di Jean-Paul Manganaro
[Domani uscirà, per Il Saggiatore, il libro Oratorio Carmelo Bene, ultima opera dello studioso e traduttore Jean-Paul Manganaro, dedicata al grande artista salentino. Si pubblica qui in anteprima un estratto del primo capitolo Oratorio.]
La camicia dev’essere comoda, né larga né stretta. Semmai un po’ larga, soprattutto al colletto, e anche all’attacco delle maniche. Evitare la seta, è troppo calda in scena. Per i polsini è diverso, meglio stretti, cinque bottoni, sempre dispari. Il polsino non deve scendere dalla manica oltre il centimetro, il centimetro e mezzo, mai di più, quel bianco si vede da ogni posto, in qualunque teatro, anche all’aperto, esaltato com’è da quel frullo riccio che andrà svolazzando per aria. La pettorina, liscia fino all’altezza del petto, va poi arricciata, ma senza sopracuciture, non deve infastidire il diaframma, dargli la sensazione di essere stretta, ma deve lasciar libero il campo, lo spazio del soffio, del respiro, del sospiro. E s’ingolfa nella cintura di seta nera. Ma poco importa. La giacca sarà determinante, il suo taglio perfetto, alle spalle, all’inizio delle braccia, e soprattutto alla scollatura che dev’essere precisa, senza esitazioni, andar giù dritta, costringere lo spazio bianco della camicia a dilatarsi proprio perché rinchiuso ai lati. La giacca mai abbottonata, anche qui per non ingombrare. A volte, un gilet rosso, ma non è detto. Non è solo un modo, o una moda, è un dispositivo preciso: il bianco dev’essere impetuoso, sbiancare il volto per riflesso, biancore aumentato dal palpitare della cravatta a lattuga che scende dal collo, e che in realtà conduce al viso, sì, al volto, al pallore delle paure dominate, controllate dai riflettori, senza sbavature, tagli netti, tranciati, precisi. Taglio netto, contro il diffuso, il soffuso. Da questi che sembrano dettagli, deve essere inciso il gesto, scattante e breve, a volte laconico: ogni bianco, polsino, triangolo della camicia, volto sono gli elementi attivi nel nero funebre che li circonda. Pantaloni e scarpe, che non diano fastidio, scuri e spenti, mai brillanti. Figura eretta, sempre, aristocrazia del gesto, nobiltà della presenza. Le mani mai poggiate al leggio, frullano delicate lo spartito, quel che c’è da vedervi, non da leggere, ma da dire – o da tradire. Questo costume è stato l’ultimo ad accompagnare per lungo tempo ogni prestazione scenica. Con qualche, minima, variazione. Comincia pressappoco con Riccardo III, finisce disfatto con In-vulnerabilità d’Achille. Ha dunque una sua trama che non è storica ma estetica, artistica: rinvia al dandismo, al disperato delle musiche romantiche, alla nostalgia di un tempo mai vissuto, comunque saputo, alla modulazione di un tempo misurato che fu moderno e che lo resta, proprio perché non definisce nessuna intenzione al di là di se stesso. Non ricopia un’epoca, ne inventa una sua, se la porta addosso come connaturale, se la porta appresso, così come il teatro è inconcepibile senza sipario, senza luci e, oltre la siepe, il buio. Uguale. Ha una sua trama: rinvia alla riscoperta di un teatro impossibilmente totale che include il suo primo fattore, Shakespeare, rievocato nell’Ottocento, e poi l’opera, e poi, via via, gli altri. Quali? Poco importa, importa appena il punto di partenza – ma il punto di partenza non è un’origine né un fondamento, è appena un apparente nuovo inizio delle cose, il loro farsi evento – il resto è la costante infinita delle variazioni che circolano libere, da un paese all’altro, sfrontate, senza frontiere, teatro, musica, letteratura, tutte le altre scienze, il Settecento. E finisce nel Romantik. Nelle sue belle pagine, Piergiorgio Giacchè spiega con precisione tutto questo comporsi e ricomporsi, intricarsi.[1] E il costume di scena diventa allora uno dei leitmotiv essenziali di questo teatro.
