di Matteo Cazzato
Con l’inizio del nuovo anno ci siamo imbattuti presto in un nuovo anniversario letterario. In questo caso, il 5 gennaio ricorrevano i novant’anni dalla nascita di uno dei più noti scrittori e intellettuali del secondo Novecento italiano: Umberto Eco. Abbiamo visto servizi nei telegiornali, articoli sulle pagine dei quotidiani. Una notizia interessante è stata la prossima pubblicazione, annunciata proprio quel giorno, di un adattamento in forma di fumetto del Nome della rosa, ad opera di Milo Manara.
Dunque l’anno si è aperto con una ricorrenza letteraria. Ma venivamo, con l’anno appena concluso, dai festeggiamenti per il centenario dantesco. Così, quando il 5 gennaio ho dato spazio al proposito di ricordare Umberto Eco con una rilettura del suo più famoso romanzo, era ancora ben presente Dante, che ha fatto da filtro nella lettura delle avventurose pagine del Medioevo immaginato dallo scrittore novecentesco. E così, ho voluto offrire delle suggestioni e ricordare qualcuno degli elementi danteschi presenti nel romanzo di Eco.
D’altronde, il Nome della rosa – romanzo simbolo del medievalismo – appare come un grande affresco postumo di quel particolare periodo storico che è l’inizio del ‘300, proprio lo stesso che si rispecchia nei versi della Commedia dantesca. E come il poema di Dante, anche il romanzo di Eco ha carattere enciclopedico, a tratti centonario, e raccoglie tutto l’immaginario medievale:[1] le descrizioni delle cucine con calderoni e forconi, quasi scene da basso inferno; il valore morale di erbari, lapidari e bestiari, e le etimologie simboliche sul modello di Isidoro di Siviglia, che segnavano anche le opere dell’Alighieri.
La storia di Eco è costruita sull’espediente letterario del manoscritto perso e ritrovato. Il manoscritto è un oggetto affascinante, associato all’idea stessa di Medioevo, traccia di un passato lacunoso. Spesso i manoscritti si perdono, ne restano frammenti, come i lacerti di pergamena che Adso da vecchio raccoglie fra i ruderi della biblioteca, e si alimenta così la nostalgia per un tempo lontano e misterioso. E pure il grande poema di Dante arriva a noi per vie traverse, molti testimoni si sono persi del tutto – fra cui quelli di mano dell’autore – o ne restano solo degli stralci sparsi tra una biblioteca e l’altra.
Come nel poema dantesco, anche qui si crea un particolare rapporto maestro-discepolo: Guglielmo da Baskerville – novello Virgilio – guida Adso nel viaggio lungo l’Italia, e durante gli spostamenti nel microcosmo dell’abbazia, istruendolo sulla realtà. Anche se in questo rapporto maestro-discepolo non ritroviamo solo la coppia Virgilio-Dante, perché c’è una contaminazione tutta postmoderna con il modello giallistico Holmes-Watson.[2] Ma qui sta una delle caratteristiche del medievalismo di Eco: l’anacronismo, per sovrapposizione di piani con la contemporaneità, come strumento di lettura e comprensione. E così abbiamo anche le teorie dei segni medievali attribuite a un Wittengstein alto-tedesco medievale, o la concezione del mondo come sistema di segni di Alano di Lilla, menzionata solo per tramutarsi nel metodo indiziario (e il riconoscimento di un cavallo mai visto prima fa di Gugliemo un novello Zadig, il proto detective voltairiano). La detective-story è funzionale – nelle intenzioni di Eco – a costruire atmosfere di un Medioevo di mistero e timore. La vista dell’abbazia infatti suscita in Adso paura, sentimento provato da vari personaggi di racconti medievali di viaggio o pellegrinaggio, e presente anche in Dante, soprattutto davanti a certi ambienti infernali come l’ingresso nella città di Dite. Ma ecco un’altra contaminazione: le inquietudini di Adso hanno un sapore da gothic revival ottocentesco. Eco costruisce una summa di tutte le immagini del Medioevo che possono creare un clima di suspence. Pensiamo allo strano incontro fra Adelmo e Berengario, descritto come un dialogo con un uomo dannato e morto, che può evocare scene dal sapore infernale. Guglielmo poi riconosce nella scena uno degli espedienti in uso nei testi dei predicatori – ben noti a Dante – per evocare i tormenti infernali e incutere timore nei fedeli.[3]
Nel corso del romanzo in visioni, raffigurazioni, o miniature di manoscritti, vengono evocati vari mostri infernali, tipici del genere della visio, e da lì passati in alcuni casi anche nel poema di Dante con valori allegorici profondi. E si pensi solo alle tre fiere e Gerione, che lasciano il loro segno in molte di queste immagini e descrizioni dal sapore horror nel corso del romanzo. Un episodio molto interessante è quello del portale della chiesa osservato da Adso: qui tutta la parte infernale rimanda a testi visionari, ed è presente anche Dante visto che la scena è detta «selva oscura». Poi il sesto giorno all’abbazia Adso fa esperienza diretta di una vera e propria visione infernale, ricca di elementi basso-corporei che ricordano certi gironi danteschi.
