di Paul Guillibert

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi

 

[E’ uscito da poco Terre et capital. Pour un communisme du vivant (Amsterdam, Paris 2021), di Paul Guillibert. Ne presentiamo l’introduzione, tradotta da Matteo Polleri e Andrea Di Gesu].

 

All’epoca del cambiamento climatico e delle catastrofi globali, il comunismo è ancora attuale? A prima vista, ci sono almeno tre buone ragioni per dubitarne.

La prima riguarda la novità del presente. La nostra situazione concreta è fondamentalmente differente da quella che ha visto nascere il comunismo e le sue principali teorizzazioni. È contraddistinta dall’apparizione di fenomeni inediti, d’una ampiezza sconosciuta finora. Il riscaldamento globale, l’inquinamento massiccio dell’aria, del suolo e delle acque, l’abbassamento delle risorse idriche in parti importanti del pianeta, la sesta estinzione di massa ne sono le principali manifestazioni. È dunque in un mondo nuovo, i cui limiti naturali impediscono di confidare nello sviluppo illimitato della produzione, che i movimenti ecologisti si sono sviluppati, spesso ispirati più dall’anarchismo che dal comunismo.

 

Per quasi due secoli, i socialismi (anarchici, comunisti, populisti, anticoloniali, femministi, ecc.) hanno incarnato le speranze dell’emancipazione sociale. Fin dal XIX secolo, al di là delle loro differenze, hanno condiviso una cosmologia, cioè la rappresentazione di un mondo comune a partire dal quale gli enunciati critici possono aver senso e i programmi politici possono essere elaborati. Questo mondo era popolato da una folla d’esseri che Karl Marx metteva sotto la categoria di “forze produttive”: miniere e fabbriche, operai e operaie, colonie, forze e risorse naturali (l’acqua, il vento, il corpo umano, ma anche legno, carbone, cotone, ecc.), animali (capre, soprattutto inglesi), macchine (sempre più spesso a vapore), piantagioni e schiavi, saperi tecnici e scientifici, divisione sociale del lavoro. Con l’espressione “forze produttive”, Marx designava insomma l’insieme dei mezzi naturali, tecnici, sociali e scientifici di cui una società dispone per appropriarsi della natura e per produrre ricchezza sociale. Queste forze avevano il ruolo di mediazione storica tra le società e il loro ambiente (milieu). E si componevano nelle città, divenute degli immensi luoghi di produzione e scambio.

 

I socialismi condividevano anche un obiettivo comune: la fine dello sfruttamento del lavoro e l’estinzione dello Stato che assicura la riproduzione dei rapporti di classe. Pur senza elaborare le stesse analisi e strategie, tutte le correnti socialiste formulavano quindi un medesimo problema, intorno al quale potevano unirsi o dividersi a seconda dei casi: abolire lo sfruttamento del lavoro. Perseguivano, sul piano sociale, un programma di emancipazione politica che aveva preso forma nel XVIII secolo, con le filosofie del diritto naturale – programma del quale la Rivoluzione francese aveva illustrato le possibilità concrete di realizzazione, o perlomeno la legittimità delle speranze. Oltre a una medesima cosmologia e uno stesso problema, i socialismi condividevano dunque una filosofia della storia. Quest’ultima era originale nella misura in cui teneva insieme la lucida coscienza delle atrocità del capitalismo e una visione ottimista del futuro: la primavera dei popoli annuncia che l’ora è giunta e che il sol dell’avvenire sta per sorgere.

 

Ciononostante, nei paesi del Nord del mondo le evoluzioni più recenti del capitalismo hanno accelerato la decomposizione del movimento operaio, più di quanto non abbiano favorito lo sviluppo del comunismo. Basandosi sulle catene del valore globalizzate, il capitale finanziario ha partecipato alla ristrutturazione logistica dell’economia-mondo. La storia ha così seguito una direzione ben differente da quanto aveva immaginato il pensiero socialista. Da un punto di vista ecologico, e non solo economico, d’altro canto, il mondo nel quale il comunismo è stato inventato è molto cambiato.