È stato sempre così? Non proprio. Pensare il teatro crea in sé un movimento, delle flessioni, assomma delle variazioni – come in musica – che s’intersecano, s’interrogano e creano un discorso, con domande e attese, forse risposte temporanee, mai punti finali, di arrivo, ma momenti precisi di una nuova partenza, di una nuova parte, un nuovo gioco delle parti. Incidere e intridere, incisione e intrisione. Per quanto possa essere attestabile,[2] il costume di scena in Il Rosa e il Nero era trasposto e concentrato quasi interamente sul volto, esso diventava scena di fascino e ribrezzo, l’attore, gli attori si costituivano come qualcosa di alieno dal mondo, eppure rinviavano a delle incarnazioni che avrebbero potuto esistere, incastonati in materie plastiche inorganiche che ne rivelavano un’antica possibilità minerale e animalesca, remota, terrificante e affascinante. I prodromi, già, dell’inorganico e della macchina attoriale – formulazioni che saranno ridefinite anni dopo –, fin dall’inizio, come una linea destinata a diventare una costante, sottesa. Il corpo, l’essenza del corpo, il volto, rivela così un suo passato inespresso ma saputo, saputo da un inconscio che lo trascina verso un divenire materia esaltata, atta alla teatralità. Non è maschera qui, ma costume di scena che «incidenta» il corpo dell’attore, corpo e attore si trasformano l’uno in gioco con l’altro, l’altro con se stesso. E in questo esercizio di trasformazione, perdere l’io: se l’attore è la trasformazione e la trasformazione è l’attore, non c’è più spazio per l’io, è stato sottratto, vanificato, reso vano. Rendere vano, vanificare, sottrarre, ecco alcune delle determinazioni di fondo del teatro di Carmelo Bene: non si può andare avanti se non si capisce: togliendo l’io, si toglie Dio – o togliendo Dio, si toglie l’io (diventasse un proverbio!) – si toglie infine il Deus ex machina dalla scena, da tutte le scene –, l’attore non ha più nessuna «protezione», né civile né incivile, non ha più nessun appoggio che gli garantisca la sopravvivenza, è la belva irretita dal reziario o il reziario impedito dalla belva. L’attore diventa in balia di se stesso, preda di se stesso, al contempo reziario e belva. È importante capire questo per cogliere gli stravolgimenti operati da Bene, gli attacchi senza limiti all’istituzione, alla comunicazione critica, al pubblico, lo scontro con chi non afferra l’operazione attuata, la frontalità contro chi non intende, non capisce, non sente. Ma soprattutto gli attacchi rovinosi alla materia stessa del teatro: testo, scene, costumi, luci, gioco dell’attore, l’attore in gioco. Impedire l’atto dell’attore: il costume varia dunque a seconda dell’intenzione sempre esplicitata che lo trama. L’esempio più significativo è in Hermitage, nell’impossibilità per la persona-personaggio di aderire alla minima coerenza dialettica – come infilare un pantalone –, di aderire a qualsiasi immagine travestita da sé, sempre tornando da capo volto e corpo, volto anche cancellato col sapone nello specchio, anche sfigurandolo in tutta una serie di divenire (im)possibili. L’unico rapporto possibile, l’unica coerenza, è con l’artificiale, è con la materia «plastica», con le rose di plastica che fissano, senza gioco di metafore, una porzione di realtà tangibile, e che scatenano una musica d’opera da finimondo in un coacervo di estraneità incontrollabili. E poi l’esercizio del comico fine a se stesso, bruciarsi con l’acqua calda, e poi il gesto conclusivo di scaricare l’acqua del water su una foto: «È finita con chi mi ama!». Impossibilitare l’atto, impedirlo, tutto diventa un complicato gioco di impedimenti.
C’è un sapere, una cultura teatrale elaborata fin dall’inizio non come rimozione analitica, né come rivisitazione postmodernistica, ma come unica possibilità di creazione, che si esprime nelle affermazioni tutte in negativo di Bene, ispirate forse dal Rien va di Landolfi: non si fa teatro col teatro, non si fa cinema col cinema, fino all’espressione di uno sconcertante autobiografismo: non si fa vita con la vita. Ed è proprio questa cultura della teatralizzazione estrema che emerge da Hermitage o da Nostra Signora dei Turchi: con una presa di posizione immediata il cui perno essenziale è il corpo dell’attore, il corpo attoriale, che investe ugualmente il corpo dell’opera: proprio l’antico corpus. Non è un puro caso che Bene si ritrovi praticamente da solo in quest’operare sull’opera corporale: Hermitage, Nostra Signora dei Turchi, Capricci ma anche Don Giovanni sono situazioni del corpo a tu per tu con la propria materia, con la materia come essenza specifica, falsamente estasiata ed esaltata, in opposizione a quanto è già avvenuto o quanto avverrà con il complesso dei sistemi mercantilistici che ruotano attorno all’immagine e che la costituiscono come realtà e verità di un «io-uno» impreciso. Sono momenti che nell’apparenza del più torbido intimismo – ciò che Bene chiama «il privato» – negano tutti gli stati e gli strati dell’interiorità affettiva e mentale del corpo, che la sventrano con una «crudeltà» prima mai raggiunta o detta in scena, anche se supposta e teorizzata in relazioni violentemente biografiche, com’è stata l’esperienza artaudiana, com’era stata anche l’espressione di un Lautréamont. Un intimismo che inscena la passione come motore delle volontà possibili e immaginarie del corpo, un farsi e un disfarsi che da sempre è sembrato l’epicentro di ogni meccanica creativa, dal romanzo al cinema, passando attraverso il teatro. E sia in Hermitage che in Nostra Signora dei Turchi l’accento è posto parallelamente e sul romanzo della cosa, e sul derivato che ne sono le lettere – romanzo e lettere che costituiscono, materialmente, dall’Ottocento in poi, da Goethe fino a Thomas Mann, l’altro corpo necessitato e bisognoso, quello della creazione.
