di Federico Bertoni
[E’ da poco uscito per Il Saggiatore l’epistolario di Italo Svevo, a cura di Simone Ticciati. Pubblichiamo un estratto del saggio di Federico Bertoni che accompagna il volume].
Per Mario Lavagetto, nel tempo che ritorna.
Una vita che pare un guazzabuglio
Uno dei romanzi più sofisticati di Don DeLillo, Mao ii, narra la storia di uno scrittore che ha portato alle estreme conseguenze il progetto di Stephen Dedalus nel Ritratto dell’artista da giovane di Joyce: ritirarsi da tutto per dedicare la vita all’arte, difeso da tre uniche armi: «il silenzio, l’esilio, la scaltrezza».1 L’ha fatto in modo così radicale da chiudersi in una solitudine cupa e autodistruttiva, autorecluso in una località inaccessibile come «un capo terrorista nel suo ritiro segreto sulle montagne».2 Sulle copertine dei suoi libri c’è scritto Bill Gray, pseudonimo di Willard Skansey Jr. Lavora in una sorta di bunker, un seminterrato con le finestre a oblò schermate da stoffa scura: «Questo era il luogo santo, il libro segreto, lunghe file di fogli di carta extra strong sepolti in una cantina sulle colline brulle».3 È così che cerca di sfuggire al cinismo dei media, alla curiosità sconcia dei lettori, alla logica implacabile della società dello spettacolo che trasforma in merce ciò che nasce dal rovello segreto dell’individuo, dalla sua solitudine e dal suo dolore, se è vero che i veri libri, come diceva Proust, sono figli «non della piena luce e delle chiacchiere, ma dell’oscurità e del silenzio».4
In realtà, quando inizia la storia, Bill ha deciso di concedere l’immagine del suo volto a Brita Nilsson, una fotografa specializzata in ritratti di scrittori «che viaggiava compulsivamente per fotografare l’ignoto, l’inaccessibile».5 Eccola in un breve scambio di battute con la giovanissima compagna di Bill: «Ti dirò la verità, Karen. A me non interessa la fotografia. Mi interessano gli scrittori». E Karen: «Allora perché non te ne stai a casa a leggere?».6 Era stata peraltro la stessa Brita, in una scena precedente, a interrogarsi sulla misteriosa interferenza tra l’uomo e l’opera:
Che importanza ha una fotografia, mi chiedo, se uno conosce l’opera dello scrittore? Non so. Però la gente vuole l’immagine, no? La faccia dello scrittore è la superficie dell’opera, è un indizio per il mistero che c’è dentro. Oppure il mistero è nella faccia?7
È una vicenda istruttiva per accostarsi a un ebreo triestino di origini italo-tedesche (o forse italo-ungheresi) che all’anagrafe faceva Aron detto Hector Schmitz, poi italianizzato in Ettore Schmitz, quindi trascritto nel nom de plume con cui è annoverato tra i massimi scrittori del Novecento, Italo Svevo (ma nei manoscritti si è firmato anche Erode, Ettore Samigli, E. Muranese…). Difficile identificare il suo vero volto in questo gioco di pseudonimi e travestimenti, e difficile soprattutto capire se esiste, un vero volto. In una lettera del 7 giugno 1913, Svevo riferisce alla moglie le ricerche compiute dal futuro genero, Antonio Fonda, per accertare a quale corpo elettorale appartenesse:
Antonio Fonda mi scrisse che non sono notato in nessun luogo. Non ammise probabilmente ch’io sia Aron. Si trova ancora nell’età in cui tutti gli sembrano cristiani. Farò poi del mio meglio per cancellare l’Aron dalle liste elettorali e l’Italo Svevo dalla Guida. Ho veramente una vita che pare un guazzabuglio.8