Ovunque sul pianeta le foreste bruciano e i mari si innalzano. In California, in Australia, in Brasile, in Africa australe o ancora in Russia, dei mega-incedi divorano delle terre abitate da millenni. Viviamo ormai in un modo di siccità e incendi incontrollati, uragani e inondazioni, tsunami e incidenti nucleari, zoonosi e pandemia. Il virus Sars-CoV-2, noto come Covid-19, ne è un’ottima illustrazione: un’introduzione non-umana nelle nostre esistenze sociali, che ha favorito e radicalizzato un capitalismo dei disastri, nel quale gli Stati sovrani si coordinano per limitare la pandemia attraverso il sacrificio delle libertà politiche e l’esposizione differenziale della popolazione alla miseria, alla malattia e alla morte. Questo virus, come tutte le catastrofi delle quali è l’epifania, conferma l’emergenza di un “nuovo regime ambientale”[1].

 

Nel 2005, dopo la devastazione prodotta a New Orleans dall’uragano Katrina, la filosofa Isabelle Stengers ha proposto un nuovo nome per il nostro tempo: l’“intrusione di Gaia”[2]. “Gaia” designa l’apparizione dei nuovi protagonisti della storia delle società: uragani, virus, incendi, siccità. Questi hanno un’autonomia propria, agiscono e trasformano il mondo a loro modo. Ciò non significa che abbiano delle intenzioni; sarebbe assurdo difendere una tesi del genere a proposito di un virus o di un incendio. Significa, piuttosto, che possiedono una agency, una potenza di trasformazione del mondo che obbliga le società umane ad adattare il loro modo di organizzazione e di sussistenza. È proprio il sorgere di fenomeni naturali estremi che “non si preoccupano di noi” che modifica la nostra comprensione della storicità. Nel 2003, mentre gli Stati Uniti si impegnavano in una nuova guerra imperialista per il controllo del petrolio iracheno, il Sars-CoV-1 faceva la sua prima apparizione nell’ecosistema mondiale. Come scrive Stengers, questa intrusione del naturale nella storia sociale “è ignota, ed è qui per restare […] non si tratta di un brutto momento che passerà in fretta”[3] . Niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe obiettare. Che i fenomeni naturali intervengano nella storia umana è una constatazione triviale. Che la principale preoccupazione delle società umane sia la riproduzione delle loro condizioni di vita attraverso l’intervento più o meno cosciente sull’ambiente naturale è un’evidenza. Ma l’umanità è entrata in una nuova era, nella quale gli eventi climatici che perturbano il funzionamento normale delle società moderne si presenteranno con una frequenza e una violenza sempre maggiori.

 

Sappiamo ormai che il riscaldamento climatico e il ripetersi di catastrofi naturali hanno un’origine antropica. L’estrazione di risorse rare, il consumo di energie fossili, l’emissione di gas serra, l’inquinamento industriale e lo scarico di rifiuti sono le cause sociali della distruzione della biosfera. Le cause antropiche della catastrofe climatica costituiscono il suo momento tragico, ma sono anche ciò che ci costringe a regolare le nostre pratiche per preservare le condizioni di vita della specie umana e delle altre specie. Per necessità, l’ecologia diventa il principio di organizzazione politica del mondo contemporaneo. Bisogna tener conto dell’attività degli esseri naturali e dei loro effetti sul mondo sociale. In altre parole, le forze naturali non sono solo delle forze produttive: possono anche perturbare il funzionamento normale delle società, come nel caso dei cataclismi o delle intrusioni virali. L’autonomia che la contraddistingue impedisce di considerare la natura come un semplice attore economico. Consapevoli di ciò, non possiamo ignorare che il mondo di ieri, quello che ha visto nascere il comunismo, non è più lo stesso. Il riscaldamento climatico globale non faceva parte delle ipotesi comuniste, e le sue principali teorizzazioni non hanno naturalmente preso in considerazione le strategie per lottare con i nuovi fenomeni che esso porta con sé.

