di Pierluigi Pellini
[È uscito da poco, nella collana «Proteo» di Artemide (Roma, dicembre 2021) il libro di Stefano Lazzarin e Pierluigi Pellini, Il vero inverosimile e il fantastico verosimile. Tradizione aristotelica e modernità nelle poetiche dell’Ottocento, con una introduzione di Simona Micali. Pubblichiamo le pagine conclusive del saggio di Pierluigi Pellini].
Sarebbe alquanto semplicistico, e anzi fuorviante, affermare che un’acquisizione fondamentale del modernismo novecentesco – la rivendicazione della dignità di una contingenza non riconducibile all’universale – compare precocemente in alcuni romanzi realisti e naturalisti solo nonostante, o addirittura contro, le elaborazioni teoriche degli autori che siamo abituati a ascrivere al filone dominante del romanzo francese ottocentesco. In realtà, è lo stesso neo-aristotelismo naturalista (chiamiamolo così, per brevità) di Flaubert, Zola e Maupassant a condurre, quasi per inevitabile evoluzione interna, a un superamento delle poetiche della verosimiglianza. Aristotele non è solo sinonimo di struttura tradizionale, di «un inizio e un mezzo e una fine», come tendenziosamente induce a credere un brano celebre dei diari di Virginia Woolf. Nel 1926, al termine di una conversazione sfuggente, l’anziano Thomas Hardy confessa alla più giovane visitatrice – sempre che la testimonianza di quest’ultima sia attendibile – il suo sconcerto nei confronti dei più recenti esperimenti narrativi (nella fattispecie, un racconto di Aldous Huxley):
We used to think there was a beginning & a middle & an end. We believed in the Aristotelian theory. Now one of those stories came to an end with a woman going out of the room.[1]
L’incontro fra Hardy e Woolf era occasione troppo bella, troppo emblematica, per non essere messa a partito dai più acuti fra i difensori di una frontiera storiografica netta fra Ottocento e Novecento. La famigerata «barriera del naturalismo», che dava il titolo a un brutto libro di Renato Barilli,[2] si è sgretolata negli anni, o quantomeno ha mostrato ampie zone di porosità, grazie al lavoro – diversamente orientato, ma nella sostanza convergente – di studiosi fra loro lontanissimi: da Frank Kermode, a Jacques Rancière; in Italia, da Roberto Bigazzi, a Guido Mazzoni, al sottoscritto.[3] E tuttavia non manca chi ha provato a ricostruirla, con ben altra finezza rispetto a Barilli, e con argomenti più efficaci. Su tutti, Mario Lavagetto. In un saggio su Svevo, che per molti versi riassume nella forma più limpida non solo la sua lettura della Coscienza di Zeno, ma tutta un’idea del Novecento, il grande critico scomparso nel 2020 allinea con accattivante eleganza i più importanti fatti, testi e concetti atti a suffragare il topos dei due secoli, l’Otto e il Novecento, l’un contro l’altro armati; e non manca, appunto, la visita di Virginia Woolf a Thomas Hardy.[4]
Il fatto è che quasi tutti gli stereotipi hanno qualche base di realtà: le vicende del vero inverosimile confermano in parte (lo si vedrà in séguito) la portata non marginale delle trasformazioni che il sistema letterario subisce fra naturalismo e modernismo: trasformazioni che tuttavia non invalidano, a mio modo di vedere, il prevalere della continuità nella lunga durata. Qui, la testimonianza di Virginia Woolf non mi serve per avvalorare un’opposizione troppo schematica per essere vera – e infatti proprio il fenomeno di cui Hardy denuncia lo scandalo, il finale in sordina, la conclusione insignificante, ha una storia che affonda le sue radici nell’Ottocento realista: in Flaubert, nei petits naturalistes, soprattutto in Čechov. La citazione dal Diario della scrittrice che di lì a poco avrebbe pubblicato To the Lighthouse, se è fededegna, vale semplicemente a riprova di un fatto più banale, più ovvio, e (come spesso l’evidenza) assai più ignorato dalla critica: l’assoluta centralità della Poetica aristotelica nella riflessione metaletteraria (esplicita o implicita) di molti fra i maggiori romanzieri dell’Ottocento (e ancora d’inizio Novecento), non solo francese.
