di Andrea Cortellessa

 

«Contundenti» non sono solo gli «oggetti» dei quali la seconda parte del libro di Alessandra Carnaroli ci offre cinquanta flash da brivido; a vulnerarci sono le parole che li fotografano, che li disegnano anzi: col tratto brut di chi una volta ha detto di voler «scrivere per immagini corte tipo Lascaux», alla maniera «rupestre» d’un «pittore di bisonti» (peccato allora che l’ostinato classicismo grafico della «bianca» non abbia ospitato pure – come diversi dei libri-oggetto coi quali Alessandra s’è fatta finalmente conoscere negli ultimi anni – appunto i suoi stravolti, magnifici disegni). Ogni volta l’«oggetto» riempie di sé il primo verso; parola-titolo che colpisce subito, sfrontata, per la nudità stralunata e pop: «il barattolo» – pausa – «dei pelati appoggiato sul piano / di lavoro / della cucina / ancora chiuso / che nessuno / ha voglia di mangiare / si sa nella carneficina». Dove si vede anche come, nella scandalosa ricerca del «grado zero della poesia» (per dirla con un Antonio Porta d’annata) di questo suo ultimo tambureggiante decennio, dalla finestra a volte rientri la letterarietà cacciata dalla porta («cucina»:«carneficina» è il «Nietzsche»:«camicie» di un Gozzano che abbia visto Martha Rosler).

 

 

A primo acchito può darsi l’equivoco di prendere alla lettera questa scrittura brutalista (come si dice, in architettura, del cemento strutturale esibito senza innecessarie politure) il cui più che consapevole primitivismo, invece, viene da lontano. Carnaroli esordiva infatti poco più che ventenne, nel 2001, con una poesia agli antipodi di questa: un lirismo modernista, raffinatamente (ma un po’ risaputamente) a giorno di tutti i paraphernalia della c.d. «poesia di ricerca» post63esca – fiorita di parentesi, rimalmezzo e due punti in clausola. Già allora il mentore Tommaso Ottonieri divinava però la tendenza, della «novissima lirica femminile», a «una sorta di tabula rasa delle tradizioni, in grado di liberare la visione, installando (visivamente) la lettera (e il suo soggetto), trasportando mesmericamente la lirica oltre i confini della letterarietà». Erano anni in cui, fresca di diploma in arti grafiche, invano Carnaroli cercava fortuna in una «Milano da bere che però è già stata bevuta»: così nel bel (si fa per dire) mezzo degli Anni Zero raccontava «Alessandra», una delle everywomen di un indimenticato libro-inchiesta di Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese. E certo in questo passaggio avrà contato proprio l’esempio di Nove (che la introduceva pure, come autrice di versi, in un’antologia di quegli anni): al quale confessava «Alessandra», profuga nel frattempo a Parigi dove aveva trovato l’amore e messo su nutrita famigliola, di trovare l’Italia «tutto un cartone animato, un’immensa fiction, un reality show».

 

 

Da giusto un decennio – un titolo-manifesto come Femminimondo è del 2011 – la sua scrittura, allora, s’è rovesciata da parte a parte: da un lato sfrondando ogni decorazione per andare al nucleo lacerante delle cose, così facendole «contundenti» (in un survoltaggio parossistico, magari, della grande lirica novecentesca degli «oggetti», crudelmente deprivati però d’ogni aura salvifica), dall’altro resecando ogni tratto autobiografico per «togliersi le parole di bocca», ha scritto Helena Janeczek nell’introdurre una sua raccolta dal titolo eloquente, Sespersa, «affinché quelle che le restano parlino per tutte». Quello che anatomizzano infatti, queste parole-lama, è la violenza d’ogni giorno sui corpi in particolare delle donne (Elsamatta sulle psichicamente disturbate, il magnifico Ex-voto sulle ospedalizzate, appunto Sespersa sulle «abortite» e via sociocampionando); e restano al momento confinate su blog e plaquettes le sue ancora più squassanti prose brevi.

Non si commetta però l’errore di prenderla per una scrittura «di denuncia» (per quella è il caso di rivolgersi piuttosto, dice sempre Antonio Rezza, ai Carabinieri). Al suo esordio la violenza splatter di Nove, proprio, da molti venne presa viceversa come compiaciuta mimesi del punto di vista del carnefice, senza capire la mimesi di secondo grado, ben più crudele, della sua spettacolarizzazione mediatica. Allo stesso modo Alessandra – tornata nel frattempo nel natìo borgo selvaggio, in una piega delle Marche – ha detto d’ispirarsi alla «fondamentale […] cronaca di Repubblica: la riduzione della tragedia a trafiletto», addicted «come a una droga» al «mondo come ci viene rappresentato in Italia». Le sue I-cone e Tele-croniche ancora disperse è questa violenza, della banalizzazione semiotica, che segnano a dito. Ma, proprio come nel miglior Nove ormai lontano, la pietas implicita in questo mineralizzato sarcasmo deriva proprio dall’ambiguità di un’attrazione segreta. Non è certo un caso che la violenza contemplata con orrore, nella seconda parte del libro-specchio, sia la stessa che, nella prima, si esercita su sé stessi: «diranno che è stato / il solito albanese / senza fissa dimora / che ti ha seguito fino a casa […] // dietro la riga dei tuoi pantaloni / così bravi a non farsi vedere / a farsi trovare pronti / col coltello / nella mia mano».

Alessandra Carnaroli, 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti, Einaudi, 2021, 111 pp., € 11

Le immagini sono tratte da Alessandra Carnaroli, Ex-voto, Oedipus 2017. Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Tuttolibri» l’8 gennaio

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