di Mariano Bàino
[E’ uscito da poco per Exòrma Edizioni Il cielo per Roma, di Mariano Bàino. Ne proponiamo un estratto].
Chiamatemi Chiaffredo. Ma non chiedetemi il perché. Non ora almeno, non subito. Posso solo anticipare che sono un tipo strano, sì, anche più strano di questo nome, ma il difficile è spiegarvi per quali ragioni. Il difficile è spiegarvi l’ambaradan in cui mi sono trovato e ancora mi trovo, e in cui peraltro anche voi vi trovate. Ma calma, vi prego, sono un tipo lento, di una lentezza, come a volte dite voi, dell’altro mondo. Sono infatti un trapassato. Anzi, un tratrapassato, se la mettiamo nei termini di chi viene prima e di chi viene dopo, se vogliamo usare le coordinate del tempo come voi lo conoscete.
Se fosse solo per me, avvierei questa cronaca veritiera da una colpa da scontare, la mia colpa, massima, infinitamente dannevole, ma per non far impazzire subito l’ago della bussola di questa storia occorre iniziare come da un’inquadratura, un’immagine, una sorta di ripresa in un film. Perché? Ma per venire incontro a voi, figli del cinema e della tivù, e per trasferire nella pratica gli aggiornamenti che ho ricevuto sul mondo come è oggi mentre ero in un altro sistema di mondi. Proviamo dunque a partire dalla botta improvvisa e tremenda che ho sperimentato allorché il cielo e le stelle che vedete voi hanno preso a essere gli stessi visti di nuovo da me. Non saprei dirvi, al riguardo, se cielo e stelle della città di Dio siano gli stessi che si vedono dalla città degli uomini, se lassù insomma si vede lo stesso cielo ma dall’altra parte, se c’è o meno una sfasatura rispetto a chi lo vede prima o dopo.
Su come avvenga il passaggio fra mondo celeste e mondo terreno, non ci provo nemmeno a spiegarlo. Non ci riuscirei mai, perché nulla di preciso ci ho capito. Dico solo che il trapasso inverso mi era stato annunciato, dirò poi da chi, come imminente, e per il quale occorreva solo muovere le ali, come fa con animo scarico ogni angelo di qualsiasi tipo e gerarchia. Avevo pur ricordato a chi di dovere che io ali non ne avevo, angelo non ero, non ancora: ero un progetto di angelo, ancora bisognevole di purificazione e lavande spirituali, di eoni ed eoni di tempo (insomma di un bel mucchio di secoli, per capirci). La mia fase era ancora quella della meditazione in un apposito spazio, tesa a liberare lo spirito dai gravami della materia, il cui callo, nel caso mio, riguardava tante cose, fra cui, come dire?, la pancia (un po’ più giù, via, ché il mio tormento, da vivo, era il demone meridiano, il diavolo che ti tenta dal basso, assumendo forma di donna). Il desiderio, via, per quanto parallelo a una certa propensione meditativa.
A chi di dovere avevo anche ricordato, e non per fare l’inghippatore, che la classe degli angeli nuovi, quella proveniente dalle schiere delle anime umane, è la più bassa e la meno provveduta, a fronte del compito che mi si voleva affidare. E di cui vi dirò, se nel frattempo non sarà impazzito, come mi pare stia già accadendo, l’ago della bussola di questa storia. Comunque, il primo battito d’ali, se devo chiamare ali quelle piccole chele schiacciate che mi erano spuntate di colpo dopo il colloquio con Kontrollo (ne parleremo, eh!?), era stato piuttosto fluido, mi ero spostato in diagonale nell’aria gialla del mio spazio meditativo e poi, tuffandomi nel nulla fuori di lì, senza nulla vedere, insieme alla spinta delle ali ho sentito che passavo oltre un confine invisibile.
Una cosa semplice, semplice. Nessun varco. Nessuna porta. Nessun albore. Assenza di ogni suono biblico, di una voce ispirata, un ansito, che so, di Samuele, Tobia, Giobbe, un proverbio dei Maccabei, un fruscìo dal Qohelet, una nota di Baruc, Ezechiele, Giona, Zaccaria… Nulla! E subito la botta, come prima ho accennato. E che botta! Chi se la scorda!? Il mio nuovo corpo, appena assegnatomi per divino decreto, già spiaccicato su qualcosa di sfericamente omicida. Appena reincarnato e già malconcio su quella palla che a voi, da lontano, sembra piccola, piccola, ma tale non è, anzi potrebbe tenere in sé una ventina di cristiani, tutta di bronzo e ricoperta d’oro, lì in cima alla cupola di San Pietro, sotto la croce.
Da cosa avevo capito dove mi trovavo? Bah, potrei dire che l’ho saputo da subito, per una misteriosa irradiazione; potrei dire che mi sono reso conto appena ho toccato terra, prima ancora di rotolare fra gli scorci marmorei della piazza; potrei dire quando quella macchina teatrale del ritorno al cielo, la celeste macchina che è appunto la croce, incombendo su di me dalla sfera e attraversando il mio sguardo, si è fatta schiacciatura insostenibile dritta sull’anima e sulla prima vertebra cervicale, che connette il cranio alla colonna vertebrale. Scegliete pure fra la risposta uno, due o tre, ma in fretta, per favore: le cose qui sono già ingarbugliate abbastanza per conto loro, mancano solo le vostre bubbole d’indecisione: dovrei… ma no… non parto… non resto… che avrei nel partire… che avrei nel restare… Quasi quasi, mentre voi indugiate nel semicupio stagnante dell’incertezza, io me ne torno con la mente al puntino che ero, lì sulla palla della cupola michelangiolesca, sotto la luna in corsa, sotto un cielo che era una pappa di luna piena disciolta nello spazio pallido.
