di Chiara De Caprio
[Il 14 giugno 2021 sul canale youtube di Tic edizioni, nell’ambito dei “Tic Talk” ideati da Emanuele Kraushaar e Michele Zaffarano, Chiara De Caprio, Gilda Policastro e Antonio Sixty hanno presentato, insieme all’autore, Romanzetto estivo di Gherardo Bortolotti. Sono qui pubblicate le analisi e ipotesi presentate e discusse da Chiara De Caprio in quell’occasione].
L’estate, prima o poi, finisce. Ma, indisturbati, certi oggetti “estivi” si depositano nel fondo dei cassetti: finché, dopo alcuni mesi, li ritroviamo. Per un attimo, questo sedimentarsi di oggetti minimi ci dà l’impressione che sia possibile ritornare su un dettaglio che all’estate si lega, e di poter comprenderlo meglio: l’inclinazione di un’onda, il testo di una canzone che scorreva in sottofondo, la sensazione di caldo che avvolgeva il corpo prima dell’oblio del sonno. Si sarebbe tentati di suggerire che qualcosa di analogo accade con Romanzetto estivo di Gherardo Bortolotti (Gherardo Bortolotti, Romanzetto estivo, Roma, Tic Edizioni, 2021), perché, per movimenti sotterranei e progressivi, la sua lettura ci avvicina al qui e ora in cui si manifesta la natura proteiforme e molteplice del desiderio:[1] acceso, nel Romanzetto, da figure femminili dotate di nomi allusivi e tratteggiate in modo che ad ognuna corrisponda una diversa declinazione di una medesima materia erotico-sentimentale; ovvero: di quel «concetto di amore» che porta con sé «aneddoti romantici parzialmente inventati, ricordi imprecisi, rievocazioni ambigue di frasi, sguardi e profumi» (prosa 60).
Romanzetto estivo è un macrotesto costituito da prose numerate in modo progressivo da 47 a 93: quarantasette prose, come quarantasette è il numero assegnato alla prima prosa; e quarantasette erano gli anni di Bortolotti nel 2019, quando — ci dice una nota dell’autore — hanno avuto luogo eventi su cui avrebbe potuto «scrivere un libro e intitolarlo Romanzetto estivo». Con una battuta, si potrebbe osservare che, per entrare nei macrotesti di Bortolotti e cogliere i meccanismi che presiedono al loro funzionamento, bisogna saper fare addizioni e sottrazioni; e bisogna anche riconoscere i pattern e le serie, il gioco fra costanza e variazione che governa il respiro della sintassi, i principi formali su cui poggia la costruzione di un’architettura testuale sghemba, ancipite e, per certi versi, paradossale: nella quale si fronteggiano ordine e dispersione.
Ma rimaniamo per ora sulle soglie del testo. Romanzetto estivo si offre al lettore non solo nel formato maneggevole della collana ChapBooks di Tic e con una copertina su cui si accampa un disegno di Enrico Pantani, ma anche con una serie di materiali paratestuali: una dedica; dei versi di Holderlin in epigrafe; una nota dell’autore che non nega, ma sottolinea l’incidenza del macrotesto e delle sue storie per il nome riportato in copertina; infine, in esergo, una Sad romantic inevitable playlist con le quattordici canzoni citate nel testo (che è possibile ritrovare e ascoltare su youtube, servendosi di un QR code).
