di Fabio Rocchi

 

Bruno Mazzoni è stato per molti anni Ordinario di Lingua e Letteratura Romena presso il dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa. Attivo da sempre anche sul fronte della traduzione, ha dato voce tra gli altri ad autori quali Ana Blandiana, Herta Müller e Max Blecher. Insignito del Premio Nazionale per la Traduzione (2004) ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti dall’Università di Bucarest e dall’Università Occidentale di Timisoara. Rappresenta da anni un tramite insostituibile tra la cultura romena e il nostro paese, rendendo possibile la ricezione di quel mondo in lingua italiana. Con la traduzione integrale delle opere narrative dell’autore Mircea Cărtărescu, prima per la casa editrice Voland e poi per Il Saggiatore – e per Nottetempo per l’opera in versi – ha affrontato la monumentale trasposizione di un universo complesso e coerente, ricostruendo minuziosamente, rispetto al contesto di provenienza, uno degli immaginari letterari contemporanei in assoluto più rilevanti.

 

1. Dopo l’uscita per il Saggiatore di Solenoide (maggio 2021) Mircea Cărtărescu ha definitivamente trovato una unanime consacrazione come autore di un potente messaggio sull’oggi, allucinato e visionario. Quali sono state le difficoltà nel tradurre con la necessaria coerenza stilistica pagine dotate di così tanta forza immaginifica?

 

Comincerei col dire che fortunatamente ormai ho maturato una frequentazione ultraventennale con la scrittura di Cărtărescu. Dopo un tale rapporto, mi sono familiarizzato non solo con il tono della sua scrittura, ma anche con il vocabolario onnivoro che caratterizza il suo stile.

Naturalmente spero di avere trasposto in modo sufficientemente adeguato la sua coerenza stilistica nell’italiano. In che misura questa coerenza che ho cercato di riprodurre sia omogenea con l’originale questo soltanto gli amici romenisti-italianisti potranno dirlo, perché come sai benissimo qualsiasi tradizione letteraria ha alcune sue caratteristiche specifiche che è tutt’altro che semplice condensare e riprodurre in un contesto linguistico diverso da quello di origine. La lingua romena ha una serie di suoi connotati molto delineati, dove per esempio non troviamo una caratterizzazione dialettale o delle patine regionali. Questa per il traduttore italiano è una agevolazione in qualche modo, perché non deve stare a porsi il problema di come rendere un eventuale dialetto, ma sicuramente si presenta ad un certo punto il dilemma di come rappresentare efficacemente alcuni tratti gergali. In quel frangente l’unica soluzione è quella di scegliere un registro basso, come dire substandard.

 

Direi che senza dubbio la trasposizione in lingua italiana di un’opera come Solenoide è stata agevolata dal fatto che, avendo io già tradotto le oltre millecinquecento pagine di Abbacinante, per certi versi sono tornato ad abitare un mondo che avevo già visitato, intendendo dunque Solenoide proprio come una gigantesca epitome di una precisa cosmologia alla quale l’autore aveva già cominciato a dare forma. Si tratta di una cosmologia complessa, che chiama in causa registri differenti e talvolta specialistici, a causa dei rimandi alle neuroscienze, alla psicanalisi, all’elettromagnetismo. I livelli di narrazione sono tanti e non sempre omogenei.

 

Anche nelle descrizioni ambientali troviamo questa sorta di ambivalenza dei registri. Pensiamo a come è ritratta Bucarest. È fatiscente, la città più brutta e più malinconica del mondo, come viene definita da qualche parte. Però allo stesso tempo appare anche una innegabile seduzione esercitata sul lettore – e su Cărtărescu stesso – grazie a questi tramonti resi attraverso dei colori splendidamente vividi, accesi, animati da una magnifica luce rossa. In qualche modo queste atmosfere cromatiche mi ricordano alcune scene iperrealiste di qualche film di Fassbinder, ad esempio Querelle de Brest. Bene, la loro resa in traduzione è diametralmente opposta al corredo di aggettivi e di sostantivi che invece appartengono alla rappresentazione della Bucarest affamata e disadorna degli anni Ottanta.

 

2. Il fatto che tu sia stato, fin dall’inizio (credo nel 2000 con Travesti), il traduttore ufficiale in lingua italiana di Cărtărescu regala al lettore, così come al critico, una invidiabile circostanza di partenza: abbiamo uniformità di voce e di scelte e riusciamo dunque a recepire l’autore in una versione perfettamente omogenea. Ti pongo ancora una domanda sulla traduzione. Il rischio è quello di veder saltare gli equilibri lessicali su cui si fondava il testo originario. Come sei riuscito a salvaguardare la ricchezza e la varietà dei significanti romeni in cui Cărtărescu si è espresso scrivendo?

