di Matteo Residori

 

            [Una versione ridotta di questo discorso è stata pronunciata il 10 dicembre 2021 all’Università Statale di Milano, nell’ambito del Convegno dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura, in occasione della consegna del premio di laurea dedicato alla memoria di Paolo Zanotti (1971-2012), di cui Ponte alle Grazie ha da poco pubblicato il romanzo Trovate Ortensia!]

 

            Una delle ragioni per cui è difficile parlare di Paolo Zanotti per chi l’ha conosciuto bene è che, ogni volta che si è tentati dall’enfasi o dal pathos, tornano in mente gli sguardi comicamente esasperati e gli sbuffi iperbolici con cui Paolo – che era anche un grandissimo mimo – commentava silenziosamente tutte le affermazioni che gli sembravano pretenziose o sopra le righe. La ferrea disciplina dell’understatement Paolo la applicava prima di tutto a sé stesso, e una delle sue espressioni più inconfondibili era lo ehm che punteggiava molte sue frasi parlate o scritte, circondandole di una specie di nebbiolina iridescente fatta d’imbarazzo, ironia, gusto della precisione, delicatezza morale. Ritrovare questi ehm nella prosa di Paolo è stata una delle grandi gioie della lettura di Trovate Ortensia!, il romanzo appena pubblicato da Ponte alle Grazie. E per rompere il ghiaccio non resisto alla tentazione di citarvene un esempio dal formidabile Glossario essenziale di vernacolo pisano che si trova alla fine del romanzo. Si tratta della definizione della voce Mugolone, una delle più brevi: «Mugolone : ehm, fellatio» (p. 484).

            Quando ho accettato l’invito di Lucilla e Renato Zanotti a parlare stasera non sapevo che Trovate Ortensia! sarebbe stato pubblicato poco prima della consegna annuale del premio dedicato a Paolo. L’uscita del libro facilita un po’ il compito di chi, come me, non è ancora riuscito, a quasi dieci anni dalla scomparsa di Paolo, a trovare la forza di parlare di lui in pubblico. Il modo migliore di impiegare il prossimo quarto d’ora sarebbe infatti limitarsi a leggere ad alta voce, con qualche breve commento, un’antologia di passi di Trovate Ortensia!. Chi ha avuto la fortuna di leggere il romanzo mentre Paolo lo andava scrivendo, nella seconda metà degli anni novanta, e lo rilegge adesso in forma di libro stampato di quasi cinquecento pagine non può che essere impressionato dall’evidenza oggettiva delle sue qualità. Prima di tutto la bellezza strepitosa dello stile, uno stile fluido, duttile, cangiante, ora sontuosamente letterario ora dinoccolato, gergale, fumettistico – per il quale sarebbe facile citare i modelli di Stevenson, Calvino e soprattutto Nabokov, ma che è sempre assolutamente, inconfondibilmente zanottiano. C’è poi la coerenza strutturale di un’opera che all’epoca, leggendola per frammenti, un po’ su schermo un po’ su carta, poteva sembrare un collage di pezzi di bravura e che oggi rivela invece un’ambizione totalizzante, la volontà di abbracciare tutto un mondo con tutte le risorse formali disponibili. La terza qualità che mi colpisce rileggendo Ortensia è appunto il fatto che in questo libro Paolo ha messo tutto sé stesso ma anche in un certo senso tutti i suoi libri futuri: è un libro corale sull’amicizia e sull’amore, come Il Testamento Disney (pubblicato postumo nel 2013); il ritratto esatto e allucinato di una città, in cui Pisa ha il ruolo che altrove avrà Genova; un libro insieme avventuroso e sinistro sull’infanzia, o meglio sulla sua persistenza spettrale nel mondo adulto, come Bambini bonsai (2010); un libro che, come tutti i successivi, gioca con i generi e i codici letterari, mescola alto e basso (qui, tra altre mescolanze, Shakespeare e il Vernacoliere), non per vezzo postmoderno ma perché è il modo meno inadeguato per raccapezzarsi in quel viluppo incoerente di reale e immaginario che sono le nostre vite.