 

La seconda ragione che fa dubitare dell’attualità del comunismo riguarda l’esperienza del “socialismo reale”. È indiscutibile che, dai tempi della fine dell’Unione Sovietica, il comunismo non si è fatto un’ottima pubblicità. Ciò è dovuto al divenire autoritario dei governi socialisti e alla sconfitta storica del progetto rivoluzionario in Russia. I vinti hanno raramente l’opportunità di scrivere la storia a loro favore. Ma possiamo anche mettere in luce un secondo limite essenziale delle esperienze comuniste realizzate su una scala imponente: la loro incapacità a gestire gli effetti ecologici catastrofici dei dispositivi tecnici che hanno generato. Emblematica è l’esplosione della centrale nucleare “Lenin” nella città di Černobyl’, il 26 aprile 1986. Nell’era termonucleare, le catastrofi non sono solo affare di fantascienza: sono legate alla minaccia permanente incarnata dalle apparecchiature tecniche la cui potenza è sempre sul punto di sfuggire al nostro controllo. Con Černobyl’ si inaugura un “nuovo regime climatico” delle catastrofi globali, di fronte al quale il socialismo reale sembra privo di strumenti. O peggio ancora: fondata sulla fede progressista nello sviluppo illimitato delle forze della produzione industriale, l’Unione Sovietica avrebbe contribuito al proprio crollo. Veniamo qui al limite ecologico di un certo comunismo: l’ideale produttivista.

 

È innegabile che esista una corrente produttivista in seno al marxismo. A partire da alcuni testi di Marx e Engels, si è addirittura trasformata in un autentico dogma delle mega-macchine statali (russe e cinesi, in particolare) che lo hanno messo in pratica. A questo proposito, il produttivismo non incarna soltanto una formulazione tra le altre del progetto socialista. È da due secoli lo spazio teorico e politico privilegiato grazie al quale il movimento comunista ha potuto definire i problemi del mondo contemporaneo. Per questo motivo, la discussione strategica dei testi ereditati dalla tradizione svolge un ruolo fondatore nel marxismo: permette di comprendere l’attualità della lotta di classe alla luce di un’analisi concreta del presente. Ma conduce anche a forme di dogmatismo che traducono l’autorità della lettera in giustificazione incontestabile di uno spirito politico reazionario. Dominante, nel periodo produttivista, è allora l’idea che il progresso della produzione corrisponda a un progresso dell’emancipazione.

 

Da un punto di vista generale, il produttivismo rinvia all’idea che il benessere umano dipenda dalla nostra capacità di produrre sempre più cose materiali e immateriali, al fine di rispondere ai desideri imperiosi di individui insaziabili[4]. In sintesi: più le società dominano tecnicamente la natura, più gli individui si liberano del peso del lavoro. Questa assimilazione tra dominio della natura e liberazione dal lavoro non è però specifica del comunismo. Si tratta piuttosto di un tropo tipico del modernismo, che si trova già in Cartesio o Bacone. La specificità del produttivismo marxista risiede, invece, nell’idea che lo sviluppo delle forze produttive capitaliste generi le condizioni della rivoluzione comunista. In effetti, nella più celebre esposizione della dottrina del materialismo storico, la storia è il risultato necessario della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione[5]. Le prime sono l’insieme dei mezzi (naturali, tecnici, scientifici, sociali) dei quali una società dispone per appropriarsi e trasformare il mondo materiale. I secondi designano le forme d’organizzazione della produzione, cioè il tipo di rapporti che diversi gruppi di una società intrattengono tra loro per appropriarsi della natura, organizzare il lavoro e distribuire la ricchezza prodotta.

 

Nelle sue versioni più volgari, il materialismo storico ha talvolta veicolato l’idea che l’apparizione di nuove forze di produzione sconvolga meccanicamente l’ordine anteriore, producendo una rivoluzione nei rapporti sociali. Se le forze capitaliste sono spinte al parossismo, allora entrano necessariamente in contraddizione con le condizioni che le hanno viste nascere. Questo produttivismo economico riposa, ancora una volta, su una filosofia della storia ottimista, secondo la quale esiste un progresso necessario della razionalità, che si incarna appunto nelle forze della produzione. Nella misura in cui materializzano nel progresso della scienza, queste non possono che essere il segno annunciatore dell’emancipazione sociale. Conoscendo i risultati ecologici della fase storica produttivista, non possiamo che essere scettici rispetto a quest’assimilazione del progresso scientifico all’emancipazione sociale.