Ancora un’osservazione sul paratesto. Sul dorso del libricino e sulla copertina e la quarta, leggiamo un titolo all’apparenza “leggero”: non romanzo, ma romanzetto (con il suffisso –etto a rimarcare quantomeno la scelta di una misura breve); per di più, il romanzetto è qualificato come estivo: forse perché lo si può leggere anche fra le voci e i rumori di una spiaggia? o forse perché ci racconta anche di seduzioni e innamoramenti estivi (per esempio, consumati o sognati ai bordi di una piscina)? o perché, come quegli oggetti cui si faceva cenno in apertura, questo romanzetto ci conduce in un’altra stagione? Come che sia, romanzetto è una scelta lessicale ricca di “istruzioni per l’interpretazione” del macrotesto che designa, soprattutto se la si pone in cortocircuito con un altro termine che occorre più volte nelle prose ed egualmente definisce una forma narrativa in prosa: leggenda.[2]
In effetti, il lessema leggenda può essere usato come grimaldello per guardare dall’interno Romanzetto estivo. Se questo macrotesto in prosa è, allo stesso tempo, un romanzetto e una leggenda, varrà la pena richiamare il fatto che la forma-leggenda chiama in causa il rapporto fra desiderio e realtà: il loro non sovrapporsi e non coincidere. Nella misura in cui Il desiderio è una dimensione del possibile, generativa di mondi ed esperienza, la forma narrativa della leggenda si incarica di raccontare il mondo secondo i nostri desideri, così come fanno, in versi, l’incantamento e lo scongiuro.
In particolare, gli scongiuri hanno due funzioni speculari: evocano la presenza di un elemento positivo lontano (ad esempio, la donna amata), oppure agiscono sulla presenza di un elemento negativo, come la malattia, per allontanarlo. Del resto, è la stessa origine del termine scongiuro (dal verbo CONIURARE, che in latino medievale ha il significato di ‘vincolare’, ‘comandare’) che ci ricorda che si formula uno scongiuro per vincolare una manifestazione del reale al nostro desiderio, oppure per scacciarne un’altra che non si conforma ad esso. Gli scongiuri ci parlano di mancanza e danneggiamento, potremmo dire.[3]
Queste riflessioni sulle forme con cui rendiamo dicibile la mancanza e il danneggiamento sono pertinenti per leggere l’operazione che Bortolotti compie: questo perché Romanzetto estivo elegge a tema proprio il rapporto fra desiderio e realtà; e perché i procedimenti sintattico-testuali con cui è messo in forma di discorso questo rapporto sono dotati di un alone di memorabilità. Insomma, Romanzetto è il racconto di come si costruisce una leggenda privata e di come si media fra desiderio e realtà; ed è un racconto che si affida alla prosa: più esattamente, a una prosa dotata di una trama ritmica riconoscibile e “memorabile”; punteggiata da micro-strutture versali sottotraccia; impastata dei versi delle canzoni citate o alluse.
Ritmo, strutture versali sottotraccia e versi di canzoni sono, dunque, le forme con cui nel testo è convocato ciò che si desidera, è allontanata la malattia, è invocato l’amore. «Please be mine / Share my life / Stay with me / Be my wife» canta, in effetti, David Bowie in una delle quattordici tracce della Sad romantic Inevitable plalylist, richiamata nella prosa 60 («rievocazioni ambigue di frasi, sguardi, profumi che lo scorcio di un parcheggio o l’attacco di Be My Wife innescano»); e, ancora, nella prosa 53 è l’istanza enunciativa stessa a assumere il ritmo concitato di chi impreca, prega e desidera insieme: «Dai, brutta stronza, fai qualcosa, mandami un messaggio, una foto, un emoji con gli occhi a cuore».
In questa prospettiva, l’istanza enunciativa di Romanzetto assume il ruolo discorsivo di mediatore fra desiderio e realtà. Ma se, un tempo, con le leggende e gli scongiuri si poteva parlare all’amore e alla malattia e venire a patti con la forza distruttiva del desiderio (perché al linguaggio si riconosceva una funzione magica), invece, Romanzetto estivo non può che raccontare di scarti e anomalie, senso di disfatta e spreco: del disaccordo fra il mondo e la visione.