            Trovate Ortensia! ha insomma tutte le qualità per parlare da solo, per imporre autonomamente la sua presenza e la sua vitalità a un pubblico di lettori che continua ad allargarsi con l’edizione postuma degli inediti di Paolo. Soprattutto, nonostante gli oltre vent’anni trascorsi dalla sua stesura, è un romanzo che conserva miracolosamente intatta non direi la sua attualità (perché di scrivere libri “attuali” Paolo non si è mai davvero curato), ma la sua capacità di parlarci – con voce insieme ironica e visionaria, intima e profetica – di noi e del nostro mondo, tra attese apocalittiche, derealizzazione sistematica della realtà, senso diffuso di ristagno generazionale. Al tempo stesso, però, a chi ha conosciuto Paolo negli anni novanta la lettura del romanzo non può non rievocare anche una moltitudine di esperienze condivise, conversazioni, passeggiate, letture, speranze, e quindi farci sentire, direi, contemporaneamente meno soli e più soli – perché ci fa ritrovare provvisoriamente quello che abbiamo perduto e insieme ci fa misurare quanto abbiamo definitivamente perduto. Mi perdonerete allora se, invece di proporvi una lettura del romanzo, mi trattengo per un po’ in questa zona spuria, ibrida, intermedia in cui lettura del romanzo e ricordo personale non sono facili da distinguere.

            La prima esperienza condivisa a cui penso leggendo Trovate Ortensia! è quella della città. Non credo di essere l’unico amico di Paolo ad associare il suo ricordo a quello delle interminabili passeggiate fatte con lui a Pisa e in altre città italiane, al punto che ricordarmi di lui significa in genere rivedere paesaggi urbani in movimento commentati dal brusio della sua voce al mio fianco. Nel romanzo la città è Pisa, rappresentata con precisione topografica (soprattutto nel suo quarto nord-est, tra piazza della Berlina, piazza Santa Caterina, piazza delle Gondole, ponte della Fortezza), percorsa dai movimenti tendenzialmente circolari dei personaggi, ma anche esplorata nella sua stratificazione storica e simbolica – porto senza mare, città imperiale costruita attorno a un cimitero, luogo di esilio dei poeti romantici inglesi, e in particolare di Shelley, la cui casa semidistrutta sul lungarno ospita il nucleo “gotico” del romanzo. La topografia familiare è infatti propizia all’emergere del perturbante, soprattutto attorno all’Arno, fiume immobile come il tempo del romanzo, luogo di presenze insieme vernacolari e inquietanti come l’alga detta «paperina» e i temibili «tarponi».

            Ma Pisa è soprattutto il terreno di esplorazione ideale di un romanziere-etnografo che trascrive leggende metropolitane, barzellette, scritte sui muri, colorite bestemmie, truci pettegolezzi, brani di cazzeggio dialogato, espressioni dialettali o gergali – gli stessi materiali linguistici di cui erano pieni i racconti estasiati di Paolo quando tornava dalle sue passeggiate in città o dai suoi cappuccini al bar. Qui si esprime un aspetto della personalità di Paolo che è forse meno presente nei suoi altri libri, l’interesse per il dialetto, innanzitutto quello dei suoi genitori e dei suoi nonni, ma in genere tutti i dialetti, il napoletano di Basile, il friulano di Pasolini, il veneto di Biagio Marin… Un interesse che non implicava, in lui, un culto delle origini ma piuttosto l’apprezzamento per certe forme di spontaneità linguistica e di creatività idiomatica. In effetti, nel romanzo, questo modo di parlare è l’espressione tipica di un modo di essere che consiste, direi, nell’abitare con naturalezza la propria lingua e insieme il proprio corpo, il proprio sesso, la propria epoca. Credo che questo modo di essere fosse per Paolo – come per molti di noi allora – una forma di alterità radicale, o di conquista difficile e precaria, e che proprio questo spieghi perché i protagonisti del romanzo sono per lo più giovani maschi in carne dalla sessualità abbondante e a-problematica – più  o meno il contrario, insomma, dei giovani protagonisti di quasi tutti i racconti di Paolo, riuniti nel 2017 nel volume L’originale di Giorgia. Trovate Ortensia! è indubbiamente, tra i romanzi di Paolo, il più estroverso, il più carnale, il più erotico e anche il più generazionale, il più ricco di riferimenti precisamente databili. In questo senso è difficile per me non vederci il riflesso del gesto energico e programmatico con cui, verso la metà degli anni novanta, Paolo ha per così dire scelto la vita e la giovinezza, si è buttato a corpo perduto nel presente e nella città.