E infatti Aristotele è centrale nel saggio di poetica del romanzo probabilmente più lucido e importante, fra quelli che sono stati scritti in Francia dopo Flaubert e prima di Proust. Nella prefazione a Pierre et Jean che ha per titolo Du roman, ed è esplicitamente riferita non tanto all’esile romanzo psicologico che introduce, quanto piuttosto alla migliore narrativa del secondo Ottocento in generale, Maupassant individua così il primo articolo della deontologia del romanziere che intende dare «une image exacte de la vie»: «éviter avec soin tout enchaînement d’événements qui paraîtrait exceptionnel».[5] Se tuttavia Zola (come il Verga della lettera dedicatoria dell’Amante di Gramigna) finge di credere all’auto-evidenza dell’opera che sembra essersi fatta da sé, l’autore di Bel-Ami è consapevole dell’inevitabile artificio: le combinazioni eccezionali, se non si possono sempre evitare, devono quantomeno essere dissimulate (non si sbaglierà, probabilmente, immaginando che Maupassant avesse in mente l’esempio dell’Éducation sentimentale): lo scrittore realista-naturalista «devra donc composer son œuvre d’une manière si adroite, si dissimulée, et d’apparence si simple, qu’il soit impossible d’en apercevoir et d’en indiquer le plan».[6] Se i romanzieri «d’hier», cioè i romantici e gli autori di romans-feuilletons, si concentravano sugli «états aigus», quelli «d’aujourd’hui», cioè realisti e naturalisti, scelgono di limitarsi all’«état normal»;[7] se i primi puntavano sulla «ficelle unique qui avait nom: l’Intrigue», i secondi si affidano a «[des] fils si minces, si secrets, presque invisibles».[8]
Ne consegue che i romanzieri realisti
devront souvent corriger les événements au profit de la vraisemblance et au détriment de la vérité, car:
«Le vrai peut quelquefois n’être pas vraisemblable».
Le réaliste, s’il est un artiste, cherchera, non pas à nous montrer la photographie banale de la vie, mais à nous en donner la vision plus complète, plus saisissante, plus probante que la réalité même.[9]
La citazione di Boileau è esibita senza ironia; e del resto l’intero ragionamento è condotto in perfetta logica aristotelica, non senza l’impiego di un termine che consuona con i tecnicismi della poetica classica: «probante». In Balzac abbiamo incontrato «probabile», in Verga «probabilmente»: il nesso fra probabilità e prova è sempre un riflesso di quell’aristotelismo profondamente introiettato, e forse in alcuni casi perfino inconsapevole, che l’educazione scolastica inculcava in ogni letterato ottocentesco – anche nei più spregiudicati fra i romanzieri dell’avanguardia realista. Ma il ragionamento di Maupassant porta alle estreme conseguenze la necessaria divaricazione fra rappresentazione e realtà imposta dalle norme del verosimile. Quel che lo scrittore realista deve produrre è (avrebbe detto Roland Barthes ottant’anni più tardi), un «effetto di reale»,[10] i cui legami con la contingenza storica sono puramente illusionistici. Lo dice esplicitamente uno dei passi più celebri della prefazione di Pierre e Jean: «Faire vrai consiste donc à donner l’illusion complète du vrai»;[11] di conseguenza, «les Réalistes de talent devraient s’appeler plutôt des Illusionnistes».[12]
Se altra è la sottigliezza del ragionamento, la sostanza dei concetti espressi da Maupassant non si allontana molto, nello stabilire un rapporto fra verosimile e illusione, da una tarda sintesi classicista – già percorsa da inquietudini e contraddizioni, ma solidamente ancorata all’aristotelismo del grand siècle –[13] come il Dictionnaire dramatique di Chamfort, datato 1776. Cito dal lemma Illusion:
La vraisemblance de l’action, la vérité des caractères, des sentiments, du dialogue, l’imitation de la nature, la peinture fidèle des passions, sont les moyens dont le poète se sert pour opérer le charme de l’illusion.[14]
