[È stato pubblicato in queste settimane il saggio La poesia, ancora? di Gian Mario Villalta, edito da Mimesis Editore. Si pubblica qui un estratto dai primi capitoli del volume.]

 

 

di Gian Mario Villalta

 

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  È possibile che la posizione di assoluto dominio ottenuta dall’umanità sulle altre specie viventi nell’ultimo secolo di permanenza sulla terra abbia lanciato l’umanità stessa in una traiettoria di mutamento troppo veloce per il difficile equilibrio di razionalità e istinto raggiunto nel frattempo. E la potenza del vivente, nella micidialità occulta del virus, ci ha precipitati nell’incubo di una nuova schiavitù all’invisibile. Troppo grande è stata forse l’accelerazione tecnologica, così da incidere sull’esistenza in quanto corpo, memoria e comunità, e farci perdere quel profondo legame tra il nostro essere umani e la lingua che ci ha sospinto fin qui.

  È questo il filo che più tenacemente percorre le pagine che seguiranno, e che anima la questione che vorrei porre: se nella lingua si stringe il nodo tra la formazione del senso della vita e i suoi valori, personali e comuni, quanto ciò dovrebbe importare per la poesia? E quanto dovrebbe importare la poesia per la vita?

  La poesia, così come l’ho conosciuta fin da bambino, è sempre stata la prima nella contesa e l’ultima a lasciare il campo di questo confronto. Questo significa promessa, serietà, dono: alle due parole che imperano oggi, ovvero emozione e comunicazione, è forse possibile contrapporre seriamente percezione e attenzione, nella loro più ampia semantica, che conduce da un lato a interrogare noi stessi dentro la “percezione del mondo” con il quale corrispondiamo e dall’altro alla considerazione delle acquisizioni che riguardano le radici biologiche del pensare. E’ vero che la creatività è caratteristica propria di ogni essere umano, e non solo è universalmente produttiva, bensì dilaga oggi in molteplici forme di intrattenimento e di condivisione sociale dello spazio comunicativo (reale o virtuale). Nella molteplicità dei nuovi mezzi rispetto agli antichi, rimane però fermo un dato di continuità: la differenza tra “giocare con le parole” e fare poesia c’è, e c’è sempre stata, non si creda a chi dice il contrario. Resta il fatto che, come per ogni virtuoso circolo di comprensione, ciò diviene chiaro solo quando si è fatta la strada necessaria per capirlo – breve o lunga che sia – e nessuno può percorrerla al posto di un altro.

 

La società dei poeti morti

 

   Prof. Keating: I poeti estinti erano dediti “a succhiare il midollo stesso della vita”. È una frase di Thoreau che ripetevamo all’inizio di ogni riunione. Ci incontravamo dentro la grotta indiana e leggevamo brani di Thoreau, Whitman, Shelley, i migliori, ma anche dei versi nostri, e nell’incanto del momento, il suono della poesia diventava magico.

   Knox: Cioè, un gruppo di ragazzi seduti a leggere poesie?   

   Prof. Keating: No, non eravamo solo dei ‘ragazzi’. Eravamo un circolo ellenico, eravamo dei romantici e non le leggevamo le poesie, ne assaporavamo sulla lingua la… la dolcezza. Lo spirito si elevava, le donne svenivano, ed era così che nuovi dèi nascevano. Era un bel modo per passare la serata.

 

   Il dialogo che ho riportato in esergo appartiene al film del 1989 di Peter Weir tradotto in Italia con il titolo L’attimo fuggente. Il titolo originale, Dead Poets Society, suonava forse non agevole da commerciare in Italia, e infatti è molto meno esotico della traduzione che ne è stata fatta nei dialoghi, che è “La setta dei poeti estinti”.

  In traduzione letterale, La società dei poeti morti fa un effetto diverso. Il titolo italiano infatti, edulcorato e fuorviante, anche nel riferimento a Orazio Odi, I, 11, è responsabile a mio avviso di un’ipoteca interpretativa che nuoce all’opera.

  Quando si parla di poesia, però, si agitano sentimenti sublimi e consensi immediati, come in questo caso, concedendo senza riserve che essa appaia quasi come il motore segreto del mondo.

  Ma più sincero appare il giovane allievo Knox, che chiede deluso: “Cioè, un gruppo di ragazzi seduti a leggere poesie?”, e credo rappresenti il più normale e forse anche logico atteggiamento da parte di chi non ha avuto la possibilità di un vero accesso alla parola poetica.