 

È una domanda questa che si collega intimamente alla precedente. Forse ciò che aggiungerei è che il Cărtărescu scrittore dei testi ampi ha una omogenerità di scrittura diversa da quella che si può riscontrare nelle prose più brevi. Prendiamo Nostalgia. E prendiamo anche Melancolia, prossimo all’uscita in Italia con La Nave di Teseo. Qui ci troviamo di fronte a testi profondamente diversi, dal mio punto di vista, rispetto alle sonorità a volte stridule della trilogia Abbacinante e anche rispetto all’universo di Solenoide. Si tratta di testi in cui sostanzialmente Cărtărescu riprende il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dove si offre al lettore un côté molto più nostalgico, che affonda nella memoria e che non vuole in nessun caso avere la forza del nucleo massiccio di senso che incontriamo in quei due progetti mastodontici.

 

Quindi in realtà scinderei l’atteggiamento, e la relativa omogeneità dei testi, in due versanti. Ai quali, su un piano ancora diverso, aggiungerei la poesia. Ad esempio, nel Levante abbiamo una interessantissima commistione tra prosa e poesia. L’opera nasce come poema epico in versi nel progetto originario e poi diventa, nella versione in traduzione, un vero e proprio prosimetro. Con questa operazione non soltanto il libro è divenuto una sorta di Vita Nuova della letteratura romena, ma ha in qualche misura anche proposto un registro ulteriore per il Cărtărescu prosatore: quello eroicomico, che si riallaccia ad una certa tradizione romena (in particolare la Zingareide, di Ion Budai Deleanu) e che guarda contemporaneamente alla temperie postmodernista, di cui l’autore è assolutamente figlio. Non dimentichiamoci che tutta la generazione dei nuovi giovani della letteratura romena, debuttanti agli inizi degli anni Ottanta e oggi ultra sessantenni, aveva da una parte un robusto bagaglio scientifico, frutto di studi in ottimi centri universitari a numero chiuso, e dall’altra si era nutrita della letteratura americana e sudamericana, unendo a queste letture quelle dei critici più in voga nei campus statunitensi ed europei. C’è da ricordare che la tesi dottorale di Cărtărescu è stata proprio dedicata al postmoderno romeno. Si tratta di un ponderoso volume di oltre quattrocento pagine in cui lui non solo metabolizza ed espone le principali posizioni del tempo ma poi applica alla letteratura nazionale quelle teorie.

 

Per ritornare in conclusione al discorso sull’uniformità della voce e delle relative scelte lessicali: sicuramente, se ci riferiamo ai tre libri di Abbacinante e a Solenoide, io credo di essere riuscito in qualche modo a conservarne l’intensità di registro, proprio perché mi sono immedesimato in questa scrittura che è alta. Lì si fanno davvero poche concessioni al parlato e volutamente si assume un tono sostenuto. L’unica eccezione che saprei citare rispetto a questa impostazione è la prima parte del terzo tomo di Abbacinante, le prime centocinquanta pagine. In quel caso si fa il verso – prendendosene gioco – alla retorica della pseudo-rivoluzione del dicembre 1989. Ne derivano concessioni stilistiche insolite per il Cărtărescu dei grandi romanzi. Non so se questa sia la parte più durevole della trilogia, ma senza dubbio è una delle più abbordabili. Credo che sia stata anche una sorta di concessione per un pubblico meno raffinato, un tentativo per includerlo offrendogli una versione più potabile di una prosa per sua stessa natura quasi sempre impegnativa.

 

3. Cărtărescu si contraddistingue per la lunghezza delle sue storie. Già con la trilogia Abbacinante aveva dimostrato di essere uno scrittore in grado di mettersi alla prova all’interno di un progetto narrativo ambizioso per dimensioni (oltre 1.600 pagine complessive), mentre con Solenoide andiamo ancora oltre, oltrepassando le 900 pagine per un singolo romanzo. Nell’epoca dell’elogio editoriale della brevità, segnalata spesso come criterio qualitativo, come spieghi la fortuna di un autore che invece, in palese controtendenza, cerca di proporre un pensiero articolato e fruibile solo sulla lunga distanza?