Il corpo, quindi, sacralizzato da una tradizione complessa e spesso contraddittoria – si pensi all’affollata cristologia occidentale –, viene sistematicamente travagliato, disorganizzato, devastato. In Hermitage comincia già con gli oggetti, con le scarpe scambiate all’inizio del film, continua nei letti sfasciati e sempre rifatti ma in modo tale che siano ancora più sfasciati di prima; continua nelle masse dei cuscini in cui il corpo cerca, non trovandola, una sistemazione adeguata. Le cose sono così convocate ad assistere al rovinio meticoloso e metodico del soggetto, testimoni non interrogabili, e quindi senza risposte, di una storia del mondo che è quella che appartiene al corpo stesso che l’accentra, la concentra e che, invece di esprimerla, la disperde. Quanto al corpo, esso è memore di un’esperienza teatrale travagliata, la cui eco essenziale è quella derivata da Il Rosa e il Nero: i volti traslucidi di inquietanti perlature policrome che lo squamavano e gli conferivano qualcosa di astrattamente minerale, perde in Hermitage ogni metaforizzazione possibile attraverso il dirsi diretto di un volto imperlato di scabbie, di un cancro del derma, una peste che lo spella progressivamente e gli attribuisce il biancore tetro della figura di morte o dell’inesorabilmente passato: il tempo sconfinato e stratificato di tutte le culture. A questa configurazione corrisponde inoltre la complicata serie di gesti che servono a esprimere l’impossibilità del corpo a volere, a potere: gli impedimenti che distraggono e traviano, che finiscono col trarre «altrove» l’impossibile – e che è pur sempre un altrove senza luogo, senza spazio. Così il corpo rotola facendo perno su se stesso, si accuccia invece di sedersi, infila pantaloni su un asciugamano che rende impossibile ogni vestizione, e implica allora un nuovo spogliarsi, ma adesso in quanto gesto di pura spoliazione, puro atto.
A questi meccanismi della materia, corrisponde il piano ulteriore delle espressioni mentali, tutte convalidate da un continuo guardarsi allo specchio – non valutabile secondo i canoni di una modulazione narcisistica e ancor meno di uno stadio dello specchio: è semplicemente il corpo «in prova» che guarda e riguarda, nel proprio riflettere, il valore, la valenza del possibile; è quindi un atto puramente mentale in cui la visione è inghiottita dallo sprofondare del proprio falso «in immagine», mettendo in evidenza l’improprietà e l’inadeguatezza di ogni riflessione che tenti di pensarsi un suo destino. E nel frattempo, l’attesa del tempo reale si è trasformata in un tempo «d’opera» e «di opera», come lo sottende la colonna sonora, sempre smorta in un presente vizzo di passato, al di fuori dell’azione di una qualsivoglia attualità, foss’anche legata al complesso gioco con ciò che stradice e tradisce, che non sia la propria. Un tempo insomma che è quello del teatro e del cinema: un tempo finto, o un tempo di finzioni.
L’immagine del corpo è devastata dalla sua storia, dal suo modo di essere storico: il corpo d’uomo si trasferisce dalla propria scena a quella del femminile che sembra non appartenergli, attraverso un ermafroditismo che confluisce percettibilmente in un omosessuare del maschile, in un amarsi del maschile, rivolto a se stesso. L’insieme di queste corporalità diverse è ugualmente irriso dalle sudorazioni in cui è immerso come in altrettante febbri del corpo e dell’essere impossibilitato, e lascia emergere il segno di una lascivia e di una morbosità atea che tenta però di pregare, nella simultanea evocazione-distruzione dei miti che l’hanno costituita. Le allusioni culturali sono numerose: da quella esplicita al corpo neroniano, a quell’altra più fugace ma insistente di un Eliogabalo artaudiano o arbasiniano, di un Eliogabalo autosmembrato e poi tagliato e rappezzato alla fogna. Allusioni meticolosamente riprese anche dalle foto di von Gloeden, con la stessa identica carica voyeuristica che viene infine scartata come impaccio ulteriore e soprattutto come vanificazione dello sguardo voyeur che riguarda se stesso come un altro e quest’altro come un oggetto. L’opera del passato sotto specie diverse – corpo, concetto, immagine, suono – viene ascoltata origliando e ne risulta un bere sbavandosi addosso, un riflettere per non cogliere e per lacrimarsi addosso, un guardarsi per non vedersi, un vedersi in un ingrandimento che trasforma in un aborto, e infine una strumentazione sonora come una cacofonia di melodie.
Note
[1] Piergiorgio Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997.
[2] Molto scarna è la documentazione su Il Rosa e il Nero: un numero di Sipario, numero 246, del 1966, dedicato a Carmelo Bene; il documentario Bis, di Paolo Brunatto, del 1966, che filma qualche prova del lavoro; dei documenti di sceneggiatura presentati alla mostra «Benedette foto!», di Claudio Abate, a cura di Daniela Lancioni e Francesca Rachele Oppedisano.