Durante il terzo giorno Ubertino vuole mettere in guardia il giovane Adso dalle lusinghe carnali, ma suscita in lui inquietudini. Attratto dalle raffigurazioni femminili in manoscritti e statue mariane, Adso cederà alla passione con la giovane fanciulla del villaggio. L’esperienza sensuale viene raccontata con il linguaggio dei mistici di ‘200 e ‘300, e la descrizione della fanciulla riprende puntualmente versetti e immagini del Cantico dei cantici. Ma il tutto è intessuto di rimandi a Inf. V, a partire da Adso tutto «tremante» – come Paolo e Francesca – fino al finale del capitolo, che ripropone leggermente variata la chiusura del più famoso dei canti danteschi: «caddi come cade corpo morto».
Il “poema del fiorentino Dante Alighieri” è menzionato esplicitamente ad un certo punto della storia. Si dice che vi avevano «posto mano e cielo e terra», e lo si accosta al testo mistico di Ubertino, Arbor vitae, predicatore francescano di fine ‘200 della corrente spirituale, attivo in Toscana e in particolare a Firenze. Dante e Ubertino saranno altre volte accostati nel corso del romanzo: dopo il fallimento delle trattative fra legati papali e francescani, si organizza la fuga del frate spirituale che faceva «parte per se stesso», usando dunque le parole che Cacciaguida usa riferendosi a Dante. E in qualche misura anche Guglielmo fa parte per sé, e presenta tratti che ricordano l’Alighieri: né con gli eretici, né con la curia; non pienamente inserito nell’ordine francescano; vicino all’Impero ma critico verso certe scelte; e poi girovago fra le corti, inseguito e sempre in pericolo. Se la Commedia è accostata al testo mistico di Ubertino, Guglielmo ammira molto il trattato politico di Dante e la Quaestio de aqua et de terra, proprio perché lui è uno spirito razionale, interessato agli studi fisici e alla vita politica. Guglielmo e Ubertino diventano così espressioni rivisitate di due diversi aspetti della figura di Dante.
Nel romanzo poi compaiono intere pagine occupate da discorsi teologici, come quelli che tanto spazio hanno nell’ultima cantica della Commedia. E all’interno di queste discussioni filosofiche emerge una delle tematiche centrali nel Nome della rosa, come già nel poema dantesco: il rapporto ragione-fede, i limiti della ragione umana, espressi da Dante nella figura di Ulisse, simbolo di un pensiero razionale, di un Medioevo in qualche modo progressista come quello di Guglielmo. E allora Ubertino da Casale, sulle orme del poema dantesco, avvisa Guglielmo da Baskerville dei rischi della «lussuria della conoscenza», dice che questa sarà la sua condanna all’inferno. E non a caso, all’interno dell’abbazia, il limite della ragione è rappresentato dal divieto di superare le porte della biblioteca, definite colonne d’Ercole, proprio le stesse che l’Ulisse dantesco aveva deciso di attraversare.