  Il prof. Keating, in questo dialogo, esprime in via indiretta quello che la pellicola pone in atto: la poesia è un’iniziazione, una sosta sulla linea d’ombra della vita e detta il passo che l’attraversa, però comporta un’adesione non di facciata. Avrà infatti conseguenze, non tutte felici. Lo stesso professore, va notato, racconta qualcosa che mette in luce un forte contrasto tra il vitalismo implicito nell’intento di “succhiare il midollo stesso della vita” – la citazione da Thoreau che egli dice ripetuta a ogni inizio di riunione – e la denominazione del gruppo, La società dei poeti morti, appunto.

  La ragione di questa scelta, La società dei poeti morti, quale nome per un gruppo di studenti sospinti dal vento della giovinezza, non viene mai chiarita. Questo è interessante. Si potrebbe azzardare che i poeti morti, come indica la risposta del professore alla domanda dell’allievo Knox, sono anche coloro che, con la loro parola, spezzano il cattivo incantesimo che incatena agli obblighi e ai valori imposti del presente, per aprire a una dimensione umana più vasta e più libera, piena di differenze e di possibile. I poeti sono morti, ma la loro parola è viva proprio perché porta un altro tempo, che fa schiudere il presente come un fiore, dal quale emana una dolcezza che allora, dice Keating, “assaporavamo sulla lingua”. E lo dice con un’esitazione significativa, che vale pure a indicare il territorio dell’indicibile. Il tempo e la lingua sono consanguinei, ne è testimone la memoria, e una breve riflessione sulla narrazione storica e sulla traduzione ci darebbe una prima testimonianza. In un romanzo, in un film, o una serie attuale collocati nei tempi passati, tutto è passibile di un “effetto di verità”, a cominciare dagli insediamenti umani, per passare agli arredi, agli abiti, e per finire con le bevande e i cibi; ma se i protagonisti parlassero nella lingua del loro tempo tutto ci apparirebbe falso, difficile e intellettualistico. D’altra parte, la traduzione di un capolavoro della lingua invecchia fino al punto, a volte, di diventare più difficile per la fruizione di quanto sia distante il  capolavoro che traduce. E pur conoscendo come si scriveva in Italia secoli or sono, non ha senso riportare indietro nel tempo la lingua con la quale si traduce un capolavoro del ‘500 o del ‘700: mentre la traduzione che oggi è compiuta invecchierà presto, il capolavoro scritto secoli fa ci parlerà ancora.

   D’altra parte, la passione del prof. Keating per la poesia, che è teorica e pratica, non lo induce però a portare ai suoi alunni un solo componimento di un riconosciuto autore loro contemporaneo. E anche questo è interessante, perché tocca un’attitudine che riscontriamo nelle nostre scuole e vediamo diffusa nell’opinione comune.

  Più di una volta mi è accaduto di incontrare un certo stupore in alcune persone, giovanissime oppure distanti dal mondo letterario, nell’apprendere che nel nostro tempo c’erano ancora dei poeti, ovvero che ci fossero dei “poeti vivi”. Non credo di essere stato l’unico, se alcuni anni fa il poeta laureato statunitense Billy Collins mise al centro del suo compito istituzionale, cioè promuovere la poesia, l’informare i suoi concittadini – e in particolare gli istituti scolastici – sulla presenza di poeti attualmente in vita sul territorio nazionale.

  È vero che la parentela tra la moda e la morte, già ben illustrata da Giacomo Leopardi, vuole che proprio per salvarsi dalla morte (come autore) il poeta abbia fortuna artistica oltre la sua vita (e le mode che può aver ossequiato).

  Forse, però, vi è qualcosa di più, che riguarda l’origine stessa della parola poetica, il legame tra la lingua e l’espressione compiuta in forma di poesia.

È qualcosa che ci fa sentire meno dura la locuzione La società dei poeti morti, e riguarda la comunanza tra i vivi e i morti, la loro universale appartenenza in un altrove, che è quello della lingua, e ancora di più della lingua nella poesia, dove la voce viva del poeta deve estinguersi per diventare la voce del poema.

  La forma del poema, cioè del componimento poetico, in quanto opera d’arte, è tale da accogliere la voce del poeta e trasformarla in un’altra voce, quella dell’opera, che il fruitore fa sua, a sua volta, ma non può assimilare del tutto alla propria.

  Perdendo la sua propria voce viva e componendo la voce del poema, il poeta si mette in cammino verso un luogo che è, nella lingua, non più soltanto suo, non più soltanto presente.

  Ritrovremo questo nodo alla fine di un non breve e non rettilineo itinerario che vorrebbe fornire gli elementi necessari alla riflessione per dare credito, ancora, alla poesia.

  La poesia, nel suo legame con la lingua e con la radice stessa della creatività umana – ci tenevo a dirlo – è davvero il  motore segreto del mondo.

