di Guido Mazzoni
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’intervento che segue è uscito il 12 aprile 2012]
The Course of a Particular appartiene all’ultima stagione della poesia di Wallace Stevens, la più importante. Pubblicato sulla «Hudson Review» nel 1951 ed escluso per distrazione dai Collected Poems del 1954, il testo comparve in volume nell’Opus Posthumous (1957), due anni dopo la morte dell’autore. Al verso 14 Stevens esitò fra air (nel dattiloscritto) e ear (nella «Hudson Review»), che sembra essere la versione definitiva:
The Course of a Particular
Today the leaves cry, hanging on branches swept by wind,
Yet the nothingness of winter becomes a little less.
It is still full of icy shades and shapen snow.
The leaves cry . . . One holds off and merely hears the cry.
It is a busy cry, concerning someone else.
And though one says that one is part of everything,
There is a conflict, there is a resistance involved;
And being part is an exertion that declines:
One feels the life of that which gives life as it is.
The leaves cry. It is not a cry of divine attention,
Nor the smoke-drift of puffed-out heroes, nor human cry.
It is the cry of leaves that do not transcend themselves,
In the absence of fantasia, without meaning more
Than they are in the final finding of the ear, in the thing
Itself, until, at last, the cry concerns no one at all.
Il corso di un particolare
Oggi le foglie gridano. Pendono dai rami che il vento agita.
Eppure il nulla dell’inverno si annulla leggermente.
È ancora pieno di ombre gelide e neve modellata.
Le foglie gridano. Si rimane a distanza, ci si limita a ascoltare.
È un grido assorto e riguarda qualcun altro.
Ma per quanto si dica che uno è parte di tutto
c’è un conflitto implicito, c’è una resistenza;
essere parte è uno sforzo che declina:
si sente la vita di ciò che dà la vita così com’è.
Le foglie gridano. Non è un grido
di attenzione divina, il fumo di eroi tronfi o un grido umano.
E’ il grido di foglie che non trascendono se stesse
in assenza di immaginazione, senza significare più di ciò che sono
nell’ultima percezione dell’udito, nella cosa stessa,
finché il grido, alla fine, non riguarda più nessuno.
Il ciclo delle stagioni condanna al dolore e alla morte alcune foglie appese ai rami scossi dal vento. Benché il nulla dell’inverno stia diminuendo, alle foglie interessa solo la propria sofferenza. Il passante si limita ad ascoltare il grido busy («impegnato», «assorto» direi) di entità diverse da lui che provano dolore o che perdono la vita. Ripete uno dei topoi cui le culture umane ricorrono quando vogliono arginare l’angoscia per il destino degli esseri particolari; dice a se stesso che l’uno è parte del tutto. I vv. 6-10 contengono forse un riferimento a Spinoza, exertion essendo una delle possibili traduzioni inglesi del conatus, lo sforzo con cui, nel sistema dell’Etica, ogni cosa tenta di perseverare nel suo essere fino a quando non viene distrutta da una causa esterna. Ma colui che prende la parola in questa poesia non può condividere la serenità di chi, come Spinoza, prende le parti dell’intero: fra l’uno e il tutto si percepisce un attrito, una resistenza. Il grido delle foglie sofferenti non è divino o eroico, e neppure umano. Le persone possono trascendere se stesse attraverso la fantasia, l’immaginazione simbolica; possono costruire quelle che Stevens chiamava le «finzioni supreme» e attribuire significati a se stessi e al mondo. Le foglie, invece, rimangono esposte al proprio nulla: non potendo contare su una rete di convenzioni, progetti, illusioni, desideri, sogni condivisi che inscriva la loro esistenza singolare in un ordine superiore, significano solo se stesse. Mentre il grido degli esseri umani, in teoria, può essere tramandato e raccolto, il grido delle foglie, alla fine, non riguarda più nessuno. La prospettiva di Stevens è naturalistica e astorica: la fantasia lavora allo stesso modo in ogni forma di vita umana e produce quei sovrasensi di cui le piante o gli animali sono ontologicamente sprovvisti. Per Stevens essere uomini vuol dire trascendere la propria naturalità e significare più di quello che si è. Qui finisce The Course of a Particular.
Uscendo dall’opera e dal pensiero di Stevens, e riflettendo sul problema filosofico che il suo testo pone, si può chiedere se e quanto siano cambiate, nel corso del tempo, i sovrasensi che circondano gli esseri umani e permettono loro di significare più di ciò che oggettivamente sono. Oggi, per esempio, è molto difficile pensare che la vita delle persone possa essere raccolta, tramandata e affidata a una qualsiasi forma di trascendenza. Lo era già nel 1951, quando Stevens scrive questa poesia, o nel 1871, cioè negli anni in cui Nietzsche comincia a tradurre in discorso filosofico la crisi della cultura platonico-cristiana. La differenza è che oggi l’idea che la vita umana sia pura immanenza è una componente normalizzata della vita psichica collettiva. Entrata in modo stabile nei sistemi disciplinari e negli apparati di dominio, si mostra sotto forma di edonismo, di cinismo, di inappartenenza, di coazione a consumare cose, persone, esperienze finché si è in vita, nella convinzione inconscia o dichiarata che, prima, dopo e intorno a questa vita, non ci sia alcuna finzione suprema. D’altra parte nessuna cultura ha mai attribuito alla nuda particolarità un peso paragonabile a quello che le ha attribuito la cultura occidentale moderna, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino al narcisismo di massa contemporaneo: il processo di cui stiamo parlando è stato anche – è bene ricordarlo – una straordinaria conquista storica. E’ questo doppio movimento a generare la contraddizione in cui si trova presa la nostra forma di vita, perché rende incomponibile la frattura fra gli universali di qualsiasi tipo (Dio, il Dovere, la Politica, la Rivoluzione) e gli esseri particolari che si credono portatori di un diritto infinito. Lo stato di cose che garantisce piccole sfere di libertà privata agli individui è lo stesso che rafforza l’inappartenenza soggettiva degli individui e, insieme, la loro oggettiva dipendenza dai meccanismi alienati e incontrollabili dell’economia, della tecnica, della politica, depotenziando ogni finzione suprema, rendendo improbabile ogni solidarietà fra le persone o fra gruppi di persone che, oggettivamente, avrebbero gli stessi interessi, e consegnando ognuno di noi alla pura immanenza della propria vita. «Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non importa più niente di quello che succede all’altra gente; due, nulla ha più davvero importanza ormai» (Carver, So Much Water So Close to Home); «Bruno si accorse anche che non gliene fregava più un cazzo: i colleghi, i seminari di riflessione, la formazione umana degli adolescenti, le altre culture» (Houellebecq, Les Particules élémentaires).
[Una prima versione di questo articolo è uscita sul numero 9 di «Alfalibri», supplemento al numero 17 di «Alfabeta2»]
Avevo letto su Alfalibri la prima versione di questo pezzo. E l’avevo proposto sul blog Moltinpoesia (http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/03/discussione-ennio-abate.html). Essendo stato variamente commentato e criticato, forse potrebbe giovare allo stesso Mazzoni dare un’occhiata ad alcuni rilievi che gli sono stati mossi.
Ringrazio Ennio Abate per la segnalazione e per la pubblicazione. Non mi ero accorto che “Il corso di un particolare” era stato riproposto, nella sua prima stesura, su “Moltinpoesia”: mi dispiace. Sono contento che l’articolo abbia suscitato un dibattito su quel blog; cercherò di replicare in quella sede ai rilievi puntuali che sono stati mossi. Forse per i lettori di LPLC può essere utile che Ennio Abate ripubblichi, nello spazio dei nostri commenti, le sue riflessioni introduttive, che ponevano problemi generali sui quali sarebbe interessante discutere in questa sede.