Ma andando oltre, la riflessione sulla situazione socio-politica caratterizza entrambe le opere. Nella finzione immaginata da Eco, Guglielmo critica duramente papi come Bonifacio VIII e Giovanni XXII, e attacca la corruzione degli ordini religiosi. Corruzione e avidità della chiesa vengono paragonate proprio alla Firenze condannata dall’Alighieri, e la chiesa corrotta è meretrice come in Dante. L’Abate, per avidità e sete di potere, pecca d’inganno e presunzione, come Guido da Montefeltro nel XXVII canto dell’Inferno, e così in entrambi i casi viene proposto un paragone con lo stesso mito antico, quello del toro di Falaride.
Dante torna quando Guglielmo parla al dibattito sulla povertà fra spirituali e legazione papale, e in quell’occasione presenta posizioni vicine alle tesi del De Monarchia, ma anche qui troviamo elementi di contaminazione postmoderna: elezione e diritti fanno di Guglielmo da Baskerville un illuminista ante litteram, come nelle riflessioni sul valore dissacrante del riso, sul pericolo di ogni fanatismo. In queste occasioni spesso Guglielmo si scontra con Jorge, in particolare pensiamo proprio alla discussione sul riso, fil rouge di tutta la storia in relazione al secondo libro della Poetica di Aristotele. E anche qui possiamo notare un fatto interessante: se Jorge considera il ridere atto diabolico, Guglielmo invece ritiene il poter ridere uno dei tratti distintivi dell’essere umano rispetto alle altre creature. E anche Dante aveva espresso un parere simile in un passaggio della sua Vita Nuova (cap. XXV): «le quali cose paiono essere proprie de l’uomo e spezialmente essere risibile».
Guglielmo è il polo positivo del Medioevo, contrapposto a quello oscurantista di Jorge e dell’Abate. Eco costruisce un’immagine manichea del Medioevo con due poli contrapposti, certo non infondati storicamente anche se la divisione qui appare eccessivamente netta rispetto alla realtà dell’epoca.[4] Guglielmo è anacronisticamente riletto attraverso lenti post-illuministiche che ne fanno uno Sherlock dei secoli bui che si oppone all’anziano monaco Jorge, che appare invece come un demonio alla fine della storia, e che viene per l’appunto definito «loico», espressione usata nella Commedia per il diavolo.
Queste sono solo alcune immagini, stralci di una lettura personale, che però già offre qualche idea della ricchezza che da Dante – e dai testi medievali in genere – arriva con spessore nelle pagine di Umberto Eco, non solo del grande studioso, conoscitore del pensiero e della cultura di quei secoli, ma del narratore, del creatore di storie avvincenti che attraverso lo specchio del passato possono farci ancora riflettere sulle vicende morali e sociali del nostro tempo, e che toccano la nostra sensibilità contemporanea, con l’avventura e il mistero uniti alla fedele resa di un mondo per noi distante ma sempre affascinante.
Note
[1] Sull’idea di centone, e perciò del romanzo come raccolta enciclopedica di tutto un’immaginario, espresso in rimandi o citazioni dirette, cfr. Francesco Bausi, «Un centone, un carme a figura, un immenso acrostico». Fenomenologia della citazione ne Il nome della rosa, in «E ’n guisa d’eco i detti e le parole». Studi in onore di Giorgio Bàrberi Squarotti, Vol. 1, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 297-321.
[2] Per la natura post-moderna dell’intertestualità messa in campo da Umberto Eco, cfr. Stefano Prandi, Delle tipologie intertestuali nel “Nome della rosa” e di una loro possibile storicizzazione, in «Italianistica. Rivista di letteratura italiana»,, Vol. 42, No. 3, 2013, pp. 153-164
[3] In particolare è una scena prelevata da un testo ad uso omiletico contenuto nell’opera del frate predicatore trecentesco Jacopo Passavanti, Specchio della vera penitenza.
[4] Cfr. Francesco Bausi, I due medioevi del Nome della rosa, in «Semicerchio», XLIV, 01/2011, pp. 117-129.