di Alberto Fraccacreta
Cosa succederebbe se i mezzi di trasporto, i computer, gli elettrodomestici, le reti di comunicazione smettessero all’improvviso di funzionare? La «modernità» sarebbe «in pausa», una controrivoluzione investirebbe le nostre vite, la «strada» dell’umanità verrebbe ancora una volta «deformata». L’Arresto è il nuovo romanzo di Jonathan Lethem (traduzione di Andrea Silvestri, La nave di Teseo, pp. 336, € 20,00) e ha per tema una «misteriosa calamità» che colpisce il punto debole delle nostre esistenze e dipendenze. Eppure, in un villaggio del Maine un ex sceneggiatore di Los Angeles e sua sorella, padrona di una fattoria biologica, sembrano riacquistare d’emblée la dolcezza della vita bucolica, almeno finché non arriva un inedito Mefistofele, il produttore Peter Todbaum, con la sua macchina a propulsione atomica capace di ripristinare lo status quo ante, facendo sorgere nella comunità un dilemma eterno: con quali fini e potenzialità è giusto utilizzare la tecnologia? Essa è a vantaggio o a scapito dell’uomo? Quesiti etico-politici (o anche ecopolitici), ma ancor prima esistenziali: «Era arrivato senza preavviso, eccetto tutti i preavvisi possibili: l’Arresto. Il collasso, la frammentazione e rilocalizzazione di ogni cosa, del mondo familiare […]. L’Arresto si presentò come un presente già passato. Come una capsula del tempo dissotterrata. Tutto questo era sconcertante. Non poteva essere altrimenti». La catastrofe, o etimologicamente katastrophé, rivolgimento, di cui parla Lethem – newyorkese classe ’64, vincitore del National Book Critics Award nel 1999 con Brooklyn senza madre, docente al Pomona College – è forse qualcosa che ci trascende e mostra tutta la fragilità degli equilibri biologici nei nostri ecosistemi per grazia di una favola folle, stilisticamente briosa.
Professore, com’è nata l’idea che tiene in piedi il romanzo?
«L’idea ha diverse fonti, molte delle quali risalgono a qualche decennio fa nel baluginare del mio pensiero e sentimento (e fantasia). Fin da Amnesia Moon, un libro che scrissi quando avevo diciannove anni, ho cominciato ad avere il sospetto che leggiamo e componiamo storie sulla fine del mondo perché la desideriamo. Lanciamo avvertimenti, raccontiamo vicende spaventose attorno al fuoco, ma l’eventualità della fine gratifica anche noi stessi e il nostro desiderio di vedere tutto spazzato via, e di osservare un’umanità “resettata”. Certo, non è necessariamente così che andranno le cose. Potrebbe non accadere nulla, invece di qualcosa. Ma in parecchi dei romanzi di questo tipo di cui faccio tesoro e che emulo – come Cronache del dopobomba di Philip K. Dick o Un cantico per Liebowitz di Walter Miller o Riddley Walker di Russell Hoban o Earth Abides di George Stewart o il più recente Stazione undici di Emily St. John Mandel –, la distruzione lascia il posto a una sorta di realtà pastorale, qualcosa di più semplice e più radicato nella vita fondamentale del corpo. Suppongo che, per un paranoico cosmopolita cresciuto in città come me, questa sia l’unica maniera in cui poter raggiungere e celebrare il genere pastorale. E, come molte storie di un possibile paradiso, esso prende vita solo quando arriva il diavolo».
Anche nell’opera precedente, Il detective selvaggio, ero rimasto colpito dalla sonorità dei nomi dati ai personaggi. Qui i protagonisti sono Alexander e Madeleine Duplessis. I loro nomi nascondono una valenza quasi cabalistica?
«No, non una valenza cabalistica – non saprei come metterla in funzione. Ma mi piacciono i nomi memorabili ed evocativi, che suggeriscono fortemente un valore allegorico o simbolico, anche se allo stesso tempo resistono all’interpretazione. Mi sembra che sostituiscano la complessità degli esseri umani, il modo in cui si svelano gli uni agli altri solo gradualmente, e solo in parte. E poi mi fanno ridere».
La parola «Arresto» ha per lei un’accezione metafisica?
«Mi piacciono le risonanze multiple di quella parola, sì. Cose che vengono catturate e cose che vengono semplicemente fermate, e anche cose che arrestano, che sono così affascinanti da avere il potere di bloccarti sul colpo in modo da poterle osservare meglio».
Nel romanzo c’è molta ironia suscitata dall’uso intelligente della lingua. Serve a diluire la serietà distopica e a sovvertire le regole del genere letterario?
«Fin dall’inizio non sono mai stato in grado di prendere un genere per il verso giusto, secondo il significato letterale del termine. Questa è la mia debolezza o il mio superpotere, a seconda che i miei libri piacciano o siano considerati troppo impacciati, nervosi ed evasivi. Tendo a voler aguzzare i bordi del genere, dove possono iniziare a rompersi e a interferire con altre forme. L’abitudine a questo punto è interrotta, diviene impotente. Vorrei però sottolineare che lo faccio per amore, non per disprezzo!».
Il soggetto del libro non è lontano da Il silenzio di DeLillo e La strada di McCarthy. Perché la letteratura diventa sempre più post-apocalittica?
«Raramente ho visto una domanda che risponde a sé stessa in modo più completo. Qualche tempo fa ho ascoltato alla radio le notizie che riguardavano l’alluvione in Germania. Sono ritornato in California, dopo esserci stato a luglio, e gli incendi stanno ricominciando. Non è difficile da cogliere il perché di tanto impulso post-apocalittico, anche se è difficile da accettare».
Ci sono molti riferimenti intertestuali nel romanzo, dal cinema alla letteratura. Cosa significa per lei l’intertestualità?
«Dico spesso che il motivo per cui amo il romanzo più di ogni altra forma letteraria è perché ha una maggiore capacità di assomigliare al cervello umano e alla natura dell’esperienza umana. Suppongo che direi lo stesso dell’intertestualità come forma o genere all’interno del linguaggio: dice la verità su come i nostri cervelli confusi facciano ordine dal caos e creino linguaggio dal rumore. L’intertestualità è già nella ricetta, la lascio solo affiorare. Non la ostacolo. Non cresciamo mai nel vuoto, dove l’esperienza è in qualche modo “pura”, senza mediazioni attraverso storie, linguaggi, ideologie: esse vengono tutte con il pacchetto. Quindi, la mia tendenza a far riferimento a questo strato di esperienza è semplicemente il mio tentativo di dare al mondo, come lo conosco, il suo nome completo e vero».