Vi è un ulteriore elemento che, però, va messo a fuoco: mentre, sul piano dell’intreccio e delle situazioni narrative, Romanzetto estivo sembra tematizzare soprattutto lo scacco e la minaccia che incombono sulla voce che dice io, le forme sintattiche e i dispositivi testuali delineano, piuttosto, un movimento fra ciò che sfugge e ciò che si riesce a fermare. In effetti, con i suoi pattern e i suoi procedimenti testuali ricorrenti, Romanzetto estivo è anche un’operazione con cui si arginano e rallentano la dispersione e il precipitare: individuando micro-legami temporali e causali fra gli eventi (così da costruire storie e leggende minori, appunto); alternando, nelle singole prose, diversi dispositivi della ripetizione, in modo da prolungare la presenza nel testo di ciò che si è amato o creduto di poter amare; montando le sequenze testuali in un’architettura che pure è governata da variazione e ripetizione, interruzione e continuità.
Leggende e fallimenti, visioni e scacchi, consistenza e consumazione: è questo, dunque, il perimetro entro cui il macrotesto di Bortolotti fa muovere i suoi lettori; e sono questi i grumi di senso che trovano un’esatta resa nella scelta delle parole, nella sintassi, nei dispositivi e nei procedimenti testuali e discorsivi. Proviamo, allora, a vedere più da vicino come lessico, sintassi e testualità si pongano allo stesso tempo al servizio della leggenda e della minaccia di entropia.
Quanto al primo dei due poli, le leggende minori prendono forma attraverso situazioni topiche e un’onomastica femminile che allude ai toponimi delle Città invisibili di Calvino (Armilla, Bauci, Ipazia, Eufemia, ecc.); e sono raccontate alternando al lessico della frenesia e dell’avvampo quello della beatitudine (“amore e testosterone” si potrebbe sintetizzare, parafrasando un sintagma della prosa 54: «Colmo d’amore e testosterone, sentivo l’aria notturna sul petto»).
Forse, il migliore esempio di situazione topica si trova nella prosa 49, lì dove sono descritti lo sguardo e il sorriso di Bauci che si volta, beata e incantevole, sotto il sole di un tardo pomeriggio di luglio, ai bordi di una piscina:
Sarà stata la vicinanza dell’acqua ma, quando ho finito e si è voltata, il suo sguardo aveva una profondità liquida e appagata che ora capisco essere quella dell’amore, una dolce beatitudine che nell’istante non sapevo spiegarmi e mi sembrava la cosa più bella e inaspettata che avessi mai visto.
Oltre a campi lessicali d’elezione, le storie minori hanno anche un rapporto privilegiato con alcuni modi verbali, come il condizionale o il congiuntivo, e con le formule che esprimono un auspicio, un’ipotesi, una possibilità non realizzata: «sarebbe bellissimo per esempio che» (prosa 51); «Se vale l’amore, sarà bello allora che» (prosa 52); «essere un nome che lei avrebbe potuto pronunciare spesso, sempre (prosa 52); «quella volta in cui avrei voluto scrivere ad Armilla» (prosa 72); «quasi che il sonno dell’infanzia fosse davvero il segreto che vorremmo da tanto tempo rivelarci» (prosa 73); ecc. Il condizionale e il congiuntivo creano lo spazio per ciò che non è, ma potrebbe accadere o sarebbe potuto accadere: proprio in virtù di questa dimensione di “presente mancato”, Romanzetto estivo si offre ai lettori come una scrittura che non rinuncia a incunearsi fra il certo e il possibile, e a porsi come «un’operazione sui parametri secondo cui noi ci sentiamo in vita».[4]
A loro volta, perdita, disfatta e dissipazione sono disseminate nel testo e aggallano attraverso una serie di parole-chiave che si condensano nell’attacco della prima prosa del macrotesto. Qui, in un’arcata sintattica tesa, marcata e mossa («quello che spesso dimentico è che»; «Non che […], ma almeno») si succedono colpa, difetto, senso di disfatta, orrori ed esilio, e due locuzioni dalla semantica invasiva e asfissiante, come ‘togliere il fiato’ e ‘occupare la mente’:
Quello che spesso dimentico è che le ore della sera hanno una peculiare intimità con la colpa, il difetto e il senso di disfatta. Non che quelle del mattino siano più clementi ma almeno gli orrori che promette la giornata, l’esilio a cui mi costringe il salario, tolgono il fiato e sono rapidissimi nell’occuparmi il cuore e la mente.