 

Cărtărescu, nella sua esperienza di scrittore, è partito in patria con la poesia, per poi scegliere deliberatamente la prosa anche per uscire dai confini della Romania, con un’evasione da frontiere non soltanto linguistiche ma anche con l’intento di sottrarsi ad un orizzonte al tempo piuttosto delimitato. In questo passaggio, ha progressivamente avvertito il fascino della grande letteratura americana di lingua inglese, che mostrava chiaramente una vocazione per una scrittura ampia e strutturata (basti pensare a DeLillo o a David Foster Wallace, nonché a Bolaño, scendendo in Cile). Ma non si tratta soltanto di modelli, quanto di una personalissima concezione della scrittura. È lui stesso a confessare che, una volta cominciato a narrare, in realtà lui non sa ancora quando e come quel flusso avrà termine. Si lascia cioè andare ad una continua stratificazione di un testo che concresce su sé stesso. È anche vero che forse, secondo alcuni, in molti dei suoi romanzi maggiormente esplosi si possano rinvenire ripetizioni e parti talvolta duplicate senza sostanziali differenze. Probabilmente Cărtărescu stesso ne è consapevole, visto che spesso insiste deliberatamente su particolari ossessivi e per così dire ricorrenti. Uno dei possibili titoli a cui aveva pensato per Solenoide era appunto: Il libro delle mie anomalie. E quindi è chiaro che, se ci sono delle anomalie, ciò si accompagni in alcuni punti anche ad una vera e propria coazione a ripetere, una ecolalia compulsiva che impone di ritornare con accanimento su alcuni incubi: come dire, la misura debordante e incontrollabile fa intimamente parte di una sorta di scrittura allucinata quale è quella di Cărtărescu. Non a caso infatti lui aveva inventato anche questa fortunata formula per descrivere la propria modalità di scrittura, parlandone come di una sorta di nastro di Moebius (alla quale aveva affiancato il sintagma neologico “textesistenza”). In questa dimensione del tutto particolare si mescolano realtà, allucinazione e sogno. E naturalmente è proprio l’assenza dei confini tra realtà e allucinazione a rendere il sogno strumento e marchio di fabbrica di questa scrittura ponderosa, in cui non si ha mai una percezione netta dei limiti.

 

4. A prima vista, l’atmosfera dei romanzi di Cărtărescu può far pensare alla prosa sospesa di Kafka – ad esempio ampiamente citato in Solenoide – e a quel rapporto attonito e conflittuale con il reale che ha contraddistinto la narrativa magico-fantastica ripresa poi da Borges. Sei d’accordo con questo inquadramento di partenza, che tra l’altro sta circolando all’interno delle analisi su Cărtărescu, oppure ti sembra più opportuno offrire coordinate di riferimento differenti, magari anche legate alla letteratura romena?

 

In Travesti, che è il romanzo più sintetico di Cărtărescu, il protagonista, quando si sposta per la sua vacanza nella colonia in montagna, porta con sé una copia della Metamorfosi di Kafka. Già lì quindi possiamo riscontrare un primo preciso accenno al grande padre della letteratura del Novecento. Si tratta soltanto di uno dei molti cammei disseminati anche in Solenoide e dedicati all’opera kafkiana e al suo orizzonte culturale.

A questo c’è però da aggiungere – all’interno di un particolare rapporto con il reale che vive sostanzialmente della sua trasfigurazione – il fecondo dialogo che Cărtărescu costruisce nel corso del tempo con la letteratura fantastica, da intendersi nelle sue manifestazioni ottocentesche, verificatesi nell’alveo del filone tedesco, ma da analizzare anche nella serie di ripercussioni che si riscontrano anche nella letteratura romena, circostanza che l’autore dimostra di tenere particolarmente presente.

 

In questo senso, il primo nome che vorrei fare è senza dubbio quello del grande poeta tardo romantico Mihail Eminescu, considerato per quella letteratura la figura di riferimento, il loro vate come per noi lo è Dante. Eminescu ha scritto alcuni racconti e un romanzo (Geniu Pustiu, tradotto in italiano con il titolo Genio desolato) in cui il tratto fantastico è molto presente (e aggiungerò, sia pure di sfuggita, che la tesi di laurea del Nostro fu appunto sul ‘sogno chimerico’ nella poesia emineschiana). Queste componenti narrative in parte allucinate e stranianti sono riscontrabili anche in tre autori romeni successivi, appartenuti in anni diversi alla temperie culturale novecentesca. Uno di questi è Mircea Eliade, lo storico delle religioni e antropologo molto noto anche in ambito internazionale, ma in realtà forse ricordato in Romania soprattutto per la sua produzione narrativa. Eliade giocava spesso su questa idea di uno sdoppiamento della sua personalità creativa, alludendo ad un Eliade diurno, che si occupava del grande tema della ierofania nel mondo contemporaneo, e specularmente ad un Eliade notturno, che invece scriveva romanzi. In questi romanzi è fortissima la componente fantastica. A questo proposito vorrei suggerire al pubblico di questa intervista una novella che tra poco uscirà per i tipi di Jaca Book, in cui appunto saltano i nessi temporali e in cui viene volutamente esplicitato il momento di crisi dal quale scaturisce quel particolare rapporto tra realtà e sogno così tipico nella narrativa di Cărtărescu. Il titolo della novella dovrebbe essere, presumo, Dalle zingare. È comunque un fatto che il gioco del passaggio dalla realtà al sogno venga frequentemente rappresentato dalla narrativa di Eliade, in cui naturalmente agiva anche un consistente influsso psicanalitico, e che debba essere inteso come un precedente di cui il nostro autore ha tenuto senza dubbio conto.