 

 

Il motivo

 

   Avviene di frequente che qualcuno chieda se è arte o non è arte, se è poesia o non è poesia l’opera che in varie forme (tra queste c’è il libro, la pagina scritta) è presente agli occhi o alla memoria di due o più interlocutori. E ancora più spesso la domanda rimane sottintesa e ciò che affiora riguarda il giudizio: è vera arte, è vera poesia? O ancora: è “buona” poesia, ovvero: ha un valore?

  Verrebbe subito da citare Montale e ricordare l’indisponibilità di una “formula che mondi possa aprirti”. Nei mondi si trova una via, una salita, una piazza, un sentiero, forse anche un deserto. E ci si incammina.

  Questa ossessione del valore tradisce l’avidità consumistica del voler afferrare e passare oltre, nonché la triste rinuncia a concedere all’arte uno spazio autentico di interrogazione della propria vita. Catalogare, mettere il cartellino del valore (e, in un certo senso, del prezzo), rassicura e mette l’opera in pari con il resto del nostro mondo.

  Tradisce però soprattuto un disorientamento. La quantità di “arte” che perviene all’esperienza quotidiana è tale e talmente eterogenea che permette solo inquadramenti o gerarchie relazionali, parametri differenziali: l’esperienza quotidiana è invasa da sollecitazioni e oggetti che richiedono una risposta estetica.

  Tra gli innumerevoli possibili punti di partenza per affrontare questa troppo grande questione, è preferibile quello che ci permette di eludere l’obbligo di una definizione e ci porta al cuore della domanda: che cosa muove il fare umano nell’intenzione dell’arte e che cosa risponde nel fruitore, muovendosi a sua volta in relazione al fare che questa intenzione pone in atto, ovvero a sostare sul motivo proprio dell’arte?

  Le emozioni, certo, hanno permesso agli esseri umani, per millenni, di sopravvivere. Ora sopravviviamo nella speranza di provare emozioni. A volte premeditate, ricercate con intenzione, addirittura pagate a caro prezzo. E di certo quelle emozioni che ci imponevano la fuga dal pericolo o la compassione per la madre nel lontano passato della vita primitiva, non sono le stesse che cerchiamo oggi, né allo stesso modo si intessono alle nostre conoscenze e ai nostri comportamenti. Esse sono ancora oggi alla radice della lingua, questo sì, del suo apprendimento e del suo legame costante con il nostro corpo-psiche, ma sono anche da millenni legate con le trasformazioni avvenute nella percezione del mondo, nella capacità di attenzione, e con quella parte della percezione e dell’attenzione che è coinvolta fin dall’origine con l’opera d’arte.

  La formula che verrà ripetuta: “l’opera d’arte ha origine nell’ambito del suo proprio farsi, che determina il divenire artista di chi la compie così come il divenire artista è la condizione del compiere l’opera”, è definitoria solo in apparenza. Chiama infatti alla radice dell’esistenza, al tempo della vita, al luogo stesso del vivere, al corpo che sta nel tempo, al tempo che condividiamo con l’esistente, che ci accoglie e ci offre un “ambiente” altrettanto fondamentale quanto quello ecologico, sociale e culturale. Poiché un “ambiente-arte”, in qualche forma e spesso in forme diverse, lo conosciamo da sempre, da prima ancora che la nostra memoria infantile ci consegni un preciso ricordo.

  Tale constatazione chiama a considerare la relazione profonda che collega l’intero corpo al fiorire nel tempo del “senso delle forme”. Quel senso delle forme che proviene dall’operare alla corrispondenza tra la percezione del mondo e la realtà della materia. La materia terrestre che non è un “oggetto” inerte e disponibile, ma appartiene a sua volta al tempo e alla realtà che si trasforma. La mente riconosce il suo formarsi e il suo corrispondere con il corpo, l’occhio, la mano, in un fare che è nel tempo e del tempo, e che non impone alla materia (la vera materia della poesia è la lingua) uno schema, una volontà già compiuta, ma nel suo fare si pone in cammino (con il corpo, l’occhio, la mano) per ricevere quelle sollecitazioni che indicano al fare quale via consente all’artista (al poeta) di riconoscersi nella propria opera, di diventare poeta. Questo “essere in cammino” riguarda le doti, l’abilità, la conoscenza della materia, come riguarda l’etica, il mondo interiore e l’inconscio.

  Non una definizione, quindi, o una serie di procedure, ma un salto nella dimensione più propria del fare dell’opera, perché pone in primo piano quel fare che è altro dall’agire, quel tempo e quella materia che permettono all’artista di comporre l’opera mentre ne riceve gli effetti e mette in prova la resistenza e la disponibilità dei suoi strumenti e della stessa materia dell’operare.