La capacità di produrre «l’illusione della realtà» – concetto che ricorre nell’epistolario di Verga fin dai primi anni Ottanta dell’Ottocento; e che De Roberto desumerà sia dal maestro verista, sia dal saggio di Maupassant – implica un’abilità dissimulatrice che è agli antipodi della fedeltà pedissequa richiesta dallo Zola più noto al romanziere-cancelliere (o appuntato), chiamato a stendere il mero «verbale» dell’esistenza contemporanea; richiede un intervento manipolatore che smentisce l’utopia dell’opera che sembra essersi fatta da sé. La celebre boutade di Maupassant – il nome esatto dei «Realisti» sarebbe appunto «Illusionisti» – per un verso scardina ogni ingenua fiducia nelle possibilità mimetiche della parola letteraria, per un altro si coniuga con un più radicale prospettivismo:
Quel enfantillage, d’ailleurs, de croire à la réalité, puisque nous portons chacun la nôtre dans notre pensée et dans nos organes. Nos yeux, nos oreilles, notre odorat notre goût différents créent autant de vérités qu’il y a d’hommes sur la terre.[15]
Anche in questo caso, la contraddizione rispetto alla poetica realista è al tempo stesso – a seconda dei punti di vista, viene da dire – innegabile e solo apparente. L’insistenza sulle percezioni sensoriali è infatti tipicamente naturalista (nello specifico, fra l’altro, ha fonti filosofiche positiviste); e l’intera riflessione di Maupassant si inscrive in un orizzonte flaubertiano (e in misura minore zoliano), portando alle estreme conseguenze le posizioni dei maestri.
L’aporetico illusionismo del saggio sul Romanzo non nasce da una presunta conversione dell’autore di Pierre et Jean a una qualche forma di psicologismo alla moda, ma da un approfondimento del metodo naturalista: precisamente la delega narrativa, la sistematica focalizzazione interna, la rinuncia a ogni residuo di onniscienza del narratore, la promozione dei singoli personaggi, anche umili, a portatori di uno sguardo autonomo sul mondo (che sono i capisaldi della tecnica narrativa naturalista) hanno come logica conseguenza un relativismo prospettico che la vulgata critica ascrive al modernismo novecentesco (in Italia, magari, specificamente a quello pirandelliano), ma che era già tutto nella riflessione di Maupassant e in una frase del suo maestro Flaubert.
La si legge, quest’ultima, in una lettera famosa a Léon Hennique del 3 febbraio 1880: «Il n’y a pas de vrai, il n’y a que des manières de voir».[16]
Il verosimile multi-prospettico di Maupassant è dunque per un verso profondamente radicato nella tradizione di quello che ho chiamato neo-aristotelismo naturalista; per un altro prelude invece alla dissoluzione modernista del reale in un caleidoscopio di percezioni sensoriali soggettive (Virginia Woolf, assai più di Pirandello). Su due punti decisivi – primo: ‘fare vero’, essere ‘verista’ non significa copiare la realtà, ma dare la piena illusione del vero, produrre un ‘effetto di reale’; secondo: ogni uomo, chiuso nel soggettivismo delle sue percezioni sensoriali, vede la realtà attraverso un idiosincratico schermo individuale, che revoca in dubbio l’esistenza stessa di una possibile oggettività – il saggio sul Romanzo anticipa posizioni teoriche e filosofiche che saranno alla base del modernismo europeo. Anche su un altro punto importantissimo l’elaborazione teorica di Maupassant sembra anticipare concetti decisivi nelle poetiche del secolo successivo (nella fattispecie, lo straniamento: ci tornerò fra poco). C’è invece un elemento che in parte smentisce, o quantomeno tempera, la proiezione ‘novecentesca’ della prefazione di Pierre et Jean. In perfetta logica (ancora una volta) aristotelica, il saggio sostiene che
Raconter tout serait impossible, car il faudrait alors un volume au moins par journée, pour énumerer les multitudes d’incidents insignifiants qui emplissent notre existence.
