A cura di Laura Pugno
Nel 2022 si compiono 15 anni dall’inizio della mia personale avventura con l’ibrido, la pubblicazione del mio primo romanzo, Sirene, nel 2007. Da allora, le figure più che umane, oltreumane, si sono moltiplicate, in letteratura e nell’immaginario, intorno a noi, fino a essere in un certo senso ovunque, o forse solo nell’occhio di chi guarda. La parola Chimera, oltre i Canti Orfici e i Dialoghi con Leucò, riecheggia oggi gli ibridi interspecie della scienza contemporanea insieme alla mitologia greca, etrusca ed egizia, e per questo ce ne serviamo qui: il campo delle ibridazioni, come si vedrà, è molto ampio.
In questo secondo incontro, Francesca Matteoni ci parla della sua Chimera. Sedna (lp).
L’ibrido che ho scelto per te è Sedna, la dea del mare degli Inuit. Vuoi raccontarci, a modo tuo, la sua storia?
È una storia che ha a che fare con l’idea di giustizia retributiva. Sedna è la madre di tutti gli animali marini, ma non è sempre stata una divinità dell’oceano. La leggenda più comune racconta sia stata prima di tutto un’umana, una giovane donna. In alcuni casi viene data in sposa dal padre a uno stregone che ha le fattezze di corvo, ed è soccorsa dal padre stesso, che sente le grida disperate della figlia. In altri è orfana e si accinge a cercare una terra ricca di cibo oltre le acque insieme al suo popolo. Comunque sia, quando si trova a bordo dell’imbarcazione che dovrebbe trarla in salvo, per paura e viltà viene gettata in mare. Il padre teme la collera dello stregone; la comunità ha bisogno di alleggerire il carico per procedere senza intoppi. La ragazza si aggrappa ai bordi e allora le vengono prima recise le dita che si mutano in focidi, poi le mani, che diventano balene. Affoga senza morire: gli animali la portano in salvo sul fondo del mare. Da allora è lei che ristabilisce gli equilibri delle stagioni e della caccia, che punisce gli umani con carestie, pestilenze e scarsità di cibo quando uccidono troppi animali e rompono certe regole morali. Lo sciamano deve recarsi da Sedna per chiedere aiuto, attraversando un ponte strettissimo e invisibile nelle acque, pettinandole i lunghi capelli aggrovigliati: ogni nodo un rancore, un torto, un’ingiustizia commessa dagli umani. Sedna non ha dimenticato né la sua natura precedente né la sofferenza ricevuta. Non ama il popolo degli uomini, ma non gli è nemica: conosce la necessità e il terrore che conducono al male. Mi ha sempre molto colpito che l’ultima delle creature, un’orfana, una reietta perfino mutilata, sia colei che regge la giustizia.
Pensa alla parola totem. C’è qualcosa nel tuo ibrido che ti parla del passato, tuo e di tutti?
Sì. È la condizione di orfanità che accompagna l’indipendenza e la capacità di stabilire altri legami familiari con il mondo. Sedna è madre degli animali e orfana, cura, ma lascia che ognuno possa fronteggiare il proprio destino liberamente e in solitudine. Non sono orfani tutti i bambini e le bambine protagonisti dei grandi romanzi cosiddetti per l’infanzia? Possono avere i genitori, da qualche parte, perfino tornare da loro, ma sono soli nell’avventura di conoscenza. Sedna è l’orfanità che ci ricorda che niente è dato, ma tutto va ricreato con la memoria, con la resa a un senso di giustizia più vasto di noi e di qualsiasi ente divino.
E il futuro? Pensa alla parola daimon. Il tuo ibrido può accompagnarci nel futuro?
Il mito rifletta le condizioni estreme del popolo che lo ha sognato: il paesaggio è puro e ostile, l’unica sopravvivenza viene dalla solidarietà con ogni spirito (ovvero vita, riconosciuta però come presenza fisica e morale, indipendentemente dalla specie) esistente. Penso quindi che la parola daimon della Sedna sia solidarietà, ma una solidarietà radicale, sorella della necessità per cui ci riconosciamo uguali nel subire e infliggere dolore, nel cercare un riscatto, nel farci comunità nostro malgrado. Non ha niente a che vedere con una certa attitudine caritatevole della tradizione cristiana, che pure è da rispettare. La precede. Precede la compassione e l’amore, si avvicina molto alla solidarietà della Ginestra leopardiana. Essere solidali non significa scoprirsi generosi e nemmeno affettivamente connessi: significa piuttosto sapere la fratellanza dove ogni vita vale un’altra, dove si è ridotti ai minimi termini. Cibo, sonno, calore. È una solidarietà che procede dalla spoliazione e non dall’abbondanza. Del resto solo chi si spezza può amare, se ha la capacità di considerare preziosa la sua crepa. O le sue dita tagliate… che si mutano in pinne, occhi, musi marini.