Ringrazio anch’io Guido Mazzoni. Copio qui sotto la mia introduzione e spero in un confronto nel merito delle questioni da me poste, che – lo riconosco – sul blog Moltinpoesia amici e visitatori hanno eluso:
DISCUSSIONE
Ennio Abate
Sull’interpretazione
di una poesia di Wallace Stevens
Su Alfalibri supplemento al n.17 di alfabeta 2 ho letto la poesia di Stevens commentata da Guido Mazzoni. La ripropongo su questo blog, ma mi soffermo soprattutto sul commento. Per due motivi. Il primo: vi ho colto un cenno al discorso di Lukács che avevo messo in bocca a Samizdat (qui: http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/03/qui-ennio-abate-i-m-oltinpoesia.html): « Oggi il «volgo», dal punto di vista di Lukács, potrebbe essere il singolo imprigionato nella sua «individualità privata personale», con minime e falsate relazioni con gli altri e spesso solo di fronte alle «pure potenze astratte» che ci dominano. Pensa ai disoccupati, ai poveretti che se ne stanno chiusi in casa al computer a spedire curriculum a tutto spiano». Mazzoni, infatti, in modi simili scrive: «Lo stato di cose che rafforza la dipendenza oggettiva degli esseri particolari dai meccanismi alienati, incontrollabili dell’economia, della tecnica, della politica è lo stesso che spezza ogni legame fra gli individui».
Il secondo: trovo inaccettabile la “rassegnazione all’americanizzazione” o al «destino dell’uomo occidentale», di cui già parlò Romano Luperini in L’incontro e il caso (Laterza 2007) [Cfr. un mio commento qui: http://immigratorio.blogspot.it/2011/08/su-romano-luperini-lincontro-e-il-caso.html%5D. Mazzoni correda la sua lettura di dotti richiami al nichilismo teorizzato da Nietzsche e alla freudiana «pulsione di morte», che sarebbero « componenti normalizzate della vita psichica collettiva», e di due frasette dai (per me) “novissimi qualunquisti” Carver e Houellebecq. Nietzsche, Freud e i postmoderni: ecco il contenuto della valigetta della generazione accademica umanistica che oggi fa la spola tra Italia e USA e cura la formazione della massa studentesca precaria nelle nostre disfatte università; e tratta allo stesso modo – non è impertinente l’accostamento! – anche questioni politiche “locali” come quella della TAV (Cfr. qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=3703) per non dire della “riforma del lavoro”.
Non vorrei implicare lo stesso Stevens in questa critica che rivolgo al commento di Mazzoni. E perciò chiedo: sono gli occhiali postmoderni e disincantati di Mazzoni a produrre questa interpretazione del testo di Stevens, che invece potrebbe essere letto anche in altro modo? O è lo stesso testo qui esaminato che si presta e suggerisce solo tale interpretazione? Mi piacerebbe sentire la vostra opinione. [E.A.].
Essere uomini vuol dire davvero essere capaci di trascendere la propria naturalità e significare più di quello che si é? Ed è davvero la muta materialità della foglie/particolari ontologicamente sprovvista di questa possibilità?
Guido Mazzoni sembra esserne convinto e semmai lamenta il fatto che sempre più nel contemporaneo ci si percepisca “come foglie” ovvero nella propria nuda e pura immanenza. Sarebbe una specie di trionfo del particolarismo il cui contraltare inevitabile è l’egoismo cinico e conservatore. Sulla diagnosi del presente sono abbastanza d’accordo, ma è il problema teorico di fondo che mi lascia più perplesso.
Freud alla fine degli anni Dieci comincia ad elaborare il concetto di pulsione di morte proprio perché vede come al cuore del bisogno di significato e nel punto cieco dell’umanesimo borghese vi sia una forma di inerte materialità che del bisogno di trascendenza dell’uomo se ne frega. E questa materialità – una biologia davvero strana e poco positivistica – finisce invece per sottomettere attraverso un montaggio un po’ illogico di strani oggetti del desiderio e di pulsioni l’interezza della vita degli uomini. La psicoanalisi infatti scopre proprio questo: non tanto il significato che giace dietro al particolarismo enigmatico del sintomo, quanto il fatto che dietro alla superficie, di questo significato non ci sia alcuna traccia. Che sotto sotto, dopo un po’ di scavo e di fatica (e molti anni di analisi) dietro a quel bisogno di significato si trova soltanto quello: l’inerte materialità, proprio quella delle foglie di Wallace Stevens e di cui l’uomo sembra proprio non volerne sapere nulla. Molti ritengono che la psicoanalisi nasca proprio in quegli anni, e non negli anni prima (il primo trittico e la prima topica) quando Freud flirta ancora in modo ermeneutico con la superficie manifesta e il significato rimosso.
Questa matrice freudiana, così come Darwin e Copernico, rimandano a un’idea traumatica dell’immanenza materiale che smonta l’ideale immaginario e quella bella favola chiamata umanesimo. La scienza dunque non come sottomissione del reale da parte dell’ideale, ma come disincanto e come ferita narcisista inferta all’umanesimo. Mazzoni dice giustamente che è stata una grande conquista storica, ed è vero che l’affetto autentico di questa svolta storica (che è quella moderna) sia l’angoscia (che secondo Lacan è l’unico affetto che non mente).
Mi rimane un dubbio: è il cinismo contemporaneo un segno della presa di coscienza di questo materialismo inerte o non è forse l’ultimo baluardo del suo diniego? E non è forse – come dicono molti psicoanalisti – la società contemporanea un enorme baluardo contro l’affetto d’angoscia?
“Mazzoni correda la sua lettura di dotti richiami al nichilismo teorizzato da Nietzsche e alla freudiana «pulsione di morte», che sarebbero « componenti normalizzate della vita psichica collettiva», e di due frasette dai (per me) “novissimi qualunquisti” Carver e Houellebecq. Nietzsche, Freud e i postmoderni: ecco il contenuto della valigetta della generazione accademica umanistica che oggi fa la spola tra Italia e USA e cura la formazione della massa studentesca precaria nelle nostre disfatte università; e tratta allo stesso modo – non è impertinente l’accostamento! – anche questioni politiche “locali” come quella della TAV”
O_o
L’immanenza non è così semplice come sembra. L’intenzionalità penetra la vita umana fin nei suoi strati più profondi. La vita solo rivolta a se stessa è un’oggettivazione della nostra coscienza, nella osservazione delle vite degli altri esseri. L’unica vita davvero rivolta a se stessa è quella della ciclicità dell’organico. Al di sotto e al di fuori della nostra coscienza. La coscienza è per sé sola trascendenza, si appoggia sui significati che strutturano e trascendono la nuda vita, e li genera servendosene. Il vero conflitto non è tra la vita e la trascendenza, ma tra l’esistenza individuale e i fini generali. Ma questa non ha la forma semplice della contrapposizione immanenza-trascendenza. L’esistenza individuale è tessuta dei significati generali che la trascendono. Senza di essi non sarebbe nulla, non potrebbe accedere a un volere se stessa, cioè tendere verso l’affermazione di se stessa, né quindi soffrirebbe per la perdita di sé. Sarebbe la ciclicità cieca dell’organico, cioè non farebbe problema. Non sarebbe il particolare, se per particolare si intende quell’individuo lì, nella sua specificità. Solo lo sguardo umano, in cui l’intenzionalità ha investito in profondità l’esistenza, può riflettere sulla perdita del particolare guardando una foglia. Non solo la foglia se ne infischia, ma ogni forma di vita che sia davvero, radicalmente, solo ciclicità organica. Tutte le forme di vita che appena appena superano questo stadio, sul piano della coscienza, in effetti accedono a un volere essere particolare. Il gregge che ascolta stupefatto l’uomo, in Leopardi-Nietzsche, è in effetti molto più vicino a noi, i due non gli hanno reso giustizia.
Però il problema dell’opposizione immanenza-trascendenza si pone su un piano molto più elevato (complesso) della coscienza. E’ l’opposizione tra due universi culturali. L’immanenza intesa come al di qua, come la vita umana che possiamo vivere in questa terra, è un progetto culturale. E’ un orizzonte di senso e un ideale normativo. Si contrappone alle forme di trascendenza assoluta, non oggettivabile, che hanno dominato incontrastate la vita dell’umanità sotto la religione e il sacro, sotto gli ordini sociali arcaici e tradizionali (e che la dominano ancora, più o meno nella stessa forma, finché e dove questi ordini durano). Il processo di razionalizzazione ha eroso tutto questo. La modernità è il rovesciamento dei rapporti tra il sacro e il profano. Questo, finalmente, chiede a quello di pagare il conto. Il profano diventa il centro dell’esistenza. Ma questo rovesciamento non toglie che viviamo sempre nella forma di vita umana, cioè quella in cui i significati generali trascendono sempre la coscienza, e così la costituiscono. Il profano è il nostro sacro. L’immanenza è il valore in cui crediamo. Questo è il vero problema. Se il valore ultimo è l’orizzonte empirico della mia esistenza, le trascendenze note (Dio, Patria e Famiglia, e simili) impallidiscono, vengono respinte. Questo non vuol dire affatto che la vita è oggettivata. La vita dell’al di qua oppone a quelle vecchie trascendenze i suoi ideali (rispetto delle persone, benessere, ecc.). Non si fa più prendere per il naso, diciamo.
Questo forse può creare qualche problema per la creazione artistica, non lo so, ma tutto sommato non mi sembra così male.
Grazie Guido Mazzoni per averci proposto questo bel testo e per la bellissima analisi.
Ora, definire Carver un qualunquista, per quanto novo, per me equivale a dire che non lo si è capito, se lo si è letto. Trovo una profondità tragica in Carver che ha pochi confronti nella narrativa degli ultimi decenni. Come in quel romanzo (forse a quel livello di intensità solo in quel romanzo) di Houellebecq. Carver sembra a volte non parlare di niente, e poi ti accorgi che proprio quel nulla che accade (che comunque accade) ti riguarda personalmente. Sei anche tu, quel nulla in quella scena.
Così, attualizzando, anche certi movimenti quasi immobili di Stevens, come quelli delle foglie d’inverno, sono il nostro nulla che accade. Da questo nulla e questo vuoto può ripartire la ricerca di senso, e la nostalgia di comunità, la possibilità di spezzare le solitudini e di fidarci dello stare al mondo. Guido Mazzoni ce lo ha detto con I Mondi, quale destino stiamo costruendoci. Quella raccolta (e così questo articolo) io la leggo come una denuncia, come una fredda (e per questo vera) e non sentimentale analisi delle nostre relazioni, delle meccaniche e delle forze che stiamo tutti contribuendo a costruire e a far vincere. Anche soltanto ignorandole.
In ultima analisi fa quello che un grande poeta sa fare: dis-velare. Provocare consapevolezza.
La sua traduzione, altrove contestata, deve quindi essere letta come appartenente al suo mondo poetico. Per questo la trovo commovente.
La poesia e il commento sono molto belli. Vorrei partire da una osservazione di @mauro piras che condivido, per poi fare una domanda (vado subito al punto di dissenso, per economia della discussione).
“La modernità è il rovesciamento dei rapporti tra il sacro e il profano. (…) Il profano diventa il centro dell’esistenza. (…) L’immanenza è il valore in cui crediamo. (…) Questo non vuol dire affatto che la vita è oggettivata. La vita dell’al di qua oppone a quelle vecchie trascendenze i suoi ideali (rispetto delle persone, benessere, ecc.)” (Mauro Piras)
Il progetto della modernità mi sembra fatto di due elementi: (i) l’utilitarismo (il soggetto sono aggregati di individui di cui massimizzare il benessere) e l’emergere della probabilità come sostituti dei vecchi universali; (ii) l’idealismo morale, per cui il soggetto è l’individuo come fonte autonoma di discorso e azione morali. Questi due elementi sono problematici, così come il loro rapporto; ma senza di essi, non saprei dire in cosa consista la modernità.
Vorrei chiedere a Guido Mazzoni se la storia del nichilismo sia uno schema narrativo abbastanza ampio da rendere la ricchezza e le contraddizioni del progetto e della realtà del moderno. Ho l’impressione che in Europa il nichilismo abbia già compiuto il suo cammino portandosi giù l’egemonia della cultura platonico-cristiana – e questa non è la fine della storia.
Trovo estremamente illuminante il breve intervento di Piras, non solo e non tanto per lo schema generale che condivido, quanto per ciò che traspare sul suo personale punto di vista.
Piras parte facendo l’arbitro e finisce per indossare la maglietta di una delle due squadre in campo (egli dice “Non si fa più prendere per il naso”). Così facendo, mostra una grande sincerità, ma mette anche in evidenza un elemento che mi pare non appaia nelle sue parole.
Il punto qui non è la distinzione tra sacro e profano, e in qualche modo egli ne da conferma quando finisce col dire che anche il profano è sacro, ma semplicemente la contrapposizione tra due distinte ideologie che non possono tollerarne nessun altra. Non è un caso che i valori della cosiddetta laicità si intendono assodati, nessuno può venire fuori dicendo che egli non crede nei valori laici, diventa immediatamente un fuorilegge, un nemico della società, ed in questo modo la società laica finisce per comportarsi esattamente come una società teocratica nei confronti degli eretici.
Ogni giorno ci da conferma incontrovertibile del carattere ideologico pervasivo della nostra società e dello stesso progetto della modernità, i cui valori non possiamo che mettere ormai in discussione apertamente.
Nel merito, la modernità non promuove affatto il rispetto della persona, nello stesso concetto di progresso è esclusa a priori qualsiasi cura della persona in quanto individuo, mentre trovo molto vero ciò che scrive Baldini, la scommessa sulla morale individuale, una scommessa che trovo fatale per l’umanità come ci appare da mille evidenze quotidiane, dalla deriva etica della società contemporanea.
La questione del nichilismo in Stevens è già traccia di una diversa apertura di senso. Vorrei rimandare ad altre due composizioni che fanno da filo conduttore tra la stagione iniziale e quella finale del poeta americano che, per inciso, non è la più importante:
http://rebstein.wordpress.com/2008/08/17/the-snow-man-di-wallace-stevens-di-gianluca-dandrea/
http://gianlucadandrea.wordpress.com/2011/12/26/lebensweisheitspielerei/
Riflettendo sull’oscillazione tra la necessità di un reale scabro e immanente e l’ineluttabilità dell’immaginazione creativa, la risultante dell’opera di Stevens continua ad essere questa ambivalenza antidialettica, forse per questo la summa del suo pensiero poetico è rappresentabile da un componimento, July Mountain che da un po’ cerco di tradurre.
Tutte le volte che leggo Stevens tradotto da Renato Poggioli (agli inizi degli anni ‘cinquanta, con la ‘supervisione’ dello stesso Stevens, e questo rende quella traduzione preziosa) trasalgo assai spesso, e con il passare dei decenni trasalgo sempre più spesso, anche se resto affezionatissimo a quella traduzione; salto di continuo fra la pagina in inglese e quella in italiano, e l’effetto in me è una sorta di lettura meticcia. Faccio l’esempio di “The House was Quiet and the World was Calm”, tradotta a questo modo: “Stava in quiete la casa e il mondo in calma” (il trasalimento è assai inevitabile, o no?). Tant’è che Guido Carboni in coda alla sua Nota critica a “Mattino domenicale e altre poesie” (la nota è del 1988, in occasione della ristampa del libro, dopo trentaquattro anni) scrive che le “traduzioni di Poggioli sembrano sempre vibrare di un tocco di “poeticità” in eccesso, come se una lingua parlata poetica di quel tipo non fosse ancora pienamente disponibile in italiano, e la lingua della poesia fosse ancora di un registro appena più aulico”. (“appena più aulico” appare espressione assai eufemistica). E tutta questa premessa è per dire che in questa versione di Guido Mazzoni è come se quella lingua si fosse (finalmente) resa pienamente disponibile. Ma insieme a questo fatto ce ne è un altro, ed è la questione della partizione strofica. E qui, almeno mi sembra, Mazzoni fa qualcosa di davvero speciale. Per esempio, la poesia di cui dicevo fa così: The house was quiet and the world was calm./ The reader became the book; and summer night// Was like the conscious being of the book./ The house was quiet and the world was calm.// The words were spoken as if there was no book,/ Except that the reader leaned above the page,// Wanted to lean, wanted much to be/ The scholar to whom his book is true, to whom// The summer night is like a perfection of thought./ The house was quiet because it had to be.// The quiet was part of the meaning, part of the mind:/ The access of perfection to the page.// And the world was calm. The truth in a calm world,/ In which there is no other meaning, itself// Is calm, itself is summer and night, itself/ Is the reader leaning late and reading there.; insomma, in questa poesia, la “sintassi distesa” di Stevens (Carboni) è portata entro una partizione strofica esattissima che le fa quasi da contrappeso … ma Mazzoni anziché “il ritmo delle terzine” “segue” “la logica del discorso”, e trova una partizione “implicita nel testo”, e a questo modo lo re-interiorizza, lo re-interpreta, in un “sistema culturale” che non è certamente più lo stesso di sessanta anni fa. Grazie. È una poesia splendida.
Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti nella discussione; mi scuso se rispondo con qualche giorno di ritardo. Cerco di tenere insieme i problemi e di procedere per punti.
1. Mi sembra che Ennio Abate e Gabriel Del Sarto abbiano costruito i propri interventi intorno a un’interpretazione opposta del ruolo degli scrittori e degli intellettuali. Per Del Sarto gli scrittori debbono dire la verità sul presente e consegnarci alla nostra condizione, come a suo giudizio accade nelle opere di Carver e di Houellebecq; per Abate la letteratura e la cultura debbono indicare anche quelle che Lukács (e Fortini lettore di Lukács) chiamavano “le controforze”, cioè le correnti di azione politica e di pensiero capaci di mimare lo stato di cose presente, e al tempo stesso di mostrare, in forma esplicita o implicita, un’alternativa reale o utopica. Di qui la critica a coloro che, muovendo da posizioni molto diverse, sembrano rassegnarsi a ciò che è, o perché non conoscono alternative (Carver e Houellebecq), o perché vedono nell’”American way of life” il destino dell’uomo occidentale, come secondo Abate farebbe Luperini nel suo ultimo libro.
Conosco e rispetto la posizione di Abate; una parte della mia formazione proviene dai suoi stessi autori. Oggi sono su posizioni diverse per molte ragioni: perché, pur non amando lo stato di cose presente, non vedo controforze o prospettive politiche capaci di trasformarlo o anche solo di riformarlo, e prima ancora per una scelta di poetica. In uno dei suoi saggi Lukács cita con riprovazione una frase di Čechov: il compito di uno scrittore è impostare giustamente un problema, non risolverlo. Secondo me, Čechov ha ragione. La speranza è che la mimesi lucida della realtà produca una lettura e una reazione di tipo politico.
2. Attraverso Freud, Lacan e (mi sembra) gli interpreti contemporanei di Lacan (Recalcati) Pietro Bianchi illustra una tesi che la psicoanalisi del XX secolo ha articolato in molti modi: che al fondo della condizione umana ci sia la spinta a un godimento acefalo, fondato sulla ripetizione e, in ultima analisi, sulla pulsione di morte. Gli ideali ascetici, le forme di umanesimo sarebbero costruzioni fragili e secondarie. Assocerei a questa tesi una tesi complementare, quella che Kojève trae dalla lettura di Hegel: che la forma di vita borghese, di cui l’”American way of life” è il compimento, realizzi una sorta di nuova animalità, uno stadio storico in cui gli esseri umani rivendicano il diritto di esistere per sé e per i propri desideri, senza più bisogno di trascendenze, di riconoscimento, di legami estesi, in un’immanenza assoluta che ripete, su un piano di complessità ulteriore, l’immanenza assoluta della vita preumana. Sono due antropologie filosofiche diverse ma per molti aspetti sovrapponibili.
Quando ci si trova davanti a un’antropologia filosofica si ha spesso a che fare con un’ipotesi di fondo sulla natura umana che chiede di essere accolta o respinta con una petizione di principio. (Si potrebbe dire che in fondo a ogni filosofia c’è una petizione di principio, l’argomentazione essendo solo un gioco linguistico che, alla fine, persuade solo chi è già stato persuaso da forze anteriori e estranee al pensiero – ma questo discorso ci porterebbe molto lontano). All’altezza della nostra epoca possiamo vedere che gli elementi costitutivi della forma di vita occidentale contemporanea (l’individualismo, la chiusura nel privato, l’edonismo, il nichilismo, il consumo, lo spettacolo come rapporto sociale fra le persone mediato dalle immagini, ecc.) riattivano costanti storiche di lunga durata e intercettano qualcosa di profondo. Riattivano per esempio, ad un grado diverso di elaborazione, quel sostrato di vitalismo, cinismo e scetticismo che ha contraddistinto la cultura delle classi popolari in molti luoghi e epoche, e che si trova rappresentato da una lunga tradizione letteraria. Ciò si lega, io credo, a quello che Bianchi scriveva nel suo intervento.
3. Mauro Piras ha ragione quando scrive che gli esseri umani sono sempre circondati da significati, e in questo senso vivono avvolti in una forma di trascendenza. E’ quello che dice anche il testo di Stevens: le persone si situano in una sfera di realtà ulteriore rispetto alla sfera abitata dalle foglie, e questo perché attribuiscono significati. E’ un a priori della condizione umana.
Ciò su cui mi interessava soffermarmi nel commento, andando oltre il testo, è il divenire delle sfere di senso. Nel contesto di questa riflessione le parole “trascendenza” e “immanenza” assumono un significato diverso e si caricano di un indice storico. Usando le parole in questa seconda accezione, si può dire che individualismo, chiusura nel privato e consumo sono forme di immanenza assoluta, di assoluta profanazione. Ci tengo però a sottolineare che l’avvento della dimensione profana è anche una straordinaria conquista storica; e lo è anche nelle forme che si prestano più facilmente alla critica. Su questo punto credo di essere in disaccordo con Vincenzo Cucinotta. Spesso il critico sociale tende a dimenticare che il consumo di cose e persone – e prima ancora il “benessere” – contengono anche un elemento liberatorio sul quale sarebbe interessante riflettere davvero. Il punto è che, come nella più pura delle dialettiche dell’Illuminismo, questo elemento distrugge oltre che creare. La dialettica dell’Illuminismo è la vera cifra del nostro tempo, e non conosce conciliazione; il progetto politico che si proponeva di risolverla (il comunismo nell’accezione fortiniana del termine) non esiste più. Occorre dire che probabilmente non è mai esistito in quella forma: è sempre stato una proiezione utopica destinata a soddisfare desideri di giustizia e integrità, ma di fatto era destinato fin dall’inizio a produrre forme di potere totalitario, a fallire. E d’altra parte le critiche che rivolgiamo allo stato di cose presente provengono ancora, direttamente o indirettamente, dal modello di vita sociale e di persona umana che la politica rivoluzionaria moderna ha fatto proprio. Evidentemente quel modello intercetta alcune esigenze di libertà autentica, di eguaglianza e di solidarietà cui non possiamo rinunciare, anche se sono del tutto irrealistiche.
4. Ringrazio Gianluca D’Andrea per la segnalazione e Gabriel Del Sarto e Adelelmo Ruggieri per i loro giudizi. Di “The Course of a Particular” si è discusso su “Moltinpoesia”, come segnalato da Ennio Abate nel suo primo intervento.
Innanzitutto vorrei ringraziare Guido Mazzoni per le risposte – davvero interessanti – ma soprattutto per il bel pezzo su Wallace Stevens (la discussione scatenatasi penso stia lì a dimostrarlo).
Vorrei dire soltanto un paio di cose a lato della sua risposta per specificare un po’ meglio la mia argomentazione:
è certamente vero che si possa delineare una sorta di antropologia filosofica basata sull’economia pulsionale a partire dalla prospettiva aperta della psicoanalisi. E’ però interessante notare che al netto di un dibattito di quasi un secolo, gli orientamenti psicoanalitici che hanno accettato il concetto di pulsione di morte siano tutto sommato una minoranza. Il sottogruppo dei lacaniani, per quanto storicamente “balcanizzati” al loro interno, mantiene il riferimento a questo concetto come tratto comune ma vi sono non di meno molte differenze, anche significative, riguardo al modo di articolarlo. Se la ripetizione irriducibile al senso è la base materialistica trans-storica e naturalistica anche dell’uomo, come affrontare i suoi affioramenti storici? Alcuni psicoanalisti (Pierre Bruno, Melman) pensano che di fronte a un contemporaneo cinico e nichilista che ha fatto della pulsione di morte una nuova forma di legame sociale perverso debba tornare la Legge, che sola è capace di rendere possibile il desiderio con l’interdizione; altri (Recalcati) che si possa elaborare un’opzione neo-umanistica incentrata sul concetto di sublimazione; altri ancora (Jacques-Alain Miller) che si debba assecondare il molteplice in dispersione del contemporaneo con delle modalità singolari e sempre particolari di dare forma al godimento (come secondo Lacan lo fu il godimento della lettera del Joyce di Finnegan’s Wake). A me pare, pur mantenendo il riferimento a Lacan come fondamentale, che tutti questi modi (reazionario, umanista e cinico) siano in fondo reattivi rispetto alla scommessa da parte della modernità di pensare alla resistenza che ogni materialismo oppone alla sua elevazione a significato. In altre parole, la modernità ci spingerebbe a pensare il motivo per cui le foglie di Wallace “fanno buco” rispetto ad ogni possibilità di elevazione trascendente.
Wallace lo dice splendidamente in quel “grido di foglie che non trascendono se stesse” che non significano “più di ciò che sono”, un grido che alla fine “non riguarda più nessuno”. Il problema filosofico di fondo io credo sia proprio il seguente: come avere a che fare con questo materialismo inerte, con la resistenza che la ripetizione oppone alla sua elevazione a significato? Un materialismo che la psicoanalisi ci dice non stare fuori dall’uomo ma essere nel suo centro più intimo.
Badiou pensa che a una via poetica, Heideggeriana, che pensa l’essere come assegnazione e dono, come presenza e apertura, vi sia una via che io chiamerei scientifica, anche se di una scienza che non ha certo i tratti dell’assoggettamento idealistico del concreto da parte dell’astratto (Badiou la definisce una via sottrattiva). Io credo che Lacan, sulla scia del disincanto scientifico di Darwin e Copernico, ma anche di Cartesio oltre che di Riemann, Cantor, Einstein, Gauss, Bohr e Heisenberg intraprenda questa via. Ovvero di una psicoanalisi come di una pratica (probabilmente infinita) di come abitare il ritrarsi continuo, estenuante e infinito del senso; di una pedagogia che provi a creare una forma soggettiva all’altezza della ferita narcisistica inferta dalla modernità.
Ma per fare questo è necessario separare questo materialismo inerte e sottrattivo (come lo sono le foglie di Wallace), dall’esposizione cinica e compiaciuta del godimento distruttivo capitalistico. Io credo che queste due “immanenze” se così le vogliamo chiamare vadano innanzitutto separate l’una dall’altra. Mi pare invece che Guido Mazzoni finisca inevitabilmente per riunirle in un unico concetto. Ma credo soprattutto che il carattere di ripetizione del godimento capitalistico finisca per essere un evitamento dell’angoscia provocata dal materialismo “fuori senso” della scienza e non certo il suo alleato.
In effetti la mia posizione sta nelle coordinate individuate da Mazzoni. Aggiungo: impostare “giustamente” un problema è la prima fase della sua risoluzione, la prima inevitabile fase per una speranza successiva. Perché impostare qui vuol dire ascoltare, analizzare, limare i pre-giudizi, pure se utopici. Figuriamoci se ideologici. C’è più possibilità di speranza in Carver di quanto se ne possa intravedere superficialmente. Almeno questa è la mia lettura delle pagine.
Ringrazio Mazzoni per l’attenzione che mi ha voluto dedicare, ma non credo di potere convenire con lui.
La questione centrale su cui vedo che è davvero difficile far convergere gli interlocutori, è che noi non stiamo in un non luogo da cui possiamo esprimere una valutazione in qualche misura asettica dell’ideologia in cui siamo immersi, sicuramente quella illuministica, ma stiamo prorpio immersi in quella stessa ideologia su cui pure saremmo chiamati a pronunciarci.
Utilizzare adesso i valori stessi dell’illuminismo per darne un giudizio è un’operazione che ha davvero poco senso. Se partiamo dalla retorica della libertà, una delle parole il cui significato è più vago e sfuggente, e dal sogno dell’eguaglianza, che pure un significato preciso l’avrebbe, ma che volutamente viene usata in modo improprio, non possiamo uscire da questa ideologia.
La scommessa sarebbe proprio quella di rivisitare questi termini in maniera critica, e valutare l’illuminismo in una prospettiva storica meno angusta di quella della contemporaneità, sennò è come rimirarsi allo specchio sperando di vedere persone diverse da noi stessi, al più un’illusione.
“All’altezza della nostra epoca possiamo vedere che gli elementi costitutivi della forma di vita occidentale contemporanea (l’individualismo, la chiusura nel privato, l’edonismo, il nichilismo, il consumo, lo spettacolo come rapporto sociale fra le persone mediato dalle immagini, ecc.) riattivano costanti storiche di lunga durata e intercettano qualcosa di profondo” (Guido Mazzoni).
La constatazione consapevole di un’esigenza di scavo, probabilmente una diversa interiorità si scopre da queste problematiche inerenti la chiusura e se
“La dialettica dell’Illuminismo è la vera cifra del nostro tempo, e non conosce conciliazione; il progetto politico che si proponeva di risolverla (il comunismo nell’accezione fortiniana del termine) non esiste più. Occorre dire che probabilmente non è mai esistito in quella forma: è sempre stato una proiezione utopica destinata a soddisfare desideri di giustizia e integrità, ma di fatto era destinato fin dall’inizio a produrre forme di potere totalitario, a fallire” (Guido Mazzoni),
allora non dimenticherei il fatto che soltanto nella chiusura interiorizzante si sente (Merleau-Ponty) il vincolo, lo statuto di dimora presieduta dal nostos. I richiami romantici (vedi Novalis) di Adorno sono una spia che sottolinea la perduta dimensione umana e che ri-apre (dialetticamente) a una ri-disposizione prossima, evidente, fenomenica.
Pietro Bianchi e di Vincenzo Cucinotta propongono dei temi molto interessanti. Provo a seguire le loro riflessioni.
– Sicuramente si può interpretare ciò che Lacan chiama “il discorso del capitalista”, quello in cui “la macchina del godimento sostituisce la macchina della rimozione”, come una risposta psicotica all’angoscia di un mondo disincantato. Non saprei però immaginare una reazione non nevrotica o non psicotica al mondo disincantato. O meglio: porrei il problema in modo diverso. E’ vero che il senso comune moderno ha perduto la capacità di rispondere alle domande “perché?”, “a che scopo?”; ed è indubbio che il consumo inteso come forma di vita – come rapporto col proprio destino, col tempo e con gli altri mediato dai corpi e dalle cose – è una reazione a questa perdita, una delle più efficaci, una delle migliori («Dare l’illusione del paradiso in terra è l’obiettivo finale del consumismo; o, se si vuole, il consumismo è una protesta per l’inesistenza di Dio», Siti, “Troppi paradisi”). D’altra parte nella quotidianità media l’insensatezza e l’angoscia sono presenti per lo più come un rumore di fondo, come un suono che in teoria è sempre percepibile ma che, nella pratica, viene quasi sempre coperto da altri suoni. Normalmente le persone vivono immerse dentro le proprie piccole sfere di senso all’interno delle quali ogni cosa ha un tenace significato regionale. Aggiungo che una parte consistente di queste sfere non è legata al consumo ma alla dimensione inerte, millenaria, della vita privata (alla felicità o all’infelicità che si ricava dagli affetti personali, dal lavoro, dalla famiglia), quella dimensione che la società borghese ha trasformato in un valore pubblico. Nella quotidianità media il problema del senso per lo più non si pone. Si pone solo negli stati di crisi: quando le epifanie della morte o, più banalmente, la frustrazione e la sconfitta fanno riemergere le domande cui oggi non c’è risposta. Ma in condizioni ordinarie il mondo disincantato sta in piedi benissimo, nonostante il rumore di fondo che lo accompagna. Naturalmente ciò non elimina né l’angoscia né il problema del senso; aiuta però a considerarli in modo diverso.
– Sul problema dell’Illuminismo credo di avere una posizione diversa da quella di Vincenzo Cucinotta, se interpreto correttamente le sue idee. Questo per due ragioni: perché credo che un’epoca non si possa rifiutare con un verdetto di ripudio, come recita una frase di Heidegger che contiene lo spirito di ogni storicismo; e perché l’Illuminismo rimane per me una conquista. Se esiste una soluzione alla dialettica dell’Illuminismo, questa soluzione va trovata all’interno dell’orizzonte illuministico.
Una breve replica, l’ultima qui, lo prometto.
Un’epoca certamente non si chiude per decretazione, ma la rivoluzione culturale necessaria che può avanzare solo lentamente con i propri tempi, richiede però un inizio, ed all’inizio ci deve stare la proposta culturale rivoluzionaria, che è comunque un evento puntiforme.
Poi, naturalmente, c’è chi condivide un ‘ideologia illuminista, chi non la condivide. Io mettevo in guardia dal valutare l’illuminismo dall’interno del proprio stesso sistema di valori, tutto qui.
Infine, io sono convinto che l’antropologia implicita nell’ìilluminismo sia irreale, direi perfino rozza,e questa inadeguata base antropologica spiga pienamente i suoi fallimenti, che pure dovremmo avere ben evidenti come uomini del nostro tempo.
Vorrei, entrando nel merito di alcune questioni emerse dalla discussione di questo post, spiegare più a fondo il mio disaccordo con la lettura che Guido Mazzoni ha dato della poesia di Stevens ma anche con le opinioni di alcuni commentatori e persino con l’ideologia che intravvedo nel testo del grande poeta americano. Vado per punti:
1. Non credo che Carver o Houellebecq dicano «la verità sul presente». So che definendoli ‘qualunquisti ‘ ho tagliato con l’accetta, ma volevo marcare un dissenso. Sì,questi scrittori davvero ci “consegnano” (termine sintomatico!) alla nostra condizione, invece di interrogarla e scrollarla. In Carver, ad esempio, sospetto un’estetizzazione della vita di periferia. (Inciso: eppure vivo da molti decenni in periferia). Leggo qualcuno dei suoi racconti. Leggo qualcuno dei suoi versi (Ci ho pianto per quella/però in quei giorni avevo le lacrime facili/Non datemi da bere roba forte/ se no divento cattivo). Subodoro in partenza l’assenza (forse neppure la rinuncia) ad un qualsiasi (possibile) ‘noi’ politico, che oltrepassi cioè i legami quotidiani o “interpersonali” e mi cascano le braccia. Che me ne faccio del quotidiano, così come viene vissuto dal singolo imprigionato nella sua «individualità privata personale», con minime e falsate relazioni con gli altri e che manco intravvede le «pure potenze astratte» che ci dominano? A me pare uno che parla bene della sua prigione. Ma resto convinto che un prigioniero non può rinunciare alla fuga, non può compiacersi della prigione, non può decorarla, non può solo rappresentarsela “lucidamente” (dirò meglio al punto 6…), non può dimenticare i nemici che l’hanno imprigionato e non odiarli e non combatterli con tutti i mezzi a sua disposizione; non può, infine, “naturalizzarlo” il suo quotidiano, vederlo come fosse sempre lo stesso sotto tutti i poteri politici, a tutte le latitudini, una sorta di rumore di fondo eterno che accompagni vicende storiche peraltro indefinite o indegne di attenzione.
2. Quando Mazzoni scrive: «All’altezza della nostra epoca possiamo vedere che gli elementi costitutivi della forma di vita occidentale contemporanea (l’individualismo, la chiusura nel privato, l’edonismo, il nichilismo, il consumo, lo spettacolo come rapporto sociale fra le persone mediato dalle immagini, ecc.) riattivano costanti storiche di lunga durata e intercettano qualcosa di profondo. Riattivano per esempio, ad un grado diverso di elaborazione, quel sostrato di vitalismo, cinismo e scetticismo che ha contraddistinto la cultura delle classi popolari in molti luoghi e epoche, e che si trova rappresentato da una lunga tradizione letteraria», rischia di concedere quasi un merito ai rapporti sociali esistenti (capitalistici per me): essi permetterebbero una sorta di rivincita del “popolare”, del “plebeo”, del “profondo”. Non è così. Semmai si ha un’ulteriore sottomissione e un disfacimento ulteriore di quello che fu la vitalità veramente popolare o plebea nelle sue forme storiche tramontate. E lo stesso penso si possa dire per l’«animalità» che l’”American way of life” realizzerebbe. Non è «nuova», ma una forma corrotta di quella (immaginaria forse) di una volta. Non credo, dunque, che «il consumo di cose e persone – e prima ancora il “benessere” – contengono anche un elemento liberatorio sul quale sarebbe interessante riflettere davvero». Proprio se ci riflettiamo, vediamo che di liberatorio non c’è quasi niente. O si tratta di un liberatorio “a tempo determinato” vissuto in rapporti sociali di dominio inalterati. Ogni eventuale godimento è nei limiti dell’individualismo, porta il suo marchio.
3. Perché oggi i poeti e gli scrittori non riconoscono più quanto questo quotidiano sia conforme a quei poteri (capitalistici), modellato da essi, sottomesso ad essi? Evitando o snobbando queste domande, non distinguendo più natura da storia (o il tragico che è nella natura dal tragico che è nella storia e dalla storia semmai viene prodotto), secondo me la loro pretesa di rappresentare o fare i conti con ciò che c’è di realmente tragico nella vita o, se si vuole, nella “condizione umana” risulta indebolita. E perciò non capisco (sarà un mio limite) come qualcuno, sullo spunto della poesia di Stevens, possa dire che «da questo nulla e questo vuoto può ripartire la ricerca di senso, e la nostalgia di comunità, la possibilità di spezzare le solitudini e di fidarci dello stare al mondo». Mai – penso io – si è ripartiti dal nulla. E anche appoggiarsi alla «nostalgia di comunità» mi pare generico (oltre che rischioso e trascuro di esemplificare). Le nostre indubitabili solitudini non si spezzano inseguendo queste fantasie. Almeno la parte di esse, che è stata costruita storicamente (risultato di conflitti storici che ci hanno diviso e si spartiscono il mondo e continuamente lo riconfigurano a forza di spartizioni violente), andrà rimossa.
4. La mia accusa di rassegnazione non è tanto rivolta all’individuo Carver. Forse egli, nelle condizioni della sua esistenza, ha persino resistito e ha lottato come poteva, con la scrittura. La mia accusa non è all’individuo, ma all’individualismo, che s’insinua anche dove poeti e scrittori o gente qualsiasi potrebbero resistervi e invece si convincono a non resistere. Lo «stato di cose presente» nessuno (a meno che non ne tragga privilegi e vantaggi) può “amarlo”. Non c’è poi da affaticarsi a vedere se ci siano in giro oggi «controforze o prospettive politiche capaci di trasformarlo o anche solo di riformarlo». Non ci sono. Non se ne vedono. Lo dico io per primo. (Non sono stato tra gli apologeti delle «primavere arabe» o dei «liberatori della Libia» dal Tiranno).
5. Posso, dunque, concordare sull’affermazione che «il progetto politico che si proponeva di risolverla [la dialettica dell’illuminismo] (il comunismo nell’accezione fortiniana del termine) non esiste più». E persino sull’altra successiva: «Occorre dire che probabilmente non è mai esistito in quella forma: è sempre stato una proiezione utopica destinata a soddisfare desideri di giustizia e integrità». Ma con alcune precisazioni non secondarie. Nella lunga storia del comunismo otto-novecentesco, purtroppo non più frequentata, ci sono stati almeno due “lampi” (uno marxiano, l’altro leniniano) in cui quel movimento non fu solo «proiezione utopica» ma colse spinte reali. Nella rivoluzione industriale studiata da Marx l’ ipotesi di una ricomposizione del lavoro manuale e intellettuale nel marxiano «lavoratore collettivo cooperativo» che andava «dall’ingegnere all’ultimo manovale» (La Grassa) non fu pura utopia (lo divenne poi con lo svolgimento storico successivo, ai tempi della socialidemocrazia…). E l’alleanza, anche questa realizzatasi sia pur solo per “un attimo” e magari in circostanze eccezionali ( la Prima Guerra mondiale) in un paese “arretrato” come la Russia zarista, tra classe operaia (minoritaria) e contadini produsse una vera rivoluzione, quella del 1917 . Se a questi “lampi” sono poi seguite varie *nuttate* di sconfitta, di smarrimento, di tradimento, ma non certo l’immobilità (la storia è andata per altre vie, non quelle sperate o del “sol dell’avvenire”, ma è andata e va…), nulla, proprio nulla, dovrebbe indurre chi – poeta o persona comune – non “ama l’esistente” ad accogliere la vulgata oggi imperante, che sostiene appunto che tutto quel moto scaturito dal “salto industriale” «di fatto era destinato fin dall’inizio a produrre forme di potere totalitario, a fallire». Insisto. Non ci sono “destini”. Né dell’uomo “comunista”, né dell’uomo “occidentale”. E scarto la “scommessa nichilista”, limitandomi semplicemente a non parlare in modo ultimativo di destino di fronte a quello che, a conclusione di un lungo periodo storico (ma non della storia), oggi ci troviamo di fronte, sia pur ridotti nella scomoda condizione di epigoni. Mi sforzerei di esserlo in modo critico, di non dimenticare quei “lampi”, anche se non intravvedessi nessun’alba o esodo possibile o la possibilità di colmare il “vuoto” del Conflitto Sconfitto.
6. Dando per scontato questa condizione di epigoni di una certa storia (non riducibile a “storia criminale”) e che da lì – lo ammette pure Mazzoni – ancora possiamo trarre alimento per «le critiche che rivolgiamo allo stato di cose presente», mi chiedo: allora, in una situazione del genere, cosa fa un poeta, uno scrittore? quale la sua «scelta di poetica»? Mazzoni, citando Čechov contro Lukács, sostiene che «il compito di uno scrittore è impostare giustamente un problema, non risolverlo»; e si affida alla speranza che «la mimesi lucida della realtà produca una lettura e una reazione di tipo politico». Potrei, anche su questo, essere quasi d’accordo. Sempre però aggiungendo che nella «mimesi lucida», se davvero essa è lucida, c’è (e il poeta deve in qualche modo saperlo/volerlo) già una reazione di tipo “politico” da parte sua. Non si danno mimesi neutre, che poi, in virtù di chissà quale miracolo, produrranno reazioni «di tipo politico». La sua posizione, che può apparire persino più rispettosa del lettore o degli altri, perché sembra dire: io la penso cos;: ora tu, per conto tuo, vedi cosa devi o puoi fare, a me pare negare che – ecco ancora l’individualismo che fa capolino – lui (il poeta, lo scrittore) e il lettore – per me non individui monadici, ma “io-noi” inquietamente dinamici – siano implicati da subito (dal fatto di vivere in società, direi) nella rappresentazione lucida (non neutrale) della realtà e quindi nella costruzione della stessa (non posticipabile) reazione politica. So che parlare di «politicità» della scrittura evoca cattivi fantasmi, ma senza di essa nessuna mimesi (qualsiasi cosa dobbiamo oggi intendere con questo termine) sarà mai «lucida».
7. In un commento Pietro Bianchi parla di «inerte materialità (che del bisogno di trascendenza dell’uomo se ne frega». Gli chiedo: perché la materialità sarebbe inerte? Neppure «quella delle foglie di Wallace Stevens […] di cui l’uomo sembra proprio non volerne sapere nulla» lo è. E poi la materialità, di cui qui si parla, cosa ha a che vedere con quella che ha i connotati delle società capitalistiche? Lo «stato di cose» è tutto «biologia» o la stessa biologia si dipana entro assetti di dominio/subordinazione, che si sono imposti storicamente nei rapporti sociali, che rendono iperattivi certi gruppi di uomini e “inerti” (condannati alla disoccupazione, al precariato, alle guerre e alla fame) milioni di altri?
8. Nel commento di Piras mi va bene la sua difesa dell’«immanenza intesa come al di qua, come la vita umana che possiamo vivere in questa terra, [come] progetto culturale». Ma non capisco perché dire che «l’immanenza è il valore in cui crediamo». Credo sia solo il campo della possibile progettualità della vita sociale, nella quale in vari modi operiamo. E mai circoscriverei tale campo all’«orizzonte empirico della mia esistenza», come fa appunto l’empirismo individualistico. Infine, se non capisco male, se sostiene che «il profano è il nostro sacro», fa rientrare dalla finestra il sacro che era stato scacciato dalla porta: rilanciare processi di sacralizzazione del profano o nel profano ci riporta a esperienze rischiose (miti nazisti o comunitaristi o culti della personalità).
9. Infine, visto che nessuno ha risposto alla mia provocazione, azzardo io, seguendo sia il testo di Stevens nella traduzione di Mazzoni e sia il suo commento, quell’esercizio invano auspicato. Lo troverete troppo “antiquario-contenutistico-politico”, ma non mi dispiace.
« Oggi le foglie gridano. Pendono dai rami che il vento agita». Primo rintocco di campane a morto. Bene. Ho imparato ad accettare che le foglie, almeno in poesia, gridino o persino parlino. Ed io le ascolto (ascolto Stevens). Stevens ripete – secondo rintocco di campana a morto – «Le foglie gridano». E introduce quell’impersonale «Si rimane a distanza, ci si limita a ascoltare», che è per me il riassunto della sua visione del mondo e degli altri. Forse della sua esperienza – mi permetto di insinuare – di intellettuale americano, perché – seconda insinuazione – non è che i suoi connazionali e soprattutto i governanti di quel suo paese facciano questo o abbiano mai fatto questo nella loro storia…E che sia proprio la sua visione del mondo e che la poesia la confermi, ce lo dicono i versi successivi: «Ma per quanto si dica che uno è parte di tutto/ c’è un conflitto implicito, c’è una resistenza;/ essere parte è uno sforzo che declina». Poi un terzo rintocco della solita campana e la nostalgia del sublime (divino-eroismo- umanesimo) ha il suo piccolo spazio, la sua gelida ma sotto sotto commossa, intima, rievocazione Poi la conclusione drastica: quel grido delle foglie (uomini) non solo non «riguarda qualcun altro», come suggerito nel quinto verso, ma «non riguarda più nessuno». L’io che lo afferma s’intomba esso pure.
Ora il colpo che ricevo dalla lettura di tale poesia (diciamo pure dal contenuto emotivo e di pensiero che afferro di tale poesia) è tale che in un primo momento mi ha indotto a prendermela con il commento di Mazzoni. Ma dovrei dire, adesso, è con lo stesso Stevens che dovrei prendermela. Dando per implicito il rispetto (e anche una certa ammirazione) per l’intelligenza poetica di Stevens e dello stesso Mazzoni, proprio perché riconosco una certa, profonda affinità tra i due, non vorrei cedere alla visione del mondo di Stevens e al commento simpatetico che ne ha dato Mazzoni. Non cedere non vuol dire stravolgere il senso della poesia di Stevens (è quello nichilista, non si scappa…). O mettergli in bocca la mia visione, ma rapportarmi, distanziarmi, da essa senza dimenticare la mia.
E allora aggiungerei…
Quanto non somigliano all’intellettualità meditabonda e appartata d’oggi queste foglie di Stevens! Stevens le fa gridare al posto suo, al posto degli umani. In parte anche al posto mio, dovrei dire. Perché, certo, anche a me è toccato, tocca soffrire. Ma se le “mie” foglie gridassero, se io gridassi, non direi: Addio Spinoza, il sereno! Eh, sì, lui poteva ancora starsene tranquillo dalle parti dell’intero. Altra epoca, più felice di questa? Allora si poteva ancora parteggiare per l’intero? Oggi non più? Gridano le foglie e nessuno le ascolterà. Nulla più di divino né di eroico e neppure di umano. Noi – sembra dire Mazzoni – stiamo non solo peggio di Spinoza, ma anche peggio di Stevens: «Oggi, per esempio, è molto difficile pensare che la vita delle persone possa essere raccolta, tramandata e affidata a una qualsiasi forma di trascendenza». Oggi? E ai tempi di Spinoza? E di Stevens? A questo punto del suo commento annoto un inghippo cronologico. Le cose sembra stessero così nel 1951, quando Stevens scrive la poesia. Ma subito dopo Mazzoni precisa che si stava (Chi? Ah, l’ambiguità dell’impersonale!) così già quasi un secolo prima, «cioè negli anni in cui Nietzsche comincia a tradurre in discorso filosofico la crisi della cultura platonico-cristiana». E mi chiedo, sempre con un po’ di malizia, se altri intellettuali non vedessero le cose in modo diverso da Stevens o Nietzsche. ( E trascuro il discorso più complesso della gente comune che visse, s’innamorò, odiò, lavorò, soffrì, uccise, mentre gli intellettuali pensavano, scrivevano…). Non approfondisco e procedo….Mi chiedo ancora: Mazzoni dice sono cambiati «i sovrasensi che circondano gli esseri umani e permettono loro di significare più di ciò che oggettivamente sono», ma non dedica un rigo a una qualsiasi spiegazione delle cause di quel «cambiamento». Devo pensare che è opera del «ciclo delle stagioni»? O del Tempo, inteso come entità sovrastante, inarrestabile? Gli umani e i conflitti umani/disumani tra loro non c’entrano più? Il fatto che oggi, a differenza dai tempi di Spinoza e di Nietzsche, «l’idea che la vita umana sia pura immanenza [sia cioè] una componente normalizzata della vita psichica collettiva» è presentato come un dato universale e assodato. Mi chiedo: per quanti viventi è proprio così? Pare quasi che le religioni siano scomparse e tutti vivano nella «pura immanenza». Pare che edonismo, cinismo, coazione a consumare «cose, persone, esperienze etc.» guidino in egual misura le azioni di tutti gli uomini e le donne viventi su questo pianeta (e non – concedo – solo una parte dei viventi). Come se, ammesso che solo a tutto ciò miri la «vita psichica collettiva», non ci sia una “realtà” (diciamola questa brutta parola) che non permette a tutti di essere edonisti, consumatori (e forse neppure e sempre cinici). «Lo stato di cose che garantisce piccole sfere di libertà privata agli individui» a quanti, infatti, è davvero garantito e per quanto tempo, se vediamo che lo stesso ceto medio delle società ex-opulente sta sempre peggio?
Gridano gli umani e forse qualcuno (non sempre, non tutti) raccoglierà quel grido. Gli uomini significano ancora più di quello che appaiono? Non lo so dire con certezza. «Gli uomini sono esseri mirabili», scriveva Fortini. Ma forse solo perché era un nostro antenato e rifletteva su Lukács contro Nietzsche!