            Chi ha conosciuto Paolo in quegli anni sa che ruolo abbia svolto in quella fase il teatro, come attività concreta ma anche come universo mentale. E infatti al centro della topografia pisana del romanzo c’è il Sant’Andrea, la chiesa romanica trasformata in teatro dove Paolo ha seguito corsi e partecipato a vari spettacoli. Ma la presenza del teatro nel romanzo è molto più pervasiva, prima di tutto attraverso la diffusa stilizzazione shakespeariana del racconto, che dà un colore fantastico e farsesco alle notti brave dei giovani pisani, nobilita le chiacchiere tra anziani vicini in dialoghi tra orgogliosi sovrani, trasforma i bisticci tra innamorati in una commedia degli equivoci con tanto di fanciulle travestite e scambi tra gemelli. Non si tratta però solo di un brillante pastiche manieristico ma di una strategia coerente col senso profondo della riscrittura di Shakespeare, e in particolare del Racconto d’inverno, che dà forma a gran parte del romanzo ed emerge esplicitamente nell’episodio finale. Qui Paolo scrittore e Paolo studioso di letteratura si incontrano come forse in nessun altro dei suoi romanzi.  A «dare un senso a quei pastrocchioni sovrannaturali che sono gli ultimi drammi di Shakespeare» (Trovate Ortensia!, p. 210) è infatti l’interpretazione di Northrop Frye, che Paolo conosceva bene e che riprende anche nel libretto sul Modo romanzesco, uscito nel 1998 per Laterza, proprio all’epoca della stesura del romanzo. Frye legge questi drammi appunto come romances, racconti magici e avventurosi che annullano la linearità irreversibile della vita nel tempo ciclico delle stagioni. E l’evento che regala un inaspettato lieto fine al Racconto d’inverno – la scoperta che Ermione, creduta morta da sedici anni, è in realtà viva – offre una soluzione leggera ed euforica al problema bruciante che occupa il centro del romanzo di Paolo: l’impossibilità di accettare che i morti siano davvero morti.

            Ermione risorge di nuovo nella messinscena un po’ abborracciata del dramma di Shakespeare che è raccontata verso la fine di Trovate Ortensia!. Ma nel resto del libro il romance può esistere solo in una versione avariata, disforica, come romanzo gotico, racconto fantastico alla Hoffmann, storia di vampiri, torbido manga. I personaggi shakespeariani di Ermione e Perdita, la madre risorta e la figlia ritrovata, rivivono, certo, in quelli di Arabella e Ortensia: ma solo a prezzo di un’operazione necrofila orrorosa degna di Frankenstein (e non a caso ambientata nella casa pisana di Shelley). Più in generale la presenza ubiqua di Ortensia e l’attrazione tanto irresistibile quanto letale che esercita su tutti i personaggi rappresentano l’ombra lunga proiettata dalla morte sulla vita: la morte di una moglie amata, di una donna uccisa per errore, di una madre o una sorellina perduta, del bambino che ognuno di noi è stato e non è più. Come sapete, il titolo del romanzo è tratto dalla conclusione enigmatica di una delle Illuminations di Rimbaud, il poème en prose intitolato H («Trouvez Hortense»). Chi è Ortensia? La soluzione dell’enigma è diversa per ognuno dei personaggi che si lanciano sulle tracce del personaggio, ma l’esito prevalentemente funesto di tali quêtes ci suggerisce l’inscindibilità tra desiderio e rimorso, tra attrazione erotica, senso di colpa e mortifere nostalgie di purezza. La forza impressionante del romanzo sta proprio nel contrasto tra euforia vitalistica del romance giovanile pisano e fascino velenoso del romanzo nero, anzi nel continuo trascolorare dell’uno nell’altro, nell’ambiguo sovrapporsi di primavera e inverno che è fin dalla prima pagina il dato climatico dominante nel racconto.

            Il lato vitale del romance prevale comunque in Trovate Ortensia!, che come tutti i veri romances non ne vuole sapere di finire, moltiplica i personaggi e le aperture narrative, differisce il più possibile la conclusione e quando proprio deve finire lo fa con un Antefatto genovese (pp. 469-474) che suona come l’inizio di un nuovo romanzo, tutto vibrante di possibilità e di futuro. Ed è vero che in molte pagine del libro, e sono tra le più belle, l’ombra proiettata dalla morte sulla vita non appare minacciosa né subdolamente attraente ma piuttosto dolce e protettiva. Penso in particolare a quelle dedicate al piccolo Francesco Paolo e alla sua misteriosa compagna, nelle quali la presenza quieta dei morti si confonde con l’immaginazione che anima le letture e i giochi dell’infanzia:

 

            Nel giardino dei rosai addormentati, chiuso da un muro basso ma inesorabile, Francesco Paolo, tranquillo e rotondo come un piccolo principe, sfoglia un libro illustrato sul Madagascar. Da una quinta invisibile, in un angolo, appare una ragazzina che, sottile come un’amica immaginaria, potrebbe avere ogni età; percorre il giardino linearmente, in diagonale, seguendo un sentierino di pietre tracciate in mezzo all’erba secca. Esattamente al centro del giardino, la ragazza si accorge di Francesco Paolo, gli si siede accanto, si mette a guardare il libro insieme a lui. Perché gli spettri ti possiedano non c’è bisogno di una stanza, non c’è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi che vanno oltre lo spazio materiale. Le pagine si sollevano lentamente, s’impennano e poi ricadono dalla parte opposta del libro, un pappagallo dai colori lancinanti segue all’inquietudine di un lemure (che sono moltissimi in Madagascar, spiega il libro). L’aria dolcemente smossa, intanto, va a vivificare il giardino, che si addensa di animali dai nomi strani, e la ricca vegetazione del Madagascar occidentale s’intreccia alle lingue dei camaleonti. Sopra gli strati inferiori della lotta per la vita – dove i frutti esplodono, la terra cova e spuntano i denti dei coccodrilli – volteggiano ibis, fenicotteri e il profumo del sandalo. (Trovate Ortensia!, pp. 95-96)