Un choix s’impose donc – ce qui est une première atteinte à la théorie de toute la vérité.[17]
Non si può raccontare tutto: ci vorrebbe un libro intero per ogni giorno – come Une belle journée (1881) di Henry Céard, il più estremista, e per certi versi il più moderno, fra gli allievi di Zola, che sul nulla (memore del flaubertiano «livre sur rien») di una domenica antifrasticamente bella, e in realtà piovosa, su un adulterio che non si consuma per reciproca noia dei mediocrissimi protagonisti piccolo-borghesi, scrive il libro forse in assoluto più fedele all’ortodossia della poetica naturalista. Une belle journée è il romanzo di un atto mancato: può essere letto come una debordante rielaborazione dell’episodio che chiude, in analessi, L’Éducation sentimentale – la fallimentare scappatella al bordello della Turca, che a posteriori si rivela la cosa migliore nell’esistenza dei protagonisti. Il libro di una sola giornata Céard lo scrive a inizio anni Ottanta dell’Ottocento; lo reinventerà Joyce, quarant’anni più tardi, nell’Ulysse, le cui pagine saranno, non a caso, fittissime di riferimenti all’ambiente urbano più triviale, alla corporeità anche degradata dei personaggi, agli oggetti e ai gesti della più trita banalità quotidiana.
Per Maupassant la selezione è indispensabile: per non cadere nell’insignificanza. Proprio la redenzione estetica della più insignificante futilità contemporanea sarà invece al cuore delle poetiche moderniste,[18] insieme al definitivo riconoscimento della dignità di ogni individuale e contingente esistenza, nella sua idiosincratica unicità, non riconducibile a qualsivoglia universale (poco importa se aristotelico o idealista). Sottolineare – come mi è capitato di fare in molti lavori, ormai da più di vent’anni – gli elementi di continuità fra naturalismo e modernismo non significa, come hanno creduto di intendere alcuni lettori un po’ distratti, disconoscere le differenze. Certamente, però, c’è un ultimo elemento decisivo che, nel saggio sul Romanzo di Maupassant, guarda decisamente verso il Novecento, e precisamente, viene da dire anacronisticamente, verso le teorizzazioni dei formalisti russi.
Il punto di partenza è ancora una volta aristotelico, e fa esplicito riferimento agli insegnamenti orali del maestro Flaubert: «Le talent est une longue patience»;[19] non l’immediatezza dell’ispirazione (romantica), ma il labor limae classicista produce le opere esteticamente riuscite. La lenta elaborazione dell’oggetto artistico assume tuttavia una coloritura inedita, ancora una volta coerente con i modelli della conoscenza elaborati prima dal sensismo settecentesco e poi dal positivismo:
Il s’agit de regarder tout ce qu’on veut exprimer assez longtemps et avec assez d’attention pour en découvrir un aspect qui n’ait été vu et dit par personne. Il y a, dans tout, de l’inexploré, parce que nous sommes habitués à ne nous servir de nos yeux qu’avec le souvenir de ce qu’on a pensé avant nous sur ce que nous contemplons. La moindre chose contient un peu d’inconnu.[20]
L’artista, proseguiva Flaubert secondo la testimonianza di Maupassant, deve particulariser,[21] «rendere particolare» ogni oggetto di cui si occupa. Smentendo così l’imperativo aristotelico dell’universalità. Non pare eccessivo sostenere che in queste righe straordinarie, e troppo poco note, sia già implicita l’idea di ostranenie, di straniamento, che sarà elaborata dai formalisti russi e in particolare da Viktor Šklovskij; e quella teoria del Realismo nell’arte che, elaborata da Jakobson nel 1921, offre a tutt’oggi una delle analisi più limpide e convincenti di una categoria per antonomasia sfuggente e indefinibile.