Si dovrà a questo punto menzionare il lessema entropia, vero e proprio mot-clé di Bortolotti, in Romanzetto incastonato nella parte iniziale della prosa 59: qui la specie umana è definita come un «effetto secondario del tempo che passa» e come il risultato, a suo modo «sbalorditivo», «dell’entropia e della seconda legge della termodinamica». Più in generale, in Romanzetto torna una ampia e raffinata costellazione di lessemi e di campi semantici attraverso cui, anche nelle scritture precedenti di Bortolotti, è descritto il «disordinato sprecarsi» degli eventi e delle vite, e il procedere delle cose e degli uomini verso l’entropia e la morte (ad es.: «il pulviscolo disperato del curioso esperimento che è la realtà» [prosa 64]; «l’evento ennesimo della mia dissipazione» [prosa 78]; «la consumazione che non permette di tornare indietro» [prosa 81]; ecc.)
Ma, come nei macrotesti precedenti, sono soprattutto la sintassi e la testualità a far sì che Romanzetto estivo continuamente restituisca sia una condizione di “stallo percettivo”, sia il tentativo di superarla.[5] Sintassi e testualità generano instabilità e procedono per interruzioni, ma allo stesso tempo pongono un argine ad entrambi i fenomeni. La testura delle prose è così un «campo di tensione […] tra un vuoto e un vuoto»:[6] nel quale sono moltiplicati gli spessori di un extra-testo che si dà come tendente all’entropia, ma caleidoscopico, segnato dalla monotonia e dalla noia, eppure inesauribile.
Perciò in Romanzetto estivo la sintassi continuamente scende o sale di livello e ordine di grandezza, ramificandosi attraverso verbi, aggettivi e participi, spesso disposti in serie ternarie (ad es.: «ci disperdiamo […], ci disgreghiamo […] componiamo» [prosa 80]). Così facendo, sintagma dopo sintagma, gli enunciati isolano stati di cose, descrivono moti dei sensi e narrano vicende interiori, come si mostra ancora con una sequenza della prosa 80:
Così, insieme a tutti i nostri simili, ci disperdiamo come polvere, ci disgreghiamo, componiamo grandi masse di particole immateriali fatte di leggende e sospiri, che attraversano il pianeta come stagioni di monsoni, smosse e scomposte in correnti governate dal caso, dall’amore e dalle coincidenze.
Concorrono a questo effetto di costanza nella variazione anche i pattern ‘aggettivo + aggettivo + avverbio in mente + aggettivo’ («risposte garbate, brevi, evidentemente distanti» [prosa 48]; «capelli da ragazzina, lunghi, biondi, momentaneamente eterni» [prosa 49]; «uomo triste, ingenuo e cupamente incapace di arrivare all’amore» [prosa 50]), o i frequenti attacchi di frase con così e come (quando): con cui è insieme negata e affermata la possibilità di interpretare lo sfilacciamento dei giorni e l’«ordine disperso delle vicende» (prosa 58).
Vale la pena, soprattutto, evidenziare un dato, relativo agli incipit delle prose. Le quarantasette prose si aprono variando un set di sole dodici possibilità: Quello che (47, 60, 73, 88); Come quando (48, 63, 79, 92); Anche se (49, 66, 81, 91); In genere (50, 69, 72, 89); Comunque (51, 61, 77, 93), In tutto questo (52, 65, 78, 90), Non credo (53, 64, 74, 86), Ripensando (54, 67, 76, 85); Probabilmente (55, 68, 82, 84), Nonostante (56, 71, 75, 87), E insomma (57, 62, 80, 83), Il fatto è che (58, 59, 70). Ancora una volta, un caos ordinato. O meglio: una regolarità di cui non si coglie il principio d’ordine. In effetti, anche queste formule esordiali (variate eppure ripetute) funzionano da correlativo formale del rapporto con il reale: mostrano il senso di sfibramento e sconfitta dinanzi allo statuto inafferrabile dei referenti extra-testuali di cui il testo dovrebbe raccontare; ma pure provano ad aggirarlo attraverso una forma e un pattern che ritornano e che, attraverso la ripetizione, “incantano” il tempo e creano una tenue scia luminosa fra il buio dell’inizio e quello della fine.