 

Va detto poi che il finale di questo romanzo che non vuole finire mette in scena, sotto il segno di una rivisitazione semi-parodica del mito New Age dell’Era dell’Acquario, una grandiosa rimpatriata tra vivi e morti, un’effimera resurrezione di massa che restituisce un corpo ai fantasmi ordinari delle nostre vite, ripopolando le stanze deserte delle case, riallacciando conversazioni interrotte, rimettendo sulla nostra strada i compagni scomparsi di lontane passeggiate. Nel romanzo, il pathos di questa fantasticheria compensatoria è tenuto a debita distanza dall’ironia di un narratore che esibisce l’inverosimiglianza e l’arbitrarietà della sua trovata – come altrove, in un capitolo divertentissimo, inscena la tentazione romanzesca di abusare dei mezzi della «giustizia poetica» e della «fallacia patetica» (pp. 134-136). L’ironia non ci protegge, invece, dalle molte resurrezioni di un altro genere che il romanzo riserva a chi ha conosciuto Paolo. Tra vari esempi possibili vi leggerò, per concludere, una pagina un po’ defilata, quella in cui è descritta la camera studentesca del personaggio di Giacomo:

 

            Era una libreria di quelle economiche e apparentemente traballanti dell’Ikea, a fianco della finestra. Non era fornitissima, ma abbastanza coerente. C’erano le memorie di Casanova nella traduzione di Piero Chiara. C’era – due volte: anche in francese – il Cirano di Rostand. C’era Jacques il fatalista di Diderot, e la Certosa di Parma. C’erano un po’ dei romanzi di Angelica la marchesa degli angeli recuperati sulle bancarelle di ‘Pisa a braccia aperte’. C’era qualche Dumas interfoliato, Spirite, biografie di Mozart fino alle pessime, i racconti di Kleist, il Diavolo innamorato di Cazotte. C’erano il Barone rampante, il Candido, l’Isola del Tesoro, il Giovane Holden, le poesie di Caproni (che benché livornese è santo della patria) e quelle di Gozzano, Montale, Shelley a 4.000 lire e Rimbaud. C’erano i Sade della Newton Compton, Barbero, Pasolini, Tabucchi, Bigongiali, una discreta raccolta di Dylan Dog e di manga, i trattati di arte flautistica di J. J. Quantz (mai letti) e un po’ di altre cose stile Io sono ok tu sei ok e Tutto il pane del mondo. In fondo in fondo, ereditato da un compagno di studi, Il regno della fallocrazia in Grecia e, incastrate tra i numeri di Amadeus (messi col dorso leggibile, quelli), alcune copie di Blue, Selen e altre riviste da leggere con una mano sola.

            La stanza era spoglia, il letto sfatto. Di fronte al letto, di fianco alla porta, su un armadio bianco spiccava, appeso a mezz’aria, un montgomery blu dagli alamari in plastica verosimile avvolto in una sciarpa viola: aveva vita propria. Al centro della stanza c’era un leggio di metallo con la Partita in la minore di Bach disperatamente annotata in blu. Il flauto era sulla scrivania. Accanto al flauto c’era un posacenere colmo di cicche di diana rosse e, aperto, il quaderno intitolato a ‘Bisogni consapevoli e sogni lontani’. (Trovate Ortensia!, pp. 45-46)

 

Giacomo è forse il personaggio in cui Paolo ha messo più di sé stesso, e quindi anche il più esposto alla sua ironia. L’ironia non manca, in effetti, nella descrizione della libreria di Giacomo, in cui si riconoscono vari modelli del romanzo, elencati in allegro disordine ma riconducibili a una coerenza profonda di cui proprio il romanzo è la dimostrazione. Dopo un breve stacco, però, l’allegretto della lista lascia il posto a un ritmo più lento, a una tonalità più grave. Nella stanza vuota gli oggetti abbandonati – montgomery, sciarpa, flauto, posacenere – sono le tracce di una presenza inconfondibile e i segni di un’assenza che suona già definitiva, come se Paolo, così sensibile alle permeabilità tra vita e morte, evocasse la sua giovinezza con uno sguardo già postumo.

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