di Davide Nota
[Esce oggi per Argolibri Rovi, un libro che raccoglie tutte le poesie di Davide Nota. Ne presentiamo alcune].
Il depuratore
Nel canale otturato dalle scorie
s’incaglia l’esistenza che snatura:
assorbe tutto il vivere la storia.
Se passa ne distilla un succo amaro
che naufraghe le foglie incatramate
deposita vigliacco sulle grate.
Tu questo come puoi chiamarlo amore?
Mi resta indifendibile il segreto
di te che all’ombra di un depuratore
mi chiedi allora bello come va?
*
L’estasi
L’amore rattrappito in un mucchietto
di ossa, uno straccetto mal piegato
sopra il letto: la signora
desidera qualcosa?
Io non ho mai detto che scrivo per cambiare il mondo
ma per piangere nel fondo
di questa miseria me lo permetterete
brutti figli di puttana?
Nel TUZ TUZ della disco
apparsa è la madonna
su una colata di ghisa.
Un uccellino mi ha detto:
non ridere, stronzetto,
sei strafatto.
È l’amore rattrappito in un mucchietto
di ossa, uno straccetto mal piegato
sopra il letto: la signora
desidera qualcosa?
Nel letto la visione di una cosa,
la rosa spelacchiata del giubbetto
di lei che ancora dorme oppure è morta…
Non andartene dai, proprio sul bello
della serata.
La carcassa dell’auto ribaltata
sarà rimossa dal personale addetto
alla perizia…
«Te lo dicevo io che ti dimenticavi
pure questa volta le chiavi, che
suonavi ancora presto, ed è domenica
e lo sai che tuo padre si arrabbia…».
Ma quello che aspettavi e non ritorna
alla porta è una divisa in penombra
e dietro c’è quest’alba orrenda, sporca,
senza alcun pudore, da obitorio e claxon.
E il nostro amore che non è più
lo stesso amore di un tempo, è
qualcosa di diverso,
perché sei andato via proprio sul bello
della serata?
«È così che… che non lo so come si dice
però ti ho preso un fiore, ecco, prendilo…».
«Lo perderò dentro l’inferno della sala…».
«Ma almeno provaci un momento, a trattenerlo…».
«Guarda qui che luce gialla che c’è sopra l’insegna
che ci piove sopra tutta questa pioggia
che viene giù dalla grondaia rotta
dei palazzi.
Guarda le rondini, schiacciate pure loro
da questo cielo così inutile e italiano
che non sovrasta proprio niente, è sovrastato
come un coperchio rialzato dalla schiuma
dell’acqua sporca, che ribolle e preme.
Questo è l’amore ai tempi della techno,
se non ci credi… vabbe’ lo stesso
tanto qui la luce è muro vuoto, è nudo
parcheggio, sotto casa, che impedisce».
E sventolasti un biglietto di non so che andata
contro di lei che rimaneva viva.
Poi certo, pure noi nella deriva
cadremo, questa gloria impasticcata
è solo una questione di ore.
Ma adesso tu sorridi come allora
quando in due sul motorino la strada
era uno straccio indecifrabile e la vita
era bellissima: la bara
le ripercorre lenta e trionfale
come in una visione allucinata…
*
Rappresentazione
Partiamo,
come un livello di separazione
da infrangere.
In ogni cavo la sostanza mancante
in forma di lacrima chiamare.
Questo sembiante accarezzare.
“Chiedo asilo? Decoro?”.
Poeta, cosa voglio ignoro.
Il quadro degli orizzonti è pieno.
L’ambiente ridicolo. Il possibile designato
vuoto. Ho sognato
una casa che non c’era e una sorella
nell’origine. Ma pure tu baciare
vuoi nel modo in cui morire
non sia più l’arido male. Ma l’altro
non esiste.
E per sognare servono i soldi.
Ho imparato l’allegria dei sampietrini bagnati,
la via di casa quando piove e tardi
la ragazza pallida che ti offre la mano.
“Spariranno?”. Non so, tutto è svanito,
e assieme al tutto anch’io che cerco
ristoro in una canzonetta sbandata.
Vorrei in fiamme vedere
le vetrine dei call center,
le agenzie interinali,
e con pietà francescana aggiungere
al fuoco nuovo fuoco.
Ma tutto quanto ricadrà su noi
che sete avremmo avuto
di sole e di fontana.
E San Lorenzo appare
nella sua scomposizione
di sabbia bagnata.
Avremmo detto: certo, avanziamo,
così come per fare un movimento qualsiasi.
La rappresentazione è salvaguardata.
Io voglio il meglio.
Se fuoco non arde. E fontana
ricorda. Verde. Blu.
Volevo il meglio
da questa generazione sballata
di pasticche e psicofarmaci.
Così certo, potremmo facilmente bruciare
il vecchio mondo rappresentato,
ma un enorme deserto illuminato a nuovo
non era certo il fine di questa guerriglia!
(La schermata del cielo
gelidamente oggettivo)
E quella notte apparvero infuocate croci.
Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più.
Paesaggio verde e nero
di infrarossi e fanale.
In fila pisciavamo contro il mare.
“Starò con i miei amici
fino alla fine del mondo.”.
*
I rovi
Ma se una lingua inesistente sente in sé
la lontananza siderale degli astri
che di ogni corpo fanno un corpo vivo e mortale,
quanto distante è questa vita dalla vita stessa
che la anima ed ignora, immaginandola
come una cosa sola?
Ma senza fare di condizione virtù, non mima
il passo falso del presente
dove l’azione è questa pubblica parola
che non conduce a niente. Forma
il pensiero il ritmo della mente
che se non può ma vuole agire è sempre
un’illusione abietta o un desiderio
vivo
che gronda di aggettivi e oggetti. E vinto
si nasconde, non manifesta resa.
Circonda il tempo il tempo dell’attesa.
Così nel buio lo stagno lunare germoglia
in un canto di rane.
Tutta la vita è un fiorire notturno senza presente né fato.
I nuovi campi di sterminio sono pieni di luce.
E in ogni oggetto è nato un occhio che inibisce l’opera.
Un cantiere di cavi cinge il letto in cui dormi.
Ma esiste ancora un luogo dove crescono i rovi
e le anime dei morti che ritornano a sera?
Chi lo cerca non trova
più niente. Una dimora
al confine di un fossato invalicabile.
*
Il ritorno
Non sono molte le estati della vita.
Si risorge
col sapore dell’acqua assopita
nel guscio verde e ardente della borraccia.
Ditela
la traccia da seguire, senza ritegno dite
il disegno che si nutra di invenzioni puerili
come il gabbiano stanco che tracolla sulla riva
cercando una vista nuova, una prospettiva mobile
che il crollo naturale renda idoneo al passaggio,
all’ampliamento cognitivo.
Perché le estati che ci restano
non sono molte, ditelo
che lo sguardo si impesta di putredine,
che si incrosta il coraggio nell’evocazione di un miraggio
defunto e tu che resti
nella casa guardami
allo specchio o nello schermo acceso e dimmi
se eravamo nati proprio a questo
sfiorire. Gridalo
che il sole brucia sulle vesti come un Dio ci chiama
madre dell’amore gridalo
in silenzio ad occhi chiusi a strette mani o nell’oblio ricordati
di tutto ciò che dovevamo dirci
e non ci siamo neanche sussurrati
perché non eri tu ma un prodigio maggiore
ad annunciarsi e l’hai tradito.
Dietro la curva i cani, il doloroso
amico devoto al perdono.
Non più bisogno c’è di luce ed ordine.
La carne si dissolve nello stagno.
La caffettiera è esplosa. Un mazzo di chiavi.
Si era perso nei secoli, nei corridoi.
Salvano il fiume i rovi, gonfi di more.
I bivi sono entrambi percorsi.
Io tra non molto cesserò, dovrò restare
in questo albergo spettrale
pieno di ganci e cavi elettrici e visioni
scoscese.
Nessuno mi conosce o sa chi sono e donde
vengo e quale fu
la mia missione nell’infanzia tardiva
di abeti verdi e mantidi religiose.
Ho voglia di viaggiare, ho voglia di restare immobile.
Ho voglia di cambiare, ho voglia di
restare me.
Era un segreto, un passo falso. Era un cancello, un cortile.
Era le chiavi, erano perse. Era una donna, era sul nespolo.
Era un cassetto, era nell’ombra. Era un giardino sconnesso.
I gerani sono rossi. Tu ora sanguini dal naso.
Questa mattina è bianchissima
come uno sguardo tradito.
Le soldatesse sono in fuga.
Forse cercano qualcuno.