«Ettore Schmitz | detto Italo Svevo»,9 come si firma in una lettera alla moglie, avrebbe potuto recitare a meraviglia nei racconti sulla vita letteraria di Henry James, soprattutto in quell’esemplare parabola sul mistero della creazione artistica che Mario Lavagetto ha ricordato spesso nei suoi studi, La vita privata. Qui, un celebre scrittore inglese ospite di un albergo svizzero, Clare Vawdrey, esibisce agli ammiratori «l’enigma della sua accurata, ciarliera, festosa e sconcertante banalità, del suo essere perfettamente conforme alle regole e mimetizzato al punto da non combaciare affatto con la propria opera».10 L’enigma si chiarisce quando il narratore del racconto entra nella stanza dello scrittore a prendere un manoscritto: mentre il Vawdrey reale è rimasto sulla terrazza dell’hotel a chiacchierare, un altro Vawdrey, quello vero, «era chino sul tavolo in atto di scrivere», in un radicale sdoppiamento tra l’artista e la sua controfigura mondana che il narratore cercherà di illustrare a un’amica: «Uno esce e l’altro sta in casa. Uno è il genio, l’altro il borghese, e noi non conosciamo personalmente che il borghese, quello che parla, va in giro, è terribilmente popolare, vi fa la corte».11 È una vicenda – continua Lavagetto – che adombra una delle grandi mitologie critiche della modernità, e che può trovare la sua «formula filosofica» nella distinzione di Henri Bergson tra un «io di superficie» e un «io profondo»:
c’è dunque un io di superficie (un io parassitario) a cui si contrappone un io profondo, che affiora solo sporadicamente: […] Vawdrey si è sdoppiato e il suo fantasma si aggira tra le montagne e le sale di una pensione svizzera, mentre il suo moi de profondeur conduce una esistenza segregata e continua a scrivere.12
Su questa antitesi, alcuni anni dopo, Marcel Proust edificherà la sua critica al metodo biografico di Sainte-Beuve e il basamento di quella gigantesca, onnivora, spericolata architettura romanzesca che è la Recherche,13 nella convinzione che «un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi», quell’«io profondo […] rimasto in attesa mentre c’intrattenevamo con gli altri, che sentiamo chiaramente esser l’unico reale, e per il quale soltanto gli artisti finiscono col vivere».14
Teniamo a mente queste parabole e torniamo a Svevo, che tra l’altro annota in un frammento: «Un letterato sa sempre di essere composto di due persone».15 Poco dopo la sua morte, sulla Fiera Letteraria del 23 settembre 1928 esce un «Ultimo addio» firmato da Eugenio Montale.16 Due giorni dopo Bobi Bazlen scrive a Montale:
ho paura che il Tuo articolo si presti troppo ad essere interpretato male, ed a far sorgere la leggenda d’uno Svevo borghese intelligente, colto, comprensivo, buon critico, psicologo chiaroveggente nella vita, ecc. Non aveva che genio: nient’altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto.
Non aveva che genio, ed è questo che mi rende più affascinante il suo ricordo. […] la leggenda della «nobile esistenza» (dedicata unicamente – ad eccezione dei tre romanzi – a far soldi) è troppo penosa, e troppo ignobile.
Gli ho voluto – malgré tout – molto bene, come non ne ho voluto che a poche persone.17
Montale, un po’ piccato, replica su Solaria nella primavera del 1929 e riprende alcuni brani della lettera, attribuendola a un «ignoto». Ma se neutralizza il giudizio impietoso (e probabilmente ingiusto) di Bazlen, di fatto continua a muoversi entro lo stesso paradigma critico, molto simile a quello che abbiamo visto in James e in Proust:
Se in Italo Svevo coesistettero due uomini, uno dei quali fu grande e si salverà, è ben giusto che in confronto a questo secondo Svevo, l’altro uomo, l’uomo qualunque, quel commerciante Schmitz che fornì la materia ai romanzi di Italo Svevo, si mostri nel ricordo di alcuni suoi vecchi conoscenti nella luce di una verità tanto quotidiana da apparirci ormai falsa e consunta. La verità che vincerà il tempo, anche stavolta, sarà quella della poesia.18
Evidentemente stiamo girando intorno alle domande che fin dall’inizio hanno ossessionato critici e lettori: chi era realmente Svevo (o Schmitz)? Qual è il nesso tra scrittura e biografia?19 Quali sono gli snodi, i compromessi, le intercapedini tra l’uomo e l’opera, tra l’esperienza vissuta e l’invenzione letteraria? A suo tempo, forse consapevole dei rischi, soprattutto con un romanzo scritto in prima persona, lo stesso Svevo aveva fornito a Montale una definizione della Coscienza di Zeno tanto ineccepibile quanto elusiva, «un’autobiografia e non la mia»:
Ci misi tre anni a scriverlo nei miei ritagli di tempo. E procedetti così: Quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria avventura è una ricostruzione che facilmente diventa una costruzione nuova del tutto quando si riesce a porla in un’atmosfera nuova. E non perde perciò il sapore e il valore del ricordo, e neppure la sua mestizia. Io sono sicuro che Lei m’intende.20
Probabilmente Svevo avrebbe sottoscritto la formula che Albert Thibaudet mette a punto in una pagina di grande intelligenza critica, molto amata da Giacomo Debenedetti e dallo stesso Lavagetto:
Il romanziere autentico crea i suoi personaggi con le direzioni infinite della sua vita possibile, il romanziere fasullo li crea con la linea unica della sua vita reale. Il vero romanzo è come un’autobiografia del possibile. […] Se [i romanzieri] prendono a soggetto della loro opera l’esperienza reale, essa si riduce in cenere, diventa un fantasma sotto la mano che la tocca. […] Il genio del romanzo fa vivere il possibile, non fa rivivere il reale.21
Le cose però si complicano quando l’oggetto non è il romanzo ma la lettera, e soprattutto la lettera familiare, cioè un testo dallo statuto ibrido, in bilico tra pubblico e privato, che non è più vita (in quanto scrittura) ma non ancora letteratura, che raccoglie i detriti inerti e pulviscolari dell’esistenza quotidiana, con il suo carico di muta irrilevanza. E dunque, per rilanciare con nuove domande: dove si colloca l’epistolario di Svevo nella complessa diffrazione tra uomo e scrittore, borghese e genio, io superficiale e io profondo? Dobbiamo trattarlo come una fonte storica o come un’altra autobiografia del possibile? Quale volto vediamo affiorare dalle centinaia di lettere che lo compongono? Ne esce davvero «un efficace ritratto dello Svevo», come scriveva Bruno Maier nell’introduzione all’edizione del 1966? Addirittura «il marito teneramente innamorato e sollecitamente affettuoso, l’uomo cordiale e affabile, sullo sfondo della vita familiare»?22 Oppure il solito centauro beffardo e imprendibile che abita tutta la sua opera, una creatura ibrida in cui convergono diverse lingue, origini, identità, culture, visioni del mondo, che non cessa di fingersi e travestirsi, che si consegna alle maschere del dover-essere perché l’essere, in quanto tale, non è dicibile?
Per rispondere cerchiamo intanto di capire come è fatto il libro, attentamente curato da Simone Ticciati in questa nuova edizione, che colma grandi attese23 e aggiunge un tassello fondamentale all’imponente lavoro di restituzione filologica avviato con l’edizione critica di Tutte le opere di Italo Svevo, diretta da Mario Lavagetto per i «Meridiani» Mondadori nel 2004.24
Istruzioni per l’uso
Il corpus epistolare di Svevo attualmente reperito copre un arco cronologico di circa quarantaquattro anni. Le prime, sporadiche lettere ai fratelli sono del 1885-1886 mentre l’ultima, alla figlia Letizia, è datata 1º settembre 1928, dodici giorni prima della morte. Come qualunque epistolario non è ovviamente un’opera nel vero senso del termine, perché non risponde a un progetto d’autore e assembla una congerie di scritti eterogenei per estensione, contenuto e registro espressivo. Anche se Svevo dedicava grande cura alla scrittura epistolare, tanto da pattuire con la moglie l’impegno a rileggere insieme le lettere,25 sono testi dallo statuto effimero ed estemporaneo, non destinati alla pubblicazione, spesso sovraccarichi di notizie minute o indicazioni pratiche, una fonte preziosa per ricostruire la biografia di Svevo ma inevitabilmente lacunosa e discontinua. Oltre al materiale andato perduto, la cui consistenza è difficilmente stimabile, ci troviamo di fronte a masse testuali ben poco omogenee, molto dense in alcuni periodi (soprattutto quando Svevo è in viaggio per lavoro e scrive alla moglie quasi tutti i giorni) e in altri diradate, o addirittura assenti (come nei cruciali anni 1915-1921, di cui abbiamo solo una decina di lettere).
