza come «eruttivo-interiettivo» (p. 196).

[16] «E come Neottolemo ora si fa sempre più silenzioso, di un mutismo che non significa un indebolimento, bensì un rafforzamento della sua presenza, in ugual misura Odisseo sale fino all’apice del suo diritto e della sua potenza» (Karl Reinhardt, Sofocle, il melangolo, Genova 1989, p. 203).

[17] Se quindi si può concordare con Di Benedetto sulla novità dell’eroe come «antipersonaggio» nel Filottete, non si potrà – se si sposa l’interpretazione di Testa – considerare sbagliata, come vuole sempre Di Benedetto, la caratterizzazione di Filottete come dotato di una «solida struttura etica» (Di Benedetto, L’uomo sofferente, cit., pp. 207-208).

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