Avevo il problema di girarmi, come voi dite per il calciatore stretto all’angolo e con le spalle rivolte al terreno di gioco. Attaccato alla palla solo grazie alla collosità dei miei umori, al sangue che perdevo dal naso e dalle mani, sentivo che fra qualche attimo sarei uscito fuori dalla legge dell’equilibrio, prossimo spettatore della mia stessa caduta. Ma mi orripilava l’idea di cadere all’indietro. Né le mie mani avide potevano sperare in un appiglio dell’ultimo istante. Epperò, sentivo che il pericolo mi proteggeva, mi nobilitava, anche se ero assolutamente atterrito dal vuoto. Ma chi era effettivamente atterrito, la mia anima o il mio corpo? E che corpo avevo? Mi sembrava, ma diciamo pure ero certo, che il corpo prigioniero in quel brandello di spazio, lì sulla palla sormontante la cupola, non fosse il mio, il mio di come ero stato a suo tempo, e nondimeno lo sentivo combattere, allo stremo delle forze, contro misteriosi elementi; contro una vertigine dai molteplici lati; contro un cupo desiderio di ritrovare terra.
Il panico mi soffocava. La superficie della palla era sempre più gelida. Sentivo urlare dentro di me. Frattanto, turbinava vicino alla mia testa la sagoma nera e stravagante di un pipistrello, vorticava su sé stessa, ruotava e ruotava, a ogni zigzag la sua presenza era più palpitante, sembrava cercare nel plenilunio una feritoia, un passaggio che la risucchiasse.
Almeno col cuore dovevo volare. Vivo di nuovo, e, lo sentivo, di nuovo mortale ed effimero, dovevo volare, portare la mia imprecisa essenza, la mia mediana condizione a non avere più coscienza del suolo. Come un uccello. Come un arcangelo dall’assoluta spiritualità. Con le braccia completamente allargate, devo avere qualcosa – mi spronavo – almeno qualcosa dell’angelo. O angelo o sfracellato. Dovevo riconoscermi invincibile. Con umiltà, ma invincibile. Come un’aquila dallo sguardo folle che stringe nelle pupille un lampo sfrecciante.
Palpavo il vuoto, mentre il pavimento della piazza non era più allo stesso livello, ma ancora più in basso. Ho dato di aluzze, poco più di due braccia spalancate. Non sapendo bene verso dove, e all’indietro, ho disteso le chele accartocciate. Sfiorato con un calcagno uno di quei pilastrini più in basso della sfera dorata, così somiglianti a esili funghi o a pedoni degli scacchi. Sfiorato con la spalla, o forse con l’aluccia, l’obelisco al centro della piazza. Tutto questo percepito in modo indistinto, con grosse macchie che galleggiavano davanti agli occhi. Sia come sia, l’istinto, e qualcosa che istinto non era, si stavano intrecciando, tracimavano l’uno nell’altro, nella spinta del mio volo al rovescio, sgrammaticato. Piombavo dall’alto del mio mistero aerodinamico come una cascata sul mare. Col culo per terra. Slombato, lungo disteso sul pavimento a cubetti di porfido che chiamate sampietrini, dopo due o tre sobbalzi leggevo dal basso verso l’alto, alla base dell’obelisco:
ECCECRUXDOMINI.
FVGITE
PARTES ADVERSAE.
VICIT LEO
DETRIBV IVDA.
Avevo preso terra sul lato di levante, come potevo desumere da una mattonella sull’impiantito, che riportava anche il nome del vento che spira da quel lato, lo scirocco. Alzatomi, non vedevo l’ora di lasciare la piazza, impaurito dalle forti luci artificiali che i miei occhi sperimentavano per la prima volta; dalla grandiosità del colonnato; dalla sensazione che potessero ben presto piombare su di me sentinelle e custodi.
Un ultimo sguardo alla cupola, il cui slancio mi sembrava mozzato dalla facciata, quadrata come quella di un palazzo, ed ero in movimento, anche se acciaccato. Solo, impaurito dalla mia missione, seguivo i miei stessi passi. Le ali, recline, già quasi rotte nella caduta, le sentivo come sotto l’azione di una roncola invisibile, tagliate via come erbacce. Ho alzato gli occhi al cielo, che adesso era in preda al movimento: intere greggi di nuvole galoppavano scompigliate, il candore degli orli luminosi, il nero delle masse, tutto galoppava sotto la luna che scorreva anch’essa, emergeva, scivolava, si oscurava, si spegneva e rispuntava immacolata. Il cielo era come pervaso da due moti contrari, uno impetuoso e uno tranquillo. Camminavo lentamente, verso dove le gambe mi portavano.
Il monumentale portone del palazzo del Santo Uffizio, nella piazza omonima, si è aperto mentre passavo di là, mentre avanzavo al centro di quello spazio. Brivido. Anche per me si è aperto il Santo Uffizio, ho pensato, con una risaticcia sul volto. Una lunga automobile nera ne usciva.
Dopo un po’ ero sotto un altro portone, più piccolo e neutro. Cercavo un nome sul citofono, e le chiavi nelle tasche del soprabito scuro che mi rivestiva. Prima di entrare, mi sono accorto del prosperoso topo spuntato da sotto un cassonetto della spazzatura, dal pelo lungo, oltremodo lungo, da ratto persiano. Poi l’ascensore. Sul pianerottolo del terzo piano una porta lucida e un’etichetta d’ottone intestata a Chiaffredo Buffaldieci Guastella, avvocato.