Altra anomalia, che rende difficile stilare una lista di istruzioni per l’uso del libro: quello di Svevo non è un epistolario da scrittore: il blocco principale delle lettere, tra il 1895 e il 1922, istituisce un dialogo privato con un destinatario pressoché esclusivo, la moglie Livia Veneziani, un’interlocutrice mancata in termini di dialogo culturale e possibile confronto sul lavoro letterario. Questo spiega perché il libro non possa che deludere chi vada in cerca di riscontri sull’opera e sulla poetica sveviane, come solitamente avviene con le lettere degli scrittori (si pensi a Flaubert, a Proust, a Virginia Woolf). Ma Svevo, appunto, non era uno scrittore come gli altri, da nessun punto di vista: le centinaia di lettere scritte alla moglie negli anni del cosiddetto «silenzio»26 sono estremamente avare di indicazioni su letture, serate a teatro, riflessioni sulla letteratura o giudizi su altri scrittori. Anche l’atmosfera culturale di quella «città italiana cosmopolita» che era allora Trieste,27 l’amicizia con il pittore Umberto Veruda, la frequentazione di intellettuali forse non supremi (Attilio Hortis, Giuseppe Caprin, Riccardo Pitteri, Cesare Rossi, Silvio Benco, Ferdinando Pasini) ma capaci di «formare quello che si dice un ambiente letterario»,28 lasciano pochissime tracce nelle pagine delle Lettere, come se il matrimonio nel 1896, l’ingresso nella ditta Veneziani nel 1899 e l’impegno a diventare un serio uomo d’affari avessero imposto a Svevo di congedare una volta per tutte la giovinezza, le speranze artistiche e le passioni intellettuali, non solo sulla scena pubblica della letteratura ma anche su quella privata della comunicazione epistolare. Sintomatica la scarsità di riferimenti diretti alla stesura o all’esistenza stessa delle sue opere, che si contano davvero sulle dita della mano: un accenno a Una vita,29 un paio a Senilità,30 niente sulla Coscienza di Zeno, un’allusione al racconto Lo specifico del Dottor Menghi,31 qualche rimando ai testi teatrali e in particolare a una «commediola» scritta nel giugno del 1901 durante un viaggio di lavoro in Francia, per la quale Svevo raccomanda a Livia un assoluto riserbo: «Non dirlo ai tuoi genitori»; «Non raccontarlo a nessuno perché è cosa che farebbe ridere i topi: Trovarsi in una città straniera e fare comedie!».32 È l’ennesima riprova che la letteratura, per l’impiegato e poi industriale Ettore Schmitz, è un esercizio radicalmente clandestino, «qualcosa di colpevole e solitario», generatore di testi «scritti ogni volta con la commovente malafede di chi cede a un vizio proibito e ha la coscienza esplicita di violare un contratto».33
Solo dopo il 1925, quando l’autore della Coscienza di Zeno risorge come Lazzaro e si ritrova nei panni di «un uomo quasi celebre»,34 le Lettere cambiano faccia: la vita privata si eclissa, la moglie esce di scena e Svevo comincia a dialogare con nuovi interlocutori, soprattutto quelli che hanno propiziato il suo tardivo e ancora contrastato successo letterario: Eugenio Montale, James Joyce, Giuseppe Prezzolini, Valery Larbaud, Benjamin Crémieux, Marie-Anne Comnène. Sono lettere, diceva Montale, che «potranno forse apparire nella luce di un autoritratto che, modificando di poco un titolo joyciano, io definirei a portrait of an artist as an old man».35 Così articoli, recensioni, elogi e stroncature, le traduzioni della Coscienza, la seconda edizione di Senilità, i racconti degli ultimi anni, il progetto delle continuazioni di Zeno, gli inviti presso istituzioni culturali, i nuovi libri letti (Pea, Comisso, Boine, l’Ulisse di Joyce, la Recherche di Proust) arrivano finalmente a dominare il carteggio del vecchio scrittore, ancora incredulo del suo successo ma già ansioso di consolidarlo e di amministrarlo, come mostrano varie lettere a recensori, traduttori o editori. E qui la struttura stessa delle Lettere, la loro composizione materiale sembra replicare testualmente la scissione di fondo tra Ettore Schmitz e Italo Svevo, protagonisti di due libri molto diversi: prima il lungo, spesso monotono, talvolta ossessivo duetto epistolare con Livia che scandisce la vita del buon borghese, marito, padre di famiglia e uomo d’affari; poi, negli ultimi anni, la partitura polifonica di un vero e proprio carteggio intellettuale in cui registriamo, dall’interno, le reazioni dello stesso protagonista a uno dei più stupefacenti casi letterari del Novecento.36 Proviamo allora a guardare meglio per capire cosa contiene questo strano oggetto.
Note