 

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[…] Nur wahre Hände schreiben wahre Gedichte. Ich sehe keinen prinzipiellen Unterschied zwischen Händedruck und Gedicht. Man komme uns hier nicht mit “poiein” und dergleichen. Das bedeutete, mitsamt seinen Nähen und Fernen, wohl etwas anderes als in seinem heutigen Kontext. Gewiss, es gibt Exerzitien – im geistigen Sinne -, lieber Hans Bender! Und daneben gibt es eben, an jeder lyrischen Strassenecke, das Herumexperimentieren mit dem sogenannten Wortmaterial.

Gedichte, das sind auch Geschenke – Geschenke an die Aufmerksamen. Schicksal mitführende Geschenke.

 

[…] Soltanto mani autentiche possono scrivere poesie autentiche. Io non vedo nessuna differenza sostanziale tra una stretta di mano e una poesia. E non ci si venga a parlare di “poiein” e altre cose del genere. Perché ciò significava, con tutte le sue vicinanze e distanze, qualcosa di completamente diverso rispetto al suo attuale contesto. Esistono certamente degli esercizi – in senso spirituale – caro Hans Bender! E, in relazione ad essi, esiste ad ogni angolo di strada la sperimentazione senza limiti con il cosiddetto materiale linguistico. Le poesie sono altresì dei doni – doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino”.

 

  Ho riportato la parte centrale e la più citata della lettera di Paul Celan a Hans Bender, datata Parigi, 18 maggio 1960[1].

  Martin Heidegger non è simpatico, a volte è stato considerato ridicolo e ha saputo di certo, come nel caso dei Quaderni neri, rivelare almeno un aspetto opaco del suo pensiero che impone la necessità di sanare il senso della parola “terra” nella funzione semantica sostanziale e ricorrente adempiuta nelle sue opere[2].

  L’incontro tra Paul Celan e Martin Heidegger il 25 luglio 1967 a Todtnauberg, e la decifrabile poesia che Celan scrisse il giorno dopo[3], è ormai parte della storia della cultura del Novecento, in uno dei suoi fuochi più aridi, dal quale ancora oggi viene un riverbero di braci ardenti.

  È assai copiosa la letteratura, su uno e l’altro autore, e anche su questo incontro.

  Quello che qui importa è che Paul Celan ha letto Heidegger, e dalla lettera a Hans Bender risulta con evidenza che ha letto e meditato l’intervento che apre la raccolta di saggi Holzwege, intitolato L’origine dell’opera d’arte[4].

  Quello che importa è che, alla luce di tutto ciò che si può ragionevolmente supporre, c’è un motivo in quel saggio di Heidegger che Celan non ignora, e che ancora oggi chiama.

  È qualcosa che viene da Celan soltanto accennato, quando allude ai discorsi sulla poesia che trova in circolazione, e che Heidegger coinvolge nel proprio scrivere in modo diverso, portando l’espressione sul limite delle più vaste implicazioni possibili.

  Riassumiamo quanto più conta: l’opera d’arte ha origine nel suo proprio farsi, che determina il divenire artista di chi la compie così come il divenire artista è la condizione del compiere l’opera. Non un circolo vizioso, ma una circolazione dell’agire e del senso che fa dell’opera un evento nel tempo e del tempo. E questo evento concerne una dimensione nella quale i sensi e la materia con la quale l’opera viene a comporsi intrecciano nuove corrispondenze.

  In nome di una certa brevità, che mi tocca disattendere, ci si potrebbe fermare qui.

  È innegabile che c’è già sostanza abbondante. Ma né Heidegger né Celan possono procedere da questo punto di partenza, né possono ritornarci, senza aver affrontato, ognuno in modo diverso, un fatto certo: c’è già l’arte, c’è già la poesia, e nell’aspetto più evidente corrispondono a una parte portante della cultura, in determinate forme e con individuabili vicende in luoghi e tempi differenti.

  Quindi, o l’arte è l’insieme di tutto quello che è stato ed è considerato arte nelle opere tramandate e attuali, e allora è faccenda di conoscitori e di esperti, nonché di emozioni e di vicende personali, oppure, se vi è un principio unificatore, che riguarda l’uomo nel suo proprio fondamentale modo d’essere, a quale di queste opere e tradizioni appellarsi? Già che sono troppe le diversità: sul piano della cultura non vi è modo di unificarle. E, naturalmente, la “storia dell’arte” o la “storia della poesia” sono una proiezione di valori del presente che si rafforzano imponendo un ordine al passato. Con questo non si escludono acquisizioni importanti per la conoscenza, ma siamo su un altro piano.