Lo sguardo dello scrittore non solo deve essere attento (l’osservatore naturalista lo è per definizione); deve soprattutto essere capace di una ritrovata verginità, eliminare gli automatismi della percezione, scrollarsi di dosso l’ipoteca del ‘già visto’. Deve liberare gli occhi dall’ombra di «quel che si è pensato prima di noi su ciò che contempliamo», dice Maupassant: perché scopo dell’arte è «trasmettere l’impressione dell’oggetto, come ‘visione’ e non come ‘riconoscimento’», dice Šklovskij;[22] e il realismo nell’arte, spiega Jakobson, «deve vedere nell’oggetto una realtà che ieri non era vista e deve imporre una nuova forma alla percezione».[23] Deve cioè rimuovere, precisamente, quella stanca doxa che nella teorizzazione classicista delle bienséances secentesche diventava (travisando in realtà Aristotele) pietra di paragone del verosimile. Solo così può ritrovare il baudelairiano inconnu: non in esotiche lontananze di ascendenza romantica, ma negli oggetti più comuni, negli aspetti più insignificanti dell’esistenza quotidiana.
Solo così lo scrittore realista, secondo Maupassant, può percorrere gli spazi dell’«inesplorato» per istituire un diverso regime di verosimiglianza. Un realismo straniante, avanguardistico: il mondo visto di sbieco, da altrove; al limite, da occhi non umani, come quelli del cavallo protagonista di Cholstomer (Tolstoj, 1886), evocato da Šklovskij come archetipo dell’ostranenie. Un realismo che denuncia l’artificiosa stereotipia del verosimile dominante di un’epoca, imponendo, con una sorta di brutale e illuminante igiene dello sguardo, un punto di vista inedito sul mondo.
La storia letteraria non fa salti. La poetica del modernismo può nascere paradossalmente (anche) dagli sviluppi e dalle aporie di quello che non ho esitato a chiamare il neo-aristotelismo naturalista.
Proprio il saggio di Jakobson individua l’essenza stessa del realismo – o quantomeno di un’idea «relativa» di realismo,[24] che di fatto viene quasi a coincidere con quella di avanguardia – nel costante superamento della doxa che i critici conservatori ritengono realistica; e perciò nel «rifiuto della verisimiglianza» storicamente determinata.[25] Per Jakobson, il «realismo innovatore» è l’esatto contrario del verosimile socialmente riconosciuto; è l’esatto contrario, potremmo ripetere con Maupassant, di «quel che si è pensato prima di noi su ciò che contempliamo». Ma il teorico formalista trae da questo assunto precisamente quella logica conseguenza che Maupassant sembrava restio a accettare: è «la caratterizzazione mediante tratti inessenziali» a rendere l’opera d’avanguardia «più realistica della vecchia tradizione, ormai cristallizzata».[26] Proprio gli elementi un tempo considerati «meno caratteristici, meno degni di figurare in letteratura», o addirittura «nemmeno notati»,[27] diventano il nucleo generativo della nuova arte.
Perciò i «fatterelli insignificanti» rifiutati da Maupassant saranno al centro del progetto modernista: portatori di epifania, o allegoria del non-senso, scardineranno definitivamente una gerarchia tematica tradizionale (classicista e poi romantica) già minata dall’ipertrofia descrittiva dei naturalisti. Il generale, l’universale aristotelico, che resiste nel dibattito poetico per tutto il ‘lungo Ottocento’, esce per ironia della sorte dalla scena teorica della letteratura che conta, precisamente nel momento in cui l’estetica idealista, in Italia, ne teorizza, fuori tempo massimo, i fasti desueti.
Proprio contro Benedetto Croce, dicono i più accreditati commentatori,[28] si scaglierebbe quell’Avvertenza finale, aggiunta alla quarta edizione del Fu Mattia Pascal, nel 1921 (lo stesso anno del saggio di Jakobson), che in principio ho indicato come esemplare punto d’arrivo modernista nella vicenda plurisecolare del vero inverosimile. Pirandello teorico, diciamolo pure, è ridondante, concettoso, non di rado confuso. In questo caso, però, dice cose molto importanti, che forse acquisteranno qualche risonanza inedita alla luce dei testi citati fin qui:
E lo zoologo sì, può parlare dell’uomo e dire, per esempio che non è un quadrupede ma un bipede, e che non ha la coda […].
All’uomo di cui parla lo zoologo non può mai capitar la disgrazia di perdere, poniamo, una gamba e di farsela mettere di legno; di perdere un occhio e di farselo mettere di vetro. L’uomo dello zoologo, ha sempre due gambe, di cui nessuna di legno, sempre due occhi, di cui nessuno di vetro.