 

La terza ragione per dubitare dell’attualità del comunismo all’epoca del cambiamento climatico è politica. Dall’inizio della modernità, i movimenti ecologisti hanno fatto proprie fonti diverse dal marxismo. Dal socialismo utopico di Fourier all’ecologia sociale d Bookchin, passando per il romanticismo anti-industriale di Morris o per l’anarchismo cristiano di Ellul e Charbonneau, le ecologie radicali hanno frequentato un corpus teorico variegato, ma senza dubbio influenzato più dall’immaginario anarchico che da quello comunista. Tutto ciò in un contesto di lotta contro l’inquinamento, di scioperi ecofemministi, di reinvenzioni del modo di abitare il territorio, di ecologie queer, di fronti climatici e antinucleari, di rivolte contadine che non hanno atteso nessun intellettuale per organizzarsi. Se le ecologie politiche e i comunismi operai hanno eredità relativamente eterogenee, ciò è dovuto al fatto che le principali organizzazioni socialiste hanno sottoscritto il programma del produttivismo, escludendo a priori la possibilità di un’alleanza tattica con le lotte ambientali. E soprattutto, al fatto che queste storie erano riferite a mondi che, pur senza escludersi completamente, si ignoravano reciprocamente e seguivano la loro strada, verso destini differenti. Questi mondi erano incastonati nella struttura spaziale del capitale.

 

Il capitalismo si basa infatti su una divisione territoriale del lavoro che autorizza l’accumulazione di valore tramite la concentrazione sempre crescente della manodopera nei centri urbani. La riproduzione allargata del capitale presuppone dunque una certa “produzione dello spazio” [6] : le terre colonizzate sono a disposizione dell’appropriazione estrattivista diretta verso i centri imperialisti, dove il valore è prodotto attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato. Lo spazio urbano concentra la maggior parte della popolazione produttiva, in opposizione alle campagne disertate e ridotte al rango di fonti di merci agricole necessarie alla riproduzione della forza-lavoro urbana. Questa divisione territoriale del lavoro capitalista ha prodotto una scissione ambientale delle lotte rivoluzionarie, che sono state costruite su abitudini, pratiche, discorsi e desideri sensibilmente differenti. Il comunismo si è rivolto al mondo operaio urbano che l’ha visto nascere; l’ecologismo si è invece legato ai mondi rurali e contadini. In contatto costante con le macchine nei grandi centri metropolitani, si è allora sognato che le masse potessero prendere il controllo delle fabbriche e del potere politico. Lontani dalle città, si è al contrario confidato nella possibilità di reinventare delle forme di vita collettive meno alienate dalle condizioni naturali dell’esistenza umana. Quest’opposizione è senza dubbio caricaturale, ma esprime almeno una parte di verità. Le speranze rivoluzionarie nascono anche dai desideri insoddisfatti del passato. E in questo senso, le eredità del comunismo e dell’ecologia sono relativamente eterogenee. Mentre il primo è attento ai modi di produrre la ricchezza e ha per obiettivo l’abolizione dello sfruttamento del lavoro, il secondo cerca di escogitare dei modi differenti di abitare la Terra e ha per obiettivo di limitare la distruzione della biosfera. Ciononostante, queste due strategie non sono incompatibili. Un indice storico della loro convergenza possibile è l’intreccio dei mondi urbani e rurali, la cui separazione non è mai stata impermeabile. Da un lato, il mondo agricolo è divenuto interamente dipendente dalla produzione industriale per le sue macchine, i suoi input e i suoi output. Dall’altro, la vita sociale è rimasta troppo legata alle condizioni naturali della riproduzione perché il mondo urbano potesse completamente ignorare il mondo rurale, dai soviet contadini ai giardini operai. Uno degli obiettivi di questo libro è proprio di mostrare che l’ecologia politica non potrà aver successo senza assumere l’orizzonte del comunismo: il libero sviluppo degli individui grazie all’abolizione delle condizioni materiali della sofferenza, cominciando dallo sfruttamento del lavoro (salariato, forzato o domestico). Ma quest’obiettivo deve ormai essere ripensato alla luce di una strategia ecologista, rispetto alla quale il movimento comunista è spesso stato indifferente. Perché l’esaurimento delle risorse, il consumo delle energie fossili e l’inquinamento degli ecosistemi sono i presupposti materiali della ricerca del profitto: nessuna accumulazione di valore senza uno sfruttamento del lavoro che distrugge sempre più i suoi stessi milieux.

 

Questo libro difende dunque una tesi contro-intuitiva: la catastrofe ecologica non allontana lo spettro del comunismo, ma convoca al contrario la sua presenza. È vero che, per divenire ecologista, il comunismo deve sbarazzarsi dei suoi orpelli produttivisti, che deve trovar spazio in un mondo surriscaldato, facendo propria la dimensione utopica delle comuni rurali. Ma se si accetta di riattualizzare il suo significato storico, il comunismo apparirà come la “politica cosmica”[7] dell’Antropocene. Certo, possiamo trovare ridicola l’idea di una politica “cosmica”. Ed è tuttavia innegabile che l’ecologia prende in considerazione degli esseri “non-umani”, tutta una galassia di realtà nuove per la politica. Lottare contro la distruzione della biosfera, per il mantenimento dell’ozonosfera in uno stato decente, per la preservazione delle specie che possono ancora essere salvate, o ancora per il controllo della circolazione di un virus; ebbene, tutto ciò implica di prendere in conto degli interessi politici diversi da quelli dell’umano. Ormai, la politica deve anche essere condotta in funzione degli esseri che non agiscono attraverso la parola. La valorizzazione dei loro interessi (l’interesse delle api per la sopravvivenza, ad esempio) significa anche rispettare i nostri stessi interessi (la possibilità della impollinazione, dunque della produzione agricola). Come mostrato dalla crisi sanitaria che stiamo vivendo, generata dall’intrusione del Covid-19 nell’ecosistema mondiale, è nel nostro interesse che i milieux dei pipistrelli, una delle principali riserve virologiche della biodiversità, non siano minacciati dall’attività umana.[8] E vale la stessa cosa per il permafrost, le foreste vergini, gli ambienti umidi, e tanto altro ancora. Ma le loro maniere di intervenire nella realtà politica sono molto diverse dalle nostre. Da soli, non si organizzeranno in partito, non istituiranno dei soviet, non produrranno rivoluzioni. Fondare un comunismo ecologico presuppone allora di comprendere qual è l’agency propria del vivente.

 

Questa tesi – il comunismo deve diventare ecologista – resterebbe però incompleta se non fosse accompagnata dal suo corollario: l’ecologia politica non sarà veramente rivoluzionaria se non a condizione di diventare comunista. Questa proposta contro-intuitiva mobilita il vocabolario apparentemente desueto del marxismo. Giustificare questa scelta implica di sapere che cosa dobbiamo davvero ereditare dal comunismo.

 

Note

 

[1] Jean-Baptiste Fressoz, L’Apocalypse joyeuse. Une histoire du risque technologique, Le Seuil, Paris 2012, p. 148.

[2] Isabelle Stengers, Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient, La Découverte, Paris 2013, p.49 [Il testo è disponibile anche in italiano, con trad. a cura di N. Manghi : cfr. I. Stengers, Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire, Rosenberg & Sellier, Torino 2021].

[3] Ibid., p. 55.

[4] Serge Audier, L’Âge productiviste. Hégémonie prométhéenne, brèches et alternatives écologiques, La Découverte, Paris 2019, p. 60.

[5] Karx Marx, Prefazione, in Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, 1859, disponibile online: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1859/criticaep/prefazione.htm.

[6] Si veda Henri Lefebvre, La production de l’espace, Anthropos, Paris 2000, trad. it. a cura di L. Ricci, La produzione dello spazio, Pgreco, Roma 2018.

[7] Eduardo Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales : lignes d’anthropologie post-structurale, trad. a cura di Oiara Bonilla, Paris, Presses universitaires de France, 2009, p. 25 [trad. it. a cura di M. Galzigna e L. Liberale, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, ombre corte, Verona 2017].

[8] Sul rapporto tra Covid-19 e distruzione degli habitat dei pipistrelli attraverso la deforestazione, si rimanda in particolare a Andreas Malm, Corona, climate, chronic emergency : war communism in the twenty-first century, Verso, London 2020 [trad. it. a cura di V. Ostuni, Clima corona capitalismo. Perché le tre cose vanno insieme e che cosa dobbiamo fare per uscirne, Ponte alle grazie, Firenze 2021].

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