  Sia Celan, in modo sbrigativo: “E non ci si venga a parlare di ‘poiein’ e altre cose del genere”, quanto Heidegger, con ampie volute che ricapitolano diverse vie di avvicinamento, ricusano la soluzione genealogica. In altre parole, derivare per mezzo della filologia (e della filosofia da essa sollecitata) l’originario significato dell’arte presso i Greci – e il suo successivo movimento di senso – non risolve il problema, ma lo complica, perché tutto quello che è accaduto dopo ha reso inattingibile tale (vero?) senso dell’arte per questa via.

  L’origine dell’opera d’arte, per Heidegger come per Celan, non è nella sua antica sorgente greca, ma è nella relazione tra chi operando all’opera diventa artista e l’opera che, facendo di lui un artista, si compie. È qualcosa che è antichissimo e presente, è l’uomo esposto alle forme dell’esistente che opera alla forma allegorica della sua esistenza in un processo di autocomprensione.

  Allora, però, tutta la storia dell’arte e della poesia che cos’è? E la perizia dell’artista, l’artigianalità, il saper fare, non contanto? E il dono, avere il dono e far dono? Contano, invece, dicono entrambi gli autori, ma non è questo, non può essere questo il vero motivo, ovvero – da movēre – cio che è atto a far sì che avvenga un cambiamento essenziale nella relazione tra l’ordine del discorso e la manifestazione di una forma. Il motivo, dunque, inteso come l’impulso che  mette in moto, né più sola potenza, né ancora atto, ma movimento che fa muovere, che mette nel cuore di quel fare che opera entro una forma[5].

  Scorciando molto, forse troppo i passaggi, riassumo: non è rivolgendoci alla tradizione del cosiddetto “sistema delle arti”, né elucubrando distinzioni tra arti “belle” e “minori”, neppure distinguendo tra arte e artigianato che potremo cogliere il motivo. Anche se potessimo risalire all’individuazione della prima opera d’arte che l’uomo ha compiuto e indagare le sue ragioni e le sue operazioni non si arriverebbe a nulla. L’arte, la poesia, abbiamo detto, è nel tempo e del tempo, ha sempre un adesso che nessuna certezza dell’allora ci illustrerebbe. Inoltre, troppo vario, differente, è il novero di ciò che è stato e anche oggi viene detto arte. Non solo nella forma delle opere, nei loro segni e simboli, ma nei modi della fruizione e della comparazione, nelle funzioni private e pubbliche del loro coesistere nella vita.

  Rivolgiamoci proprio alla vita, allora, e registriamo il fatto che incontriamo l’arte già dai nostri primi anni di vita; chiamiamola dunque “esperienza”: possiamo considerare l’esperienza estetica, quindi, e comprendere come si forma un “orizzonte di comprensione”, e individuare pure un “orizzonte d’attesa”, così come ci orientiamo rispetto alle sollecitazioni della comunicazione dell’arte. Le teorie della cosiddetta Scuola di Costanza (i principali rappresentanti sono stati Hans Robert Jauss e Wolgang Iser) puntano in questa direzione.  Però in questo caso ci portiamo dal lato del fruitore, ci sbilanciamo su un solo versante, che è senz’altro anche quello dell’artista, ma che non distingue artista da fruitore e privilegia quest’ultimo. C’è in noi operante una “risposta estetica”, infatti, che si organizza fin dalla prima infanzia e aumenta di complessità con l’istruzione, le occasioni individuali e (perché no?) la passione.

  A questo proposito c’è anche un altro argomento da non trascurare: la cosiddetta “estetizzazione” dell’esistenza. Ciò non riguarda solo il fatto che l’attualità ci vede “consumatori” costanti di esperienze estetiche, ma anche l’aumento tecnologico della produzione materiale e la conseguente relazione estetica con ogni oggetto dell’esperienza.

  Si potrebbe dire che oggi scegliamo il pane che compriamo anche perché è un bel pane. Non che il pane sia stato più brutto nei secoli passati, ma era il pane, quel pane che il fornaio cuoceva in ogni posto così come era tramandato: oggi in panetteria o al supermercato troviamo decine di forme e qualità di pane che vengono da tradizioni di regioni e di nazioni disparate. E vige il refrain dell’“innovazione (nella tradizione)”. Oggi abbiamo uno “stile di vita” che ha diverse componenti estetiche, e ci fa scegliere quel pane. Insomma, sto parlando non solo della moda (e delle mode, al plurale), ma di un evento che collega l’estetizzazione della vita alla produzione industriale e all’accorciarsi delle distanze sulla terra, e quindi mi riferisco alla storia che vede affermarsi, con l’esplodere della moderna industria a fine ‘800, l’Arts and Crafts di William Morris e le diverse declinazioni europee dell’Art Nouveau con tutti i loro diversi nomi, e più tardi l’Industrial Design e ciò che segue fino a oggi, e che fa di ogni strumento d’uso, oggetto, “cosa”, compresi gli animali, le piante e i sassi, un complemento del nostro “stile di vita”. Una cultura dell’arte che non ci avvicina al motivo, anzi, lo rende sempre più sfuggente.