 

A questa galleria che sto sinteticamente tratteggiando aggiungerei il nome di Max Blecher, scrittore ebreo-romeno morto prima dei trent’anni e autore di due romanzi significativi, uno del 1936 e uno del 1937. Di entrambi, Cuori cicatrizzati e Accadimenti nell’irrealtà immediata, usciti presso la Keller Editore di Rovereto, mi sono occupato della traduzione in italiano. Dal complesso dell’opera di Blecher tra l’altro il regista rumeno Radu Jude ha tratto il film Scarred Hearts, direi una pellicola significativa che non a caso ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Festival del film di Locarno nel 2016. Questo a ulteriore testimonianza del fatto che ormai il nome di Max Blecher sia diventato un nome di riferimento per buona parte dell’immaginario romeno. Molto interessante del resto constatare come Accadimenti nell’irrealtà immediata sia molto vicino alla tematica della Nausée di Sartre e come esca appena qualche anno prima del capolavoro francesce. Blecher dimostra con questa opera una certa sincronizzazione con una koiné europea esistenzialista. Lo stesso Cărtărescu ha del resto riconosciuto come Max Blecher sia uno dei suoi grandi autori di riferimento, che ha introdotto ad esempio la scrittura in prima persona singolare, cosa che prima del suo esempio non era affatto abituale nella letteratura romena.

 

L’ultimo nome che si potrebbe inserire in questo resoconto del genere fantastico e visionario declinato in area romena è quello di una poetessa a me cara, Ana Blandiana, le cui poesie ho tradotto più volte. Blandiana ha pubblicato anche alcuni racconti fantastici, ai quali dimostra di tenere molto, usciti in Italia con il titolo di Progetti per il passato e altri racconti per le Edizioni Anfora di Milano. C’è insomma, come credo di avere dimostrato, un filone molto praticato, che parte dall’Ottocento romeno e che sostanzialmente corre senza interruzioni lungo l’arco dell’intero Novecento, del quale Cărtărescu rappresenta una estensione contemporanea, con tutto il carico di originalità e di assoluta straordinarietà che la sua esperienza di scrittura porta con sé.

 

5. In Abbacinante e in Solenoide – ma anche in Nostalgia, che probabilmente di quei romanzi costituisce la sinopia – mi ha da subito colpito una decisa ambizione totalizzante. Una mitografia personale, che tenta di penetrare l’essenza nascosta delle cose, viene proiettata sulla pagina attraverso immagini indimenticabili per il lettore e viene ricompresa in uno sguardo complessivo sui fenomeni e sul reale. La tensione verso l’opera-mondo di stampo massimalista, ovvero verso un’epica contemporanea che intenda dimostrare l’esistenza di un senso che la letteratura è in grado di rivelare, rappresenta ai miei occhi la peculiarità più evidente in storie che non si limitano soltanto a narrare i fatti. A quel punto, la scelta di un romanzo anche enciclopedico, ricco di digressioni, di intertestualità, di aperture verso altri saperi, sembra voler ostinatamente difendere i valori espressi dal canone occidentale. Che ne pensi di questo punto di vista?

 

La tua domanda coglie nel segno. In quella direzione, giusto per fare un esempio, vorrei ricordare il discorso che Cărtărescu ha tenuto qualche anno fa in occasione dell’apertura della Fiera del Libro di Göteborg. In quel contesto sosteneva fermamente che è la letteratura l’unico vero valore da salvaguardare. Anche nella sfera personale, conoscendolo, devo constatare che per un uomo come lui l’unica cosa che ha davvero un senso è il poter scrivere letteratura. L’unica durabile soddisfazione che Cărtărescu prova è racchiusa nell’atto di continuare a narrare storie. Nel suo sistema di valori viene messo al primo posto una sorta di atteggiamento fideistico rivolto verso la letteratura, intesa come strumento che può salvare l’umanità dall’annichilimento del tutto. E se ci pensiamo questa visione è perfettamente coerente con il finale del suo ultimo romanzo. Solenoide si chiude con un messaggio pienamente ottimistico: nella scelta di salvare da un ideale incendio il bambino – una vita umana – e non ad esempio un dipinto importante, il protagonsita alla fine opta ostinatamente per il bambino. In questa scelta è racchiusa una dimensione per la quale lo spazio vitale dell’essere, dell’individuo, è più importante di qualsiasi altra valuta.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *