di Sandro Abruzzese

 

[Esce il 10 febbraio per Rubettino Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati di Sandro Abruzzese, con un racconto fotografico di Marco Belli. Ne pubblichiamo un estratto, accompagnato da alcune foto di Belli e seguito dalla prefazione di Angelo Ferracuti].

 

Wittgenstein a Santa Maria Maddalena

 

Tra Pontelagoscuro, Santa Maria Maddalena, Occhiobello, o sulla Romea, c’è tutto il mondo così come accade, direbbe Wittgenstein. Supermercati, pompe di benzina, casinò, club a luci rosse, rivenditori di auto. Voglio dire che se la pianura diventa il piano di intersezione del capitale umano orientale col riciclaggio criminale, Occhiobello è uno dei suoi snodi. Magari così è nata Las Vegas, oppure così è fallita Detroit, chi può dirlo?

Certo non io che sono qui davanti alla vetrina di una concessionaria d’auto piena di Mercedes e BMW tedesche, gestita da un numero imprecisato di calabresi in jeans e giubbotti di pelle nera stile Gomorra. Si intende che, attraverso la vetrina, loro mi guardano minacciosi perché da un quarto d’ora, come ipnotizzato, non riesco a smettere di fissarli. Sono attaccato col naso alla vetrina e, se non fosse che davanti al locale c’è questa gazzella della Polizia stradale con un agente al volante e il motore acceso, vista la crescente irritazione provocata dal mio alito condensato sul vetro, mi sarei già dileguato.

 

Poi però mi accorgo che nel locale dei calabresi c’è l’altro agente in divisa che sorride compiaciuto, e dopo un po’ fuoriesce con una risata ancora più grande stampata sul volto e un foglio A4 relativo a un certo preventivo super scontato per una Mercedes cerchi in lega e non so cosa, accessoriata e tutto il resto, così annuncia il poliziotto felice al collega.

Mi allontano circospetto. Tuttavia per non fomentare aspettative velleitarie su un eventuale giornalismo d’inchiesta, tengo a precisare che sono venuto a Occhiobello per il distributore di gas metano di fronte alla rivendita auto, pratica prezzi stracciati. E perché i tizi in questione avevano rifilato a Filippo una macchina del popolo, una Polo usata nero metallizzato, facendogli pagare poi una cifra spropositata per rifare la tappezzeria. «Avresti dovuto vedere che facce», continuava a ripetermi sconvolto Filippo, «ho dovuto accettare, sai?».

 

Dunque una volta alla pompa del metano, ripensando all’accaduto, mi è venuta una voglia matta di vedere quelle facce, così ho spento lo stereo che tra l’altro era su una canzone dei Marlene Kuntz. Insomma, a malincuore spengo lo stereo, dicevo, rinuncio a quella meravigliosa canzone sussurrata, attraverso la strada, con ancora il ritornello nella mente prendo a scrutare dalla vetrina e, in effetti, erano facce da far paura, quelle dei calabresi di Occhiobello. Non c’è che dire.

Sicché anche questo accade sulla strada per il Polesine, quando vado a Gavello, da Marco. Accade cioè che nei paesi di confine e di vie nuove, dove sorgono svincoli e caselli autostradali, c’è il mondo così come accade. Lo svelano le sue applicazioni.

 

Superato il Po, sulla strada statale 16 per Rovigo, per esempio, nelle arterie pulsanti, oppure negli spazi sconfinati dell’oriente padano; ebbene, non è un film di Bogdanovich, ma comunque c’è il mondo, con le sue fattezze, e ovunque non fa altro che rispondere alla sua logica.

I calabresi stanno a Occhiobello come i Marlene Kuntz all’etere e alle frequenze della radio Rai nazionale, anche qui c’è una logica. E la suddetta superficie, o l’etere, non rispecchiano che i fatti del mondo. Punto. Questo è lo stato di cose. Non serve usare parole per mascherare il tutto. Per cui i capannoni del Polesine delocalizzato si rigenerano in luoghi del piacere e del sesso. Il casello autostradale, la transpolesana, nei cattolici e morigerati borghi leghisti del Veneto o dell’Emilia, guidano alla droga e al mercato della carne umana. E questo triangolo qui, tra Ferrara, Chioggia e Ravenna, a suo modo, pure lui è il mondo. Anzi, la sua sostanza è proprio frutto della configurazione di oggetti e di possibilità peculiari di questo spazio sotto i nostri occhi.

Non ci resta che prenderne atto, nient’altro che immagini, raffigurazioni, per avere attraverso il grande vuoto e le sue arterie, fatti del reale. Noi siamo solo testimoni, col nostro disperato e a volte strambo metro di misura, di questa logica. Muoversi e imprimere attraverso la proiezione della prospettiva che ci diamo, in grado di radicarci nel funzionamento stesso delle cose, con la sua inesorabile ragione, per arrenderci alla presa d’atto del mondo, guardandolo per come appare e funziona.

 

*

 

Prefazione di Angelo Ferracuti

 

“Quando vivi in un luogo a lungo diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco” affermava il fotografo dell’Agenzia Magnum Josef Koudelka. È il monito del reporter, andare a scoprire l’altrove, attraversare strade, quartieri, interi paesi con diversi mezzi di trasporti per catturare l’attimo miracoloso di uno scatto o di una epifania, che per alcuni può essere storia viva, guerre, conflitti, terremoti, meccaniche sociali, per altri semplicemente la vita che scorre, l’attimo soggettivo dell’occhio sociologico, ricognizioni paesologiche, e per quelli come Sandro Abruzzese, che fa sua almeno parzialmente la poetica di Gianni Celati – per il quale proprio nei luoghi persi, nelle geografie dimenticate, sta l’indicibile – racconti di smarrimenti, di spaesamenti necessari e di osservazione, paradossalmente in luoghi dove “non c’è niente: niente da vedere”. La mappa è contenuta nell’entroterra ferrarese, nella pianura emiliano-romagnola e veneta, nelle terre d’acqua del Polesine dove si è recato per oltre due anni e in piena pandemia insieme al fotografo Marco Belli – che firma le immagini di nature morte e nebbiose spogliate di ogni realismo e senza tempo di un altro racconto parallelo e non didascalico – per quelle che chiama “fughe esplorative” nelle “frazioni sui corsi d’acqua accompagnano verso il Grande fiume e sono fatte di strade sinuose e geometriche”. Il Po, il Grande Fiume, lo scopre nei racconti della gente, è memoria viva dove presente e passato si mescolano, la perdita di contatto con le sue acque è un trauma, rende alcuni “luoghi spezzati”. L’autore confessa anche una postura programmatica, una sorta di moscacieca narrativo: “All’interno di questo vasto spazio, uno degli ultimi grandi vuoti della pianura, ci aggiriamo abbastanza a caso, e neanche troppo preparati purtroppo. O meglio l’impreparazione è il motore del viaggio, guai a saperne qualcosa di più”.

 

Abruzzese parte dalla poetica dei Celati e dei “semplici”, dei lunatici, attratto dall’assurdo delle cose e del mondo, senza mai estetizzarla o viverla da epigono, ma in questo libro le cose che più gli stanno a cuore, oltre all’immaginario, ai paesaggi nebbiosi, ai sentieri di caccia antichi, sono le avvisaglie, le spie di trasformazioni in corso, quelle sociali e urbanistiche, paesaggistiche, comportamentali, dell’emigrazione più prossima, che raccontano come cambia il mondo e come il piccolo, il locale, è mutato dalla furia e velocità di una globalizzazione che non risparmia più nessuno e nessuno dimentica, neppure i suoi margini più estremi.

 

La lingua utilizzata è quella del reportage in presa diretta, del qui e ora, ma anche del diario intimo e del frammento, ma le cose raccontate non sono solo i fatti, gli accadimenti, gli incontri, ma soprattutto i paesaggi urbani e naturali, ai quali si aggiungono divagazioni, fantasticherie, cronache, dicerie, una modalità narrativa che serve per mantenere la libertà del flaneur, a volte sono i fatti della cronaca locale a guidarlo, i servizi televisivi sulla provincia meccanica, servono quasi sempre per smentirli, perché dietro la notizia si cela quasi sempre qualcosa d’altro che lo scrittore, l’intellettuale, deve scoprire, portare in profondità, far emergere. I fatti della politica e delle giunte leghiste si mischiano alle questioni antropologiche, religiose: “La paura della perdita dell’identità e del benessere, dell’invasione straniera, del ritorno a una povertà feroce. L’attivismo di un cattolicesimo protestante, fondato sulla morale auto-schiavistica e al contempo liberatoria dovuta alla declinazione radicale del concetto di laboriosità”. Ondivago, Sandro Abruzzese continua a viaggiare e a guardare in questo libro, incontra l’ossuta cinese proprietaria del bar di Gavello, “simbolo del capitale globale deterritorializzato”, Magnolina terra di emigranti in Brasile, e Cristiano, cantante del gruppo folk istrice lo avverte: “Se vuoi sapere cos’è il Polesine pensa al fango: nel fango non puoi saltare a lungo né agevolmente, il fango richiede sacrificio, bisogna essere leggeri nel fango, avere poche pretese, nel fango. Questa è rimasta palude, qui le persone non amano svelarsi, sono abituate ai propri recessi, e non si può capire tutto questo essendo di passaggio.” Non gli sfuggono gli operai di Adria, uccisi da una nube tossica, il costo del capitale, mentre a Chioggia coglie “la soverchiante bellezza, il fasto della laguna veneta, mentre a “Porto Garibaldi, circondata da gabbiani abbastanza calmi, che fanno pensare all’abbondanza del cibo, è ospite di un’astronave avveniristica degna di Odissea nello spazio. Una grandezza di cui restano i tratti architettonici e urbanistici e che ci dice di essere fuori dal nostro grande vuoto, in un’altra storia, che non farebbe parte dei nostri luoghi”. Molti paesi hanno perso contatto con sé stessi, con la propria storia, con le vocazioni antiche, restano i monumenti ai caduti, sono spopolati come Papozze, non hanno più un centro, c’è solo vuoto, desolazione, quella di una Italia minore, lontana dagli “imbuti”, così li chiama l’autore, dal troppo del consumismo e del mondo frenetico delle merci e della massificazione, una diaspora tra l’Italia interna-interiore, le grandi aree metropolitane e le coste iperturistiche. “E tuttavia questi paesi di pianura sembrano il contrario di tanti altri luoghi italiani arroccati, murati e incastellati tra colline o montagne. La sensazione è che niente sia immutabile: la pianura è aperta. Altri sono i luoghi impenetrabili, afflitti da una diversa angustia”, riflette Abruzzese, le loro trasformazioni a volte sono improvvise come a “Boccasette e Pila, isole di monocoltura, in cui l’allevamento ittico ha portato una ricchezza insperata”. Sulla Romea cambia ogni cosa, e sembra un passo di un Piovene contemporaneo: “c’è tutto il mondo così come accade, direbbe Wittgenstein. Supermercati, pompe di benzina, Casinò, club a luci rosse, rivenditori di auto. Voglio dire che se la pianura diventa il piano di intersezione del capitale umano orientale col riciclaggio criminale, Occhiobello è uno dei suoi snodi”.

 

Alla fine del suo viaggio, fatto di un ibrido di cose, storiche, geografiche sociali, contemporanee e antiche, Sandro Abruzzese giunge alla conclusione che “non esiste un posto dove non c’è niente da vedere. C’è il visibile reticente, in cui l’interiorità, il sommesso, occultano. Qualcosa, come nel Polesine o lungo il Reno, magari cancella le tracce precedenti, scompone e ricompone in un flusso inedito, ridiscute”. E alla fine del viaggio comincia la quarantena, che vive a Ferrara, la città dove si è spostato dall’Irpinia natale per fare l’insegnante, che diventa un luogo comune, cioè la via guardata dalla finestra, la piccola passeggiata per raggiungere il supermercato, l’arrivo dei riders, “La città vuota, nel dramma dei morti di Bergamo, era ormai una monumentale sfinge affacciata sul nostro nulla”, scrive con l’amarezza e l’angoscia di quei giorni persi. E così i viaggi, diventano “viaggi da fermi”, i luoghi diventano immaginati. Ma “ogni luogo è un mondo” ci dice questo libro, e il valore dei luoghi lo capiamo forse quando non possiamo più visitarli, quando ci è precluso da una ferita dell’Epoca che ci trattiene nella clausura forzata a causa del Covid 19. Invece “Ogni luogo può essere raggiunto, può diventare dimora, essere amato”, ci suggerisce ancora il suo autore, “In ogni luogo c’è il mondo intero.”

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