  Un’alternativa sarebbe decidere (con quale criterio?) quali sono le opere che senza dubbio diciamo essere arte e cominciare a riflettere su che cosa fanno muovere in noi. Questo potrebbe aiutarci a individuare un aspetto del motivo. Ma questa o quell’opera non si è fatta da sola, non come un sasso, o un tramonto. Non è stata fatta come un coltello, d’altra parte, o uno smart phone, che pure possiamo trovare brutti o bellissimi.

  Tentiamo un’ultima ipotesi: se è l’artista che fa l’arte, proviamo allora a comprendere che cosa differenzia una donna, o un uomo, che non è un artista da uno che lo è. La creatività? Dal giardinaggio alla cucina, dall’arredamento al selfie con lo smartphone, c’è creatività ovunque. È spesso è una creatività che perlopiù si gestisce con un “tutorial”. Per quanto riguarda l’arte della parola, c’è più creatività nel furibondo messaggiare globale di un solo giorno che in tutta la letteratura europea. E non voglio neppure accennare all’ipotesi che la creatività provenga da qualche malattia o disagio del corpo e/o della mente (risponde già la statistica: quanti giovani affetti da una grave malattia delle ossa hanno scritto L’infinito? Quanti stavano in un manicomio quando Dino Campana venne rinchiuso?).

  C’è l’alternativa del diavolo, giunti ai limiti della disperazione: quando qualcuno riesce a convincere qualcun altro che quello che fa è arte, allora è arte – oppure: è arte tutto ciò che sorprende la nostra abituale percezione del mondo e deautomatizza i nostri processi di interpretazione.

  Certo che così, mi occorresse scegliere una ipotesi o l’altra, sarei in ogni caso in grado di trovare un perché a ogni fare arte. E anche al non fare. Un uomo si presenta sulla pedana con un violino, non suona, non fa niente per una buona ora, poi fa un inchino e se ne va. Una performance. Quello che non ha fatto detta il senso del suo fare. Torniamo all’esperienza estetica, alle attese e alle sorprese, ma non ci avviciniamo di più al motivo. E soprattutto veniamo alla confusione tra arte e comunicazione, dove la parola confusione può assumere i perturbanti segni di un “fondersi insieme” oppure diventare la disarmante ammissione di non essere più in grado di distinguere l’una dall’altra.

 

  Assumo il peso della presunzione di avere capito almeno in parte che cosa intendevano Heidegger e Celan: il motivo che opera dentro il movimento che è all’origine dell’opera d’arte non è nella psicologia dell’artista o nei dati formali esteriori dell’opera, né lo troviamo negli usi sociali della sua fruizione o dell’interpretazione, perché l’originario non viene inteso qui come un primo evento, né come pre-condizione dell’evento, bensì come il movimento sorgivo che lega il fare, il percepire e il pensare alle forme dell’esistente.

  La differenza tra Celan e Heidegger viene allora in evidenza: il tempo dell’artista e dell’opera, il loro essere nel tempo e del tempo, viene da Celan esposto in stretta relazione con il corpo, l’occhio, la mano: quella mano che è anche la mano del fruitore, il suo occhio, il suo corpo. “Io non vedo nessuna differenza sostanziale tra una stretta di mano e una poesia”, scrive Celan. E però dopo aver posto in stretta relazione le mani e le opere: “Soltanto mani veraci possono scrivere poesie veraci”. Veraci, autentiche: wahre Hände/ wahre Gedichte.

  Heidegger si avvicina al corpo, indica in molti modi nel fare e nella temporalità del corpo la relazione con l’essere fatta e la temporalità dell’opera. Ma Heidegger, dal quale Celan si era atteso “la parola ventura di un uomo di pensiero” (auf eines Denkenden/ kommendes/ Wort)[6], non esporrà reciprocamente corpo e pensiero in un legame di necessità. Heidegger è certo che il pensiero possa dire “la cosa stessa” in quanto pensiero, assumendo il corpo nella dimensione del pensiero, senza confrontarsi con la sua irriducibile alterità biologica. E secondo il suo procedere neppure la conoscenza del corpo che viene dalla scienza può “pensare”, poiché la scienza stessa è compromessa dalla sua origine con quella stessa “tecnica” che impedisce al pensiero di dischiudere la sua vera essenza.

