di Gilda Policastro

 

[Dopo quella di Pellini, pubblichiamo la recensione di Gilda Policastro ad Annientare, ultimo romanzo di Michel Houellebecq].

 

In un’intervista recente a Radio Tre Daniele Giglioli ha dichiarato di non leggere più Houellebecq: era interessante agli esordi, ma non ha mantenuto le promesse (sintetizzo il pensiero del critico, che mi correggerà, ove il relata refero risultasse infedele o impreciso). Il giudizio non valeva tanto come una diminutio dello scrittore, quanto del ruolo del critico: chi lo aveva osannato a inizio carriera, Houellebecq, ha preso un granchio, perché poi “ha avuto una flessione spaventosa, si fa fatica a finire i suoi libri”. Al di là del giudizio del singolo critico, indubbiamente legittimo, c’è da domandarsi se sia davvero possibile che uno scrittore tradisca le premesse. Ammesso che la direzione intrapresa a un certo punto vada un po’ lontano rispetto agli esordi (di trent’anni prima, oltretutto), lo scrittore smette di essere tale, e, addirittura, si merita il silenzio della critica? Magari ci guadagna dei lettori, che è quello che davvero importa a chi scrive, ma il critico non è a sua volta un lettore? Dovrebbe, anzi, essere il primo lettore di uno scrittore, il suo interprete autorizzato (dalle competenze, dalle letture a tutto campo, dalla conoscenza dell’opera, appunto, e non del singolo libro, pescato randomicamente tra le migliaia che propone ogni anno il mercato di massa). Quindi il problema che si pone è se perda di più un autore a non essere letto da un critico, magari precocemente o avventatamente entusiasta, o il critico, rifiutandosi di seguirne il percorso. “Chi nasce tondo non può morire quadro”, dicevano le nonne. Quindi se Houellebecq meritava ai suoi esordi, non vedo perché smettere tout court di leggerlo. Prendiamo un esempio nostrano: Luigi Malerba, che parte altissimo nei primi anni Sessanta con i racconti de La scoperta dell’alfabeto e poi prosegue svettando con Serpente e Salto mortale. Negli ultimi anni (più o meno dal Fuoco greco in poi, ovvero dai Novanta e dunque a un trentennio dagli esordi, a sua volta) Malerba aveva orientato la sua produzione verso una narrativa più affabile, con più “trama” e meno volute gnoseologiche e linguistiche. Avrebbe fatto meglio a fermarsi quando era giovane e sperimentale? Non avrebbe dovuto tradire la consegna dell’innovazione della forma e della lingua, piegandosi alle ragioni del consumo di massa? E, ove fosse, abbiamo smesso di leggerlo, o, peggio, di considerarlo uno scrittore, per questa ragione?

 

    Lascio l’interrogativo irrisolto, per entrare più nel merito. L’ultimo libro di Houellebecq, Annientare, uscito in contemporanea in Francia e in Italia, è stato molto recensito, ma non mi è capitato, in effetti, di leggere recensioni in senso stretto critiche, cioè scritte da un critico-critico, come lo sarebbe stata, per l’appunto, quella di Giglioli. Come mai? È davvero un autore solo pop, Houellebecq? Tanto da meritarsi un pezzo autocentrato come quello di Paolo Di Paolo sull’ “Espresso”, che viola sin dall’incipit l’interdetto della stagione aurea della critica, ovvero la recensione con l’io:

 

Le due volte che ho visto da vicino Michel Houellebecq non sapevo bene che cosa dire, che cosa dirgli. La seconda mi sono limitato a osservarlo a poca distanza – stretto in una giacca a vento scura, in una giornata tiepida, sorseggiava un caffè lungo stringendo la tazza fra le mani.

 

E si merita, il “mainstream” Houellebecq, anche (o solo) i lettori di Amazon, che oscillano senza sfumature dalla noia manifesta al credito incondizionato, ma, soprattutto, hanno preso assai male la sovrabbondanza di sogni nel testo (cito da alcuni pareri, così come sono riportati nel sito dei lettori-consumatori per antonomasia):

 

descrizione dei sogni del protagonista una noia mortale

I sogni che lagna

Si pensi ai sogni maldestri del protagonista

 

Annientare, perciò. Quel che se ne dice più spesso, nelle recensioni a stampa e nei siti (che si equivalgono, per qualità e profondità, e anzi, i siti sono spesso superiori alla carta, com’è ormai evidente a chi non sia in conflitto d’interessi: penso alla recensione di Valentina Sturli su “La balena bianca”, tra le prime ad uscire e tra le migliori lette finora), quel che se ne dice più spesso, dunque, è che l’autore “si è perso la trama per strada”. Ma anche che “è diventato buono, più umano”. Massimo Onofri sull’”Avvenire” individua questo tratto soprattutto nella vicenda amorosa (e nel sesso coniugale), che segnerebbe un ricongiungimento alla polarità positiva dell’esistenza, perché (cito a memoria) il romanzo non può presentarci solo il lato oscuro della vita (why not? Rileggere Siti, Contro l’impegno, a proposito del male in letteratura: non un vezzo ma un grimaldello conoscitivo). Scrollo tutte queste recensioni e mi chiedo se non abbia letto tutto un altro libro, o come si dice popolarmente, se non mi sono fatta un altro film. Che cosa ho letto? Propongo qui delle note aperte a un dibattito: non un saggio, non una recensione idiosincratica, non la mia esperienza con l’autore (anche perché non so che giacca a vento usi Houellebecq, non l’ho mai visto).

 

Il romanzo è molto lungo, ma, come ripetono su Amazon, è “scorrevole”, si legge in pochi giorni (due o tre, garantisce la bookgrammer Francesca Romana Capone). Si presenta come una spy story o un thriller vero e proprio, che si apre curiosamente (ma a dire il vero non troppo, per il genere) con un personaggio secondario, Bastien Doutremont, in forza ai servizi segreti. La Francia è minacciata da un gruppo di anonimi terroristi-hacker che fa girare in rete dei video minacciosi e truculenti. Uno di questi rappresenta la decapitazione di Bruno Juge, ministro dell’Economia e delle Finanze, il deuteragonista della vicenda, specie dal momento in cui diviene una sorta di candidato ombra alle imminenti presidenziali. Paul Raison, il protagonista, lo conosciamo a seguire come assistente di Bruno, o meglio suo “confidente”. Sappiamo subito che proprio come Bruno è in crisi con la moglie, Prudence, e che i due vivono da separati in casa. Al momento dell’ictus del padre Édouard, personaggio di spicco dei servizi segreti, conosciamo il resto della famiglia di Paul: la sorella Cécile, cattolica e di destra come il marito Hervé, notaio disoccupato. L’altro fratello, Aurélien, restauratore (come la madre morta: siamo in una famiglia in cui i figli non hanno paura di somigliare ai referenti genitoriali), con la moglie e “domina” Indy, una giornalista in carriera ma senza carriera, che ha avuto un figlio con l’inseminazione artificiale nonostante il marito non fosse sterile (per colmo di sadismo, scegliendo un donatore nero). Durante il ricovero di Édouard, che rimane in coma e finisce in stato vegetativo, ne conosciamo la devota compagna Madeleine, la donna badante con cui i vecchi delle società occidentali sono destinati a terminare i loro giorni, se non li si parcheggia in case di cura come nel romanzo non avviene (ed è forse l’episodio più umanista e romantico di tutto il libro, il ratto del padre dall’RSA). E poi Maryse, l’infermiera del Benin, complice del rapimento rocambolesco che riporterà Édouard a casa.  Con lei il più debole e sfortunato dei fratelli Raison inizierà una relazione, interrotta tragicamente (qui evitiamo lo spoiler, pur non credendoci troppo, che davvero possa “rovinare” il piacere della lettura, nel caso di specie). La trama, va detto, si nutre soprattutto di coincidenze: tra le carte appartenute al padre Paul ritroverà degli elementi utili a decifrare la provenienza dei messaggi dei terroristi, tra satanismo cyborg e new-age. Ancora: la sera in cui decide di mettere alla prova la propria residuale virilità nell’auspicio di una ripresa della vita sessuale con Prudence, a cui pian piano si sta riavvicinando, l’escort a cui Paul si affida per un lavoro di bocca (alla Orazio) si rivela essere sua nipote, la figlia di Cécile che raggranella così il capitale necessario a intraprendere la carriera universitaria. E no, non sono d’accordo con Onofri: il sesso, elemento sempre decisivo nella narrativa houllebecqiana (sin dagli esordi benedetti dalla critica), ha qui dei tratti meno consolatori che funzionali: serve a restare in connessione materica quando la vita sta per diventare assenza di noi dalle cose, cioè quando la diagnosi (elemento cruciale del libro, non solo dell’intreccio) fa suonare l’allarme della fine. Una delle pagine migliori resta quella in cui il protagonista esamina in elenco non tanto le cose che perderà morendo, ma tutto quello che nel mondo continuerà a essere senza di lui (meno elegia e più “filosofia dolorosa ma vera”, avrebbe detto il tale). Del tutto anticlimatica e non all’altezza di chiudere cotanto libro è probabilmente l’ultima pagina, ma sorvoliamo sulla reincarnazione e il dialogo tra coniugi in cui Prudence dice a Paul di non essere afflitta per l’imminenza della sua morte perché sa che presto si ricongiungeranno. E domandiamoci, a libro chiuso, che cos’è Annientare? Risposta provvisoria, da confrontare alle vostre: una meditazione sulla vita, perciò anche sulla malattia e l’imminenza della morte. E la spy story? Se si è persa, è per un’ottima causa (che val bene una trama, secondo me), ovvero per completare il racconto di come la vita smetta di essere tale da un giorno all’altro e tutte le occupazioni, gli affari, gli intrighi politici, le beghe familiari, le defaillance sentimentali e sessuali cessino di essere materia, argomento, centralità. Ma, attenzione: sbaglia anche chi dice che il libro poteva cominciare direttamente a p. 600 (perché su questo sembrano tutti d’accordo: le pagine migliori sono le ultime 200). E no, non poteva. Perché questa meditazione esistenziale profonda (tanto più quanto vuol apparire superficiale, facendosi beffa di Epicuro o di Pascal, animali guida della formazione scolastica di ogni buon liceale), necessita di un’ampia premessa che quella vita nella sua insensatezza la mostri (e un po’ anche la dica, nelle parti sociologiche e meglio ancora etologiche). Houellebecq è convinto (giustamente) che ciascuno sia solo, con la propria morte. E un’anticipazione di questa solitudine è la difficoltà relazionale, di tutti i rapporti, senza esclusione. In una delle serate per l’appunto solitarie che precedono il (transeunte) ricongiungimento coniugale, Paul guarda un documentario sulla migale, significativamente la sera di un importante incontro politico:

 

“[…] un documentario dedicato ai nac, i nuovi animali da compagnia, che si soffermava in particolare sul caso della migale. Grosso ragno delle regioni calde, provvisto di un potente veleno, la migale non sopporta la compagnia di nessun altro animale, attacca sistematicamente qualsiasi creatura vivente introdotta nella sua gabbia, comprese le altre migale, compreso il suo proprietario, e continua ad attaccarlo perfino quando la nutre da anni, qualsiasi sentimento di attaccamento le rimane per sempre estraneo. In sintesi, come concludeva il commentatore del documentario, la migale “non ama gli esseri viventi”.

 

Questo disamore è lo stesso della natura nei confronti delle sue creature? Perché si arrivi a una conclusione (leopardiana, dunque estrema, senza speranza) è necessario anzi indispensabile dar conto dell’altra polarità: il tentativo della relazione, della pienezza, dell’incontro. Perché ci si arrivi, dunque, alla conclusione (che non è quella finto new-age della possibilità di reincarnarsi, ma la consegna della diagnosi, a un uomo qualunque, in un giorno qualunque), occorre che si sviscerino per bene tutte le ininfluenti premesse alla dissoluzione (o annientamento), i giri a vuoto (il “disordinare in mille cose”, avrebbe detto ancora Giacomino).  Annientare è dunque anche paratestuale, alludendo al modo in cui la trama smette di essere importante, nel romanzo ipermoderno, di fronte alla casualità con cui la vita, al suo plateau, ci consegna fatalmente il conto. Fine della chiacchiera, nemmeno il tempo di ordinare il dolce, o un digestivo. Un Houellebecq certamente atteso, che prosegue il suo percorso nichilista insistendo, qui, sull’aberrazione del procreare (inevitabile il riferimento al “gene egoista”). Ma non ingannino i toni introspettivi (più che quelli caustico-cinici cui l’autore ci aveva abituati). Non ingannino i sogni, di cui il testo è punteggiato, in spregio alle attese del lettore Amazon: non sono sogni romantici o residui diurni, come nella tradizione romantica o psicanalitica. Sono incubi, come i video dei potenziali attentatori, non hanno un marcatore di soglia all’incipit, ma sono troncati da un segnale d’allarme esterno: la suoneria di un cellulare, il richiamo-epitome della realtà nel contemporaneo. La vita è azione, pungolo, trillo. Sogni e video sono invece il materiale di costruzione della realtà potenziale (virtuale, aumentata, metaverso o come la vogliamo chiamare) che è però una realtà ancora relazionale: esattamente quella che ci viene restituita dal plot, complicato fino all’impossibilità (o meglio all’indifferenza) nei confronti di un possibile scioglimento. Del resto, siamo nel 2027: non abbastanza lontani da non poterci riconoscere, ma in un futuro che non ci appartiene ancora del tutto (e il biennio passato ci ha insegnato quanto poco basti a cambiare il corso degli eventi in una realtà interconnessa: otto polmoniti anomale in Cina nel novembre del 2019 e a febbraio del 2020 si fermava il mondo). Ma che cosa ci importa, di chi fossero i terroristi e quale ne fosse lo scopo, se c’è una cosa più essenziale da dire e da mostrare? La riduzione dell’umano alla macchina biologica, al suo malfunzionamento, e crac. Con la constatazione forse ovvia ma non meno angosciastica dell’impermanenza, e soprattutto del fulmineo rivolgimento degli eventi nel loro contrario. Un riavvicinamento sentimentale che diventa premessa della fine: sarebbe questo, il sogno d’amore che corregge il nichilismo? In quale libro? Non in Annientare.

 

   E dunque, la trama che non chiude è propriamente il pregio del libro: mollarla è il vero colpo di genio di un autore di razza, che il critico, rifiutandosi di leggere (perché scorrevole, troppo plot, troppo  pop) si perde, his bad. I mille rivoli che apparentemente tutti si tengono, con le coincidenze e le interconnesioni (a volte plausibili a volte meno ma poco importa), tra spionaggio, famiglia, politica, economia, fecondazione artificiale, immigrazione, crisi di coppia, prostituzione giovanile, si rivelano tutti allo stesso modo inessenziali, fragili, inconsistenti, a petto del vero choc: il  giorno in cui l’uomo senza particolari meriti e qualità, ma anche senza particolari mende o colpe, riceve, nello studio di un dentista, una diagnosi fatale. Il resto (la vita?) è mera attesa della morte, senza scene madri, e anzi è una scena abortita anche quella col padre, cui un autore lacrimoso e pop avrebbe minimo minimo consegnato una morale: entrambi malati terminali, i due si limitano a guardare i movimenti delle foglie (l’”animazione delle piante” che nella miglior poesia del Novecento è presagio di morte ma anche segnacolo di sopravvivenze mnestiche). Sono in attesa, stando a Prudence, di tornare, di quel mondo, a essere parte viva. O, quel che è più documentabile, finitudine e corpo morto, secondo la “nuova” versione, non saprei dire se davvero “più buona” dell’autore più cattivo della letteratura contemporanea.

3 thoughts on “Annientare la trama (e la critica?): note sull’ultimo romanzo di Michel Houellebecq

  1. Ottimo articolo perché cominciato con ottime premesse
    GP ha magistralmente isolato forme e tematiche che una parte della critica potrebbe anche vedere , o perlomeno intravedere, non fosse letteralmente ossessionata dall’orientamento socio-politico di Houellebecq.

  2. È il secondo romanzo francese che leggo in questo mese in cui arriva un crac a rompere la trama. Ed è probabilmente l’unico punto di contatto tra Yoga, col crollo psichico dell’autore a virare l’originale intenzione narrativa verso una secondo libro sicuramente minore del primo, e Annientare, dove le superbe ultime 200 pagine riescono a ripagarci della lunghissima premessa perennemente sospesa delle prime 600. La sua recensione è stata in questo senso una sorta di rivelazione che ha trasformato in una scelta geniale quella che una parte di me continua a sospettare essere solo un confuso vagare a vuoto.

  3. Mancava la fine al mio precedente commento> (…)La morte irrompe  nella vita subdolamente attraverso una gengiva maleodorante e, davvero, chissenefrega di tutto il resto.

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