E contraddire allo zoologo è impossibile. Perché lo zoologo, se gli presentate un tale con una gamba di legno o con un occhio di vetro, vi risponde che egli non lo conosce, perché quell’uomo non è l’uomo ma un uomo.
È vero però che noi tutti, a nostra volta, possiamo rispondere allo zoologo che l’uomo ch’egli conosce non esiste, e che invece esistono gli uomini, di cui nessuno è uguale all’altro e che possono anche avere per disgrazia una gamba di legno o un occhio di vetro.
Si domanda a questo punto se vogliono esser considerati come zoologi o come critici letterarii quei tali signori che, giudicando un romanzo o una novella o una commedia, condannano questo o quel personaggio, questa o quella rappresentazione di fatti o di sentimenti, non già in nome dell’arte come sarebbe giusto, ma in nome d’una umanità che sembra essi conoscano a perfezione, come se realmente in astratto esistesse, fuori cioè di quell’infinita varietà d’uomini capaci di commettere tutte quelle sullodate assurdità che non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere.[29]
La domanda, decisiva, è questa: è lecito che la letteratura si interessi della contingente, inessenziale, idiosincratica individualità di un uomo, o deve rappresentare i caratteri generali, universalmente validi, dell’umanità? deve attenersi alla tipizzazione del verosimile o può aderire all’«infinita varietà» del reale? Pirandello si mostra perfettamente consapevole della posta in gioco, che è il valore universale dell’arte (e in specie della letteratura): anacronisticamente ribadito, certo, dall’estetica idealista; ma ancora centrale, come s’è dimostrato, anche nella koinè del neo-aristotelismo naturalista.
Proprio contro questa koinè – e non certo contro Croce: di cui (quasi) tutto si può dire, nel bene e nel male, ma non che fosse zoologo – si appuntano gli strali dell’Avvertenza: se Pirandello attacca i critici «zoologi», interessati al genere e non all’individuo (come i romanzieri realisti che, da Balzac a Zola, si richiamano ai modelli scientifici), è perché pensa ai dibattiti positivisti sulla teratologia e sulle pecore a cinque zampe (di cui l’uomo con la gamba di legno o l’occhio di vetro è un equivalente), alle disquisizioni dei realisti e dei naturalisti sul tipo e sulle medie – è impossibile, temo, precisare quali testi avesse in mente l’autore del Fu Mattia Pascal; ma è agevole, credo, individuare l’area di appartenenza culturale dell’avversario.[30]
Non c’è dunque, nell’Avvertenza, un tardivo ritorno a oziosi scrupoli veristi: tale sarebbe, secondo un altro interprete illustre, Giacomo Debenedetti, l’esibizione di una prova ‘realista’ a discarico (l’articolo di giornale che racconta, anni dopo l’uscita del romanzo, un’avventura non dissimile da quella, incredibile e inverosimile, di Mattia). In realtà, Pirandello non vuole affatto difendersi «dall’accusa di aver leso la verosimiglianza», adottando le categorie ottocentesche dei suoi critici;[31] ma prender partito per la contingente singolarità del vero inverosimile. Con la consapevolezza, specificamente modernista, dell’obsolescenza di tutte le teorie estetiche (realiste o idealiste che siano) fondate sul postulato dell’universalità – della natura umana e dell’arte.[32]
Ancorati a un’ottica aristotelica sono i critici che giudicano astrattamente «in nome d’una umanità che sembra essi conoscano a perfezione, come se realmente in astratto esistesse, fuori cioè di quell’infinita varietà d’uomini capaci di commettere tutte quelle sullodate assurdità che non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere».[33] Le «assurdità» non categorizzabili di una «infinita» (e perciò, in un certo senso, democratica) «varietà d’uomini»: questo è il tema, inessenziale e perciò (direbbe Jakobson) realistico, di quella letteratura novecentesca che finalmente anche in Italia va sotto il nome di modernismo. Pirandello non fa un passo indietro rispetto alle teorie dell’umorismo, ritornando a ragionare in una logica tardo-naturalista; al contrario, arretrata, rispetto al dibattito europeo (che nasce dal naturalismo), era l’irenica difesa crociana dell’autonomia dell’arte, intesa come valore universale.[34] La rivendicazione di un’arte che aderisce all’unicità, alla particolarità, all’irrilevante insignificanza di un reale inverosimile è invece al cuore della Weltanschauung modernista.
Note
[1] The Diary of Virginia Woolf, vol. III, 1925-1930, a cura di A. Olivier Bell, con la collaborazione di A. McNeillie, Penguin, London 1982, p. 101. [«Eravamo abituati a pensare che c’era un inizio e un mezzo e una fine. Credevamo nella teoria aristotelica. E adesso una di queste storie finisce con una donna che esce dalla stanza»]
[2] Cfr. R. Barilli, La barriera del naturalismo, Mursia, Milano 1964.
[3] Un titolo a testa, a mo’ di esempio: F. Kermode, Continuities, Routledge & Kegan Paul, London 1968; J. Rancière, Le Fil perdu. Essais sur la fiction moderne, La Fabrique, Paris 2014; R. Bigazzi, Da Verga a Svevo. Polemiche sul romanzo, in Id., I colori del vero cit., pp. *; Mazzoni, Teoria del romanzo cit.; Pellini, Naturalismo e modernismo cit.
[4] Cfr. M. Lavagetto, Svevo nella terra degli orfani, in Id., Lavorare con piccoli indizi, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 277-297.
[5] R, p. 706. [«un’immagine esatta della vita»]; [«evitare con cura ogni concatenazione di avvenimenti che possa sembrare eccezionale»]
[6] R, p. 707. [«dovrà dunque comporre la sua opera in una maniera così abile, così dissimulata, e in apparenza così semplice, che risulti impossibile scorgerne e identificarne l’architettura»]
[7] Ibid. [«di ieri»]; [«stati acuti»]; [«di oggi»]; [«stato normale»]
[8] Ibid. [«unico espediente che si chiamava: la trama»]; [«fili così sottili, così segreti, quasi invisibili»]
[9] R, p. 708. [«dovranno spesso correggere gli avvenimenti a vantaggio della verosimiglianza e a scapito della verità, poiché: / “A volte il vero può non essere verosimile”. / Il realista, se è artista, cercherà non già di mostrarci la fotografia banale della vita, ma a darcene una visione più completa, più avvincente, più probante della realtà stessa»]
[10] Si dovrà riconoscere che il Barthes più dichiaratamente complice dell’anti-realismo del nouveau roman, più aprioristicamente ostile a ogni teoria mimetica della letteratura, quello del saggio celeberrimo (e a suo modo geniale) sull’effet de réel, non ha detto cose molto diverse da quelle spiegate ottant’anni prima dal naturalista Maupassant: cfr. R. Barthes, L’effetto di reale (1968), in Id., Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, pp. 151-9.
[11] R, p. 709. [«Essere verista (alla lettera: ‘fare vero’) significa dunque dare l’illusione completa del vero»]
[12] Ibid. [«i Realisti di talento dovrebbero piuttosto chiamarsi Illusionisti»]
[13] In proposito, cfr. Coudreuse, La vraisemblance dans le «Dictionnaire dramatique» de Chamfort, cit.
[14] [«La verosimiglianza dell’azione, la verità dei caratteri, dei sentimenti, del dialogo, l’imitazione della natura, la pittura fedele delle passioni, sono i mezzi di cui il poeta si serve per operare l’incantesimo dell’illusione».]
[15] Ibid. [«Che ingenuità, poi, credere alla realtà, dal momento che portiamo ciascuno la nostra nel nostro pensiero e nei nostri organi. I nostri occhi, le nostre orecchie, il nostro odorato, il nostro gusto, tutti differenti, creano altrettante verità quanti sono gli uomini sulla terra»]
[16] ŒC, vol. XVI, p. 308. [«Non esiste il vero, ci sono solo modi diversi di vedere».]
[17] R, p. 708. [«Raccontare tutto sarebbe impossibile, perché allora ci vorrebbe almeno un volume per ogni giorno, per enumerare le moltitudini di fatterelli insignificanti che riempiono la nostra esistenza. / Perciò s’impone una scelta – il che costituisce una prima infrazione alla teoria del ‘dire tutta la verità’»]
[18] Su questo, mi sia consentito rinviare a Pellini, Naturalismo e modernismo cit., pp. 183-235.
[19] R, p. 713. [«Il talento è una lunga pazienza»]
[20] Ibid. [«Si tratta di guardare tutto ciò che uno vuole esprimere abbastanza a lungo e con sufficiente attenzione per scoprirne un aspetto che non sia stato visto e detto da nessuno. In tutto, c’è qualcosa di inesplorato, perché siamo abituati a usare sempre i nostri occhi ricordando quel che si è pensato prima di noi su ciò che contempliamo. Anche la cosa più banale contiene un po’ di ignoto»]
[21] Ibid.
[22] V. Šklovskij, L’arte come procedimento, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Einaudi, Torino 1968, p. 82.
[23] R. Jakobson, Il realismo nell’arte, ivi, p. 99.
[24] Ivi, p. 103.
[25] Ivi, p. 101. Stupisce che un recente intervento teorico riproponga in termini analoghi l’opposizione fra realismo e verosimiglianza («il realismo, mentre contesta ciò che deve e può essere considerato realtà, riabilita forme di vita “reali, ma non verosimili”»; sua caratteristica è quella di «confliggere dentro e contro i confini di verosimiglianza imposti»), senza mai citare né il saggio di Jakobson, né buona parte dell’ampio dibattito teorico e critico otto-novecentesco: cfr. D. Balicco, Forza simbolica e verosimiglianza, in Id., Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2018, pp. 55-66 (le citazioni, rispettivamente, alle pp. 66 e 56).
[26] Jakobson, Il realismo nell’arte cit., p. 101.
[27] Ivi, p. 100.
[28] In particolare Giancarlo Mazzacurati, che all’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia dedica una nota di tre pagine, elegante e densissima – tanto ricca di spunti intelligenti, quanto problematica: cfr. Pirandello, Il fu Mattia Pascal cit., pp. 281-283.
[29] Ivi, pp. 284-285.
[30] Non convince Mazzacurati che invece pensa, come accennato sopra, che la polemica sia rivolta contro crociani e idealisti in genere: cfr. ivi, p. 282 nota.
[31] Così argomenta G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971, p. 411.
[32] Vero è che il Pirandello dei primi anni Venti sta anche elaborando una riflessione ‘filosofica’ che lo porterà lontano dallo sperimentalismo umorista (il quale, sia detto per inciso, ha moltissimo in comune con le teorie dello straniamento), innescando una deriva di misticismo estetico (il binomio arte/vita, ecc.) – cioè, di fatto, sancendo un allontanamento dal modernismo: in proposito, cfr. R. Luperini, Tematiche del moderno e tramonto dell’«Erlebnis» in Pirandello romanziere, in Id., L’allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. 221-258; e Id., Pirandello, Laterza, Roma-Bari 2014. Di una «paradossale perorazione a favore del realismo» e di un «soggiacente desiderio di continuità» nei confronti della tradizione realista parla invece, a proposito dell’Avvertenza, M. Ganeri, Pirandello romanziere, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, pp. 58-59: la studiosa non coglie evidentemente la polemica contro l’aristotelismo naturalista.
[33] Pirandello, Il fu Mattia Pascal cit., p. 285.
[34] Una difesa cui Pirandello sembra pagare il dazio, quasi incidentalmente, quando scrive – verso la conclusione dell’Avvertenza – che l’aneddoto giornalistico, venuto a offrire a posteriori un canovaccio narrativo simile a quello del romanzo, presenta di quest’ultimo, indipendentemente, «tutti i dati di fatto, naturalmente senza tutto quell’altro che doveva dare al fatto valore e senso universalmente umano» (ivi, p. 290: la sottolineatura è di Pirandello). In una sorta di tautologia mascherata, o di sillogismo difettoso, «quell’altro» è l’arte (anzi l’Arte), il cui valore universale è postulato a priori, nel momento stesso in cui viene di fatto sgretolato.
[Immagine: Guy de Maupassant].