Questi incipit servono anche ad altri due obiettivi. Innanzitutto, concorrono a far sì che le prose sembrino estratte da un flusso più ampio di pensieri e riflessioni: gli esempi più evidenti sono gli esordi in cui occorrono comunque e insomma, ovvero due segnali discorsivi con cui tipicamente si marca la presa di parola e l’inizio di un discorso. Inoltre, queste soluzioni esordiali dotano le prose di uno statuto enunciativo paradossale: mimano il procedere di un ragionamento (non credo; il fatto è che; quello che; in genere; ecc.), ma lo interrompono e lo sfilacciano, rivelandone il carattere di “approssimazione a un x”. In sostanza, in modo analogo ad altri testi di Bortolotti, anche qui le strategie espositive e argomentative vogliono soprattutto certificare l’impasse provocata da stati di cose che sfuggono ai «tentavi di comprensione, redenzione e archiviazione definitiva» (prosa 88). Come è stato rilevato proprio per le Città invisibili di Calvino, i dispositivi argomentativi hanno, dunque, un impiego eminentemente «simulativo»: vengono, cioè, utilizzati oltre le loro canoniche funzioni cosicché il ragionamento «s’esercita su dati posti al di là d’ogni confine suasorio».[7]
Sin qui è stato messo a fuoco che in Romanzetto estivo la costruzione di storie si muove fra aneddoto e topica amorosa, allusività letteraria e dispositivi di realtà; ed è stata anche evidenziata la dimensione argomentativa “simulativa”. Aggiungo ora che in Romanzetto ha un ruolo anche la funzione pragmatico-testuale di descrivere. Anche la descrizione è, infatti, uno strumento ancipite: sospeso fra l’inafferrabilità delle cose e il tentativo di cogliere analogie, riconoscere serie, creare «indici frammentari» (prosa 58). Come per altre strategie e altri tipi di sequenze testuali, si può egualmente riconoscere alla descrizione una funzione paradossale: per un verso, l’atto di descrivere riattiva la possibilità e il desiderio di ordinare e conoscere; per altro verso, il tentativo di fissare entità in sequenze descrittive è destinato a essere sgranato, scompaginato, interrotto: «come se ogni centimetro di quella pelle così liscia, ogni luccichìo di quello sguardo così profondo, fossero avvisi di una tremenda vicenda non ancora compiuta» (prosa 84).
Dimensione descrittiva significa scelta di aggettivi e nomi. Nel suo insieme, il lessico di Romanzetto estivo tiene insieme quotidianità e sogno, routine e visioni. Anzi: le scelte lessicali continuamente mostrano che, dietro ogni fessura del pavimento e del lavello, ogni oggetto corroso e trasformato in detrito, granello, polvere ecc., vi è forse la traccia di una genealogia di nomi del mondo che non riusciamo più a decodificare. Questa caratteristica era evidente nei testi ora raccolti in Low e nelle Storie del pavimento;[8] e anche in Romanzetto vi è un’aggettivazione esatta e mai “indulgente”: in grado non solo di suggerire, attraverso dittologie o serie ternarie, ciò che meglio qualifica le cose e permette loro di essere-nel-mondo, ma anche di alludere alla loro morte e al loro disfacimento. In sintesi: un’aggettivazione che fa muovere oggetti ed entità nel tempo; e che, incrinando il principio secondo cui le descrizioni sono statiche e atemporali, rende quegli oggetti e quelle entità già consumati ma ancora bellissimi, vivi e desiderabili, eppure usurati.[9]
Insomma, Romanzetto estivo sceglie una materia ribollente e la cala in una forma sintattico-testuale e discorsiva che, senza divenire «un riscatto», pure prolunga e fissa la confusione fra i giorni che viviamo e le storie che da essi ricaviamo. In questo senso, ritroviamo qui, come nei macrotesti precedenti, una scrittura potente e capace di verticalizzare l’infra-ordinario:[10] che accade dopo che tutto è già accaduto e che, tuttavia, non rinuncia a significare che ciò che è stato «persiste ancora e, come conforta, ancora addolora» (prosa 81).
Note
[1] Sul carattere non epifanico dei dettagli nei testi di Bortolotti e il depositarsi e sedimentarsi del senso, vd. G. Policastro, L’ultima poesia. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi, 2021, Milano-Udine, Mimesis, 2021, pp. 154-157, in part., p. 156.
[2] È utile dare conto delle occorrenze del lessema leggenda: «“Tra il vero e falso scelgo sempre la leggenda”» (prosa 51); «Insomma, consumare gli spazi, le serate e le occasioni solo per la leggenda, per il romanzo di cui si è protagonisti» (prosa 53); «Tuttavia decine di leggende minori si diffondono continuamente nel mio cuore» (prosa 55); «Così, […] ci disperdiamo come polvere, ci disgreghiamo, componiamo grandi masse di particole immateriali fatte di leggende e di sospiri» (prosa 80); «Altre leggende raccontano di luoghi ipogei in cui l’amore è una pietra scistosa che forma giacimenti sordi e sterminati» (prosa 82); «Se solo vera è l’estate, solo vere sono le passioni dei ragazzini, le leggende ancestrali che precedono gli anni del salario» (prosa 83).
[3] Prendo spunto per le mie considerazioni dallo studio di M. Barbato, Incantamenta latina et romanica. Scongiuri e formule magiche dei secoli V-XV, Roma, Salerno Editrice, 2019, pp. xxii- xliv.
[4] Gherardo Bortolotti, Non è un problema di artigianato, http://www.alfabeta2.it/2010/08/14/non-e-un-problema-di-artigianato/ (citato e commentato in P. Zublena, Politiche del sentirsi in vita: “Tecniche di basso livello” di Gherardo Bortolotti, in «il verri», xlvi (2011), pp. 76-81).
[5] Per un’analisi delle strategie sintattico-testuali e pragmatiche dei testi precedenti, vd. P. Zublena, Esiste (ancora) la poesia in prosa?, in «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», xiii (2010), pp. 43-47; C. De Caprio – B. De Luca, Di strutture frasali in cui scarichi le spinte delle tue ragioni. Per un’analisi retorico-stilistica di “Senza paragone”, in «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», xxi (2018), numero monografico dedicato a “Saggi in versi, saggi poetici, ‘lyrical essays’: Forme ibride e innesti nelle scritture contemporanee”, pp. 302-316; G. Picconi, La cornice e il testo. Pragmatica della non-assertività, Roma, Tic Edizioni, 2029.
[6] I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura [1978], in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980 (si cita da I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, 2 voll., Milano, Mondadori, 1995, vol. i, pp. 380-398, a p. 398).
[7] E. Testa, Aspetti linguistici e testuali delle «Città invisibili» di Calvino, in Per Elio Gioanola: studi di letteratura dell’Ottocento e del Novecento, a cura di F. Contorbia, G. Ioli, F. Surdich, S. Verdino, Novara, Interlinea, 2009, pp. 409-421, pp. 413 e 418.
[8] Si fa riferimento a G. Bortolotti, Storie dal pavimento, Roma, Tic Edizioni, 2019 e Id., Low, ivi, 2020.
[9] Su questa dimensione temporale che può incunearsi nelle descrizioni, vd. E. Manzotti, La descrizione. Un profilo linguistico e concettuale, in «Nuova Secondaria», xxvii (2009), fasc. 4, pp. 19-40.
[10] Vd. A. Loreto, Una totalità in miniatura. La micro-epica di Bortolotti, in L’epica dopo il moderno (1945-2015), a c. di F. de Cristofaro, Pisa, Pacini Editore, 2017, pp. 115-133.