  Mentre Celan parla di un cammino sulla terra, la terra di tutti e di tutto ciò che ne costituisce la vita, Heidegger fa della terra un concetto geolocalizzabile e lo recinta per mezzo di contenuti sottaciuti e risolti nella tensione generativa dell’espressione verbale.

  Celan non è un filosofo, perciò punta al cuore del motivo con le parole che accompagnano il cammino della sua poesia. Qui intendere la condizione dell’“essere in cammino” è decisivo, perché non è solo questione di pensiero e di lingua, per Paul Celan, ma propriamente il movimento nel tempo di un corpo che con il pensiero e nella lingua cerca, trova o non trova, subisce offesa, prova speranza, non abbandona il sentiero della felicità neppure quando lo conduce verso il baratro. Dice che rivelarsi a sé nell’opera è trovare una direzione su questo cammino dove egli è anche colui che egli stesso diventa nell’esporsi non a un “altro” in quanto concetto, ma al corpo, alla parola di ogni altro uomo che è, nella concretezza degli eventi o nell’immaginazione, qualcuno in contatto: occhi, mani, parole. E ciò accade più propriamente, in poesia, nella parola, seguendo quello stesso movimento: le parole diventano nomi.

  È una poetica, quella di Celan: vale per la sua arte e per la sua concezione dell’arte. È una poetica che sconfina nel non dicibile biologico dell’esistenza. Heidegger è un filosofo, non intende trasformare il suo pensiero in una poetica, se pure a tratti è potente l’impulso generativo che ne anima l’espressione. E il suo pensiero si avvicina quanto più possibile non tanto a definire quando a circoscrivere, indicare il “luogo” della sorgività del fare in quanto fare arte. È avvincente percorrere e ripercorre il saggio su L’origine dell’opera d’arte: è come seguire il cartografo che disegna le isoipse di un vasto territorio, le colora, ne segnala la composizione geologica, tutto intorno a quel “luogo”, dove psiche, corpo e linguaggio scandiscono la movenza del motivo.

  Ritornando ancora e ancora dalla lettera di Celan al saggio di Heidegger, poi di nuovo alla poesia del 26 luglio 1967, crediamo si possa indovinare qualcosa che ci impegna a considerare il motivo (da movēre: “atto a muovere o essere mosso”) come qualcosa che ha, nella sua parte penetrabile e dicibile, la dinamicità di una corrispondenza e l’energia di un radicamento. È radicato nel corpo e nel tempo, mentre cresce, matura nella relazione tra percezione e linguaggio, nel loro punto di congiunzione e di differenza che è, per la poesia, la lingua. È una verità relazionale, non sostanziale, quella che l’opera d’arte mette in opera, è una ricreazione delle corrispondenze tra i sensi e le forme dell’esistente.

  Quello che ho appena scritto non va certo inteso come una definizione, ma come la direzione di un procedere. Per altre vie.

 

  Una di queste vie riguarda la possibilità di riflettere sul processo psicomotorio che lega corpo e lingua, in piena consapevolezza che si tratta di un percorso avventuroso nella comprensione di alcuni caratteri antropogenetici e della loro vicenda evolutiva. Le acquisizioni della ricerca neuroscientifica ci portano a constatare che: “Le sequenze e i collegamenti che si hanno nel pensiero comportano l’attività delle regioni motorie della corteccia; tuttavia, la corteccia motoria stessa non invia segnali ai motoneuroni del midollo spinale o dei muscoli”, scrive Edelman[7]. Il legame non più ricusabile tra il pensiero e la lingua, non astrattamente intesa, ma al vivo della dinamica dell’espressione, trova qui un punto decisivo: tutto il corpo è implicato nel movimento del pensiero, nel vivo del voler dire, e questo movimento comporta un’attività “motoria” che non comunica direttamente con gli organi di movimento del corpo, ma agisce trasformando quegli impulsi in pensiero, inconscio, sogno. Aggiunge Edelman: “Sono convinto che esistano due modalità di pensiero: il riconoscimento di configurazioni e la logica, e ritengo che la modalità originaria, che offre un enorme raggio d’azione quando un individuo affronta le novità, sia il riconoscimento di configurazioni”[8].

  Le “configurazioni” sono correlazioni tra forme, così come la “novità” è un’esitazione, un impulso, uno iato da colmare tra la percezione che viene inquietata, interrogata nelle sue facoltà abituali e la ricomposizione di una logica linguistica e formale, che a volte solo la creazione di una “nuova” configurazione può offrire.

  Un’altra via da percorrere è quella di seguire le oscillazioni e le persistenze del rapporto tra il carattere sorgivo di tale motivo e gli sviluppi tecnologici e comunicativi di maggiore rilievo. Una terza via, che incrocia le altre due, intende tenere ferma l’attenzione sulla lingua e sulla dimensione temporale del suo accadere e della sua vocazione a persistere. Infine ritorneremo alla poesia e all’attestazione della sua presenza e della sua necessità.

 

[1] In Paul Celan, tr. it. La verità della poesia, Einaudi 1993.

[2] A proposito del ridicolo, si può iniziare dalle pagine a lui indirizzate da Thomas Bernhard in Antichi maestri, tr. it. Adelphi, 1992. Invece i Quaderni neri, che Heidegger ha voluto fossero pubblicati solo dopo la sua morte, e che dal 2015 hanno iniziato a presentarsi anche in traduzione italiana presso l’editore Bompiani, hanno sollevato qualche imbarazzo, quando oramai sembrava che la questione del “nazismo” di Heidegger fosse stata messa da parte. L’onda polemica, notevole in Germania, ha dato luogo a più di una discussione anche in Italia. Nei Quaderni neri v’è qualcosa di più esplicito rispetto a quanto già presente nell’opera pubblicata. È la semantica che enfatizza la parola “terra”, soprattutto, e la sua identificazione con altre entità, qual è “popolo”, per esempio, ad assumere una odiosa direzione politica. In tutta l’opera heideggeriana questa parola – terra – si espone in tale insidioso senso: nel saggio L’essenza del linguaggio, (in tr. it. In cammino verso il linguaggio, Mursia, edizione più recente 2014) Heidegger propone un legame quasi “fisiologico” tra la terra(-popolo) e il dialetto, caratterizzato dagli stessi movimenti della bocca nella fonazione, là dove prende spunto dalla parola tedesca Mundarten, adombrando così una visione che Andrea Zanzotto non esitava privatamente a definire “catastale” delle parlate locali, e pubblicamente avvertì: “Egli – Heidegger – idolatra la propria lingua, blocca lo sgomento del senzafondo puntando sulla lingua (propria)”, in Tra ombre e percezioni “fondanti”, frutto di successive riscritture e ora in Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano dal Bianco e Gian Mario Villalta, Mondadori 1999. Ho affrontato questo tema nel quarto capitolo del mio La costanza del vocativo, Lettura della “trilogia” di Andrea Zanzotto,  Guerini e Associati, 1992.

[3] La poesia Todnauberg si trova nell’opera Lichtzwang (Luce coatta), pubblicata tre mesi dopo la morte del poeta; tr. it. in Paul Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Meridiani Mondadori 1998.

[4] Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in tr. it. Sentieri interrotti, La nuova Italia 1968.

[5] Pagine significative su questo argomento, incentrando la riflessione sul rapporto tra potenza e atto, sono state scritte da Giorgio Agamben in Creazione e anarchia, Neri Pozza 2017, nel capitolo Che cos’è l’atto di creazione, già pubblicato in Il fuoco e il racconto, Nottetempo 2014.

[6] Passaggio cruciale della poesia Todnauberg: “Arnica, eufrasia,/ il sorso della fonte con sopra/ il dado stellato, // nella/ malga,// la riga nel libro/ – quali nomi accolse/ prima del mio?-,/ la riga, in quel libro/ inscritta,/ d’una speranza, oggi,/ dentro il cuore,/ per la parola
ventura/ di un uomo di pensiero,// umidi prati silvestri, non spianati,/ orchidee selvatiche, sparsamente,// più tardi, in viaggio, parole crude,/ senza veli,// chi guida, l’uomo,/ che anche lui ascolta,/ percorsi a/ mezzo, i viottoli/ di tronchi sulla torbiera gonfia,// umidore,/ forte”.

[7] Gerald M. Edelman, tr. it. Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Cortina 2007, pag. g 100-101 (mi sono permesso di segnalare in corsivo alcune parole).

        [8] Gerald M. Edelman, cit., pag. 101. Il legame è tra motorietà e lessico, non tra motorietà e strutture sintattiche, come precisa Andrea Moro, (2014). “On the similarity between syntax and actions”. Trends in Cognitive Sciences. 18 (3): 109–10. doi:10.1016/j.tics.2013.11.006PMID 24370077 (2014), e “Response to Pulvermueller: the syntax of actions and other metaphors”. Trends in Cognitive Sciences. 18 (5): 221. doi:10.1016/j.tics.2014.01.012PMID 24593981. (2014).

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