di Mariano Croce e Andrea Salvatore

 

Giorgio Manganelli scrive del Giacinta di Capuana: “Non crediate che Giacinta sia noioso; i peccati non possono essere noiosi; è inutile, e dà l’impressione di non essere stato mai scritto. La pagina è vuota, anche se sopra qualcuno ci ha messo delle parole”[1]. Il nostro Cos’è lo stato di eccezione (Nottetempo, 2022), nella sua parte critica, trova in queste parole una sintesi felice. In effetti, una delle tesi che sosteniamo nel libro è che quella congerie di fantasie catastrofiste che è confluita nella letteratura più recente sullo stato di eccezione sia alfine inutile, più che noiosa: in barba alla sua pretesa grandeur, aiuta pochissimo a capire cosa stia succedendo alle democrazie occidentali. Aiuta così poco – abbiamo tentato di mostrare – che persino il suo sulfureo precettore, Carl Schmitt, troppo spesso condannato per reati mai commessi e assolto invece da peccati di ben più vistosa gravità, mai volle avanzare una lettura tanto lontana dalla vita politica degli Stati occidentali.

 

A noi pare che lo stato di eccezione, se usato come filtro di lettura del presente, davvero celebri quel sodalizio tra critica sociale e cospirazionismo di cui Bruno Latour si faceva beffa in un articolo di qualche anno fa: se i cospirazionisti sono ossessionati da gruppi di avidi miserabili mossi da intenti inconfessabili, capaci degli inganni più macroscopici, di questo approccio paranoide i critici dell’eccezione introiettano il portato lisergico utile a fantasmatizzare intere popolazioni vittime dei raggiri più abietti[2]. La messe ipertrofica dei quadri apocalittici che denunciano il passaggio dallo stato di emergenza a quello di eccezione affonda le radici in questa spirale ossessiva e visionaria: i profeti di casa si sono mobilitati per sollecitare una presa di coscienza collettiva che scuota il torpore indotto dal rassicurante ma mortifero abbraccio dell’autorità securitaria. “Ci tolgono ogni libertà con la scusa dell’emergenza – costoro avvertono – ed emergenza dopo emergenza, il nostro è diventato uno stato di eccezione permanente, in cui non c’è più diritto né Costituzione”. E senza timore di bandi o persecuzioni, individuano la radice d’ogni male nel delittuoso convergere degli interessi più deprecabili di governi, parlamenti, istituzioni giudiziarie, tecnocrazie soprastatali e agenzie finanziarie globali (beninteso, nessuna Spectre: il disincantamento mal tollera la fascinazione del romanzesco). Ma anche ammesso che offra davvero qualche coordinata riscontrabile sulla malia collettiva che pretende di descrivere, quest’alchimia rocambolesca tra critica e cospirazione a noi non pare affatto credibile.

 

Per stemperare i fervori per questo resistibile incantamento di ritorno, in Cos’è lo stato di eccezione proponiamo una qualche contestualizzazione di un concetto tanto abusato. Lo stato di eccezione va anzitutto riportato alla sua origine. Negli anni Venti e Trenta del Novecento, in una Germania che avviava un primo timido ma ambizioso tentativo di democrazia liberale e sociale assieme, lo stato di eccezione rappresentava uno strumento di gestione delle emergenze, disciplinato dalla Costituzione di Weimar, che conferiva molti, forse troppi poteri al Presidente del Reich. Schmitt si impose come uno dei maggiori esperti della questione, se non il massimo, e si esercitò a più riprese nell’interpretazione del famigerato articolo 48, che definiva e regolava lo stato di eccezione. La sua posizione più meditata può sintetizzarsi come segue: l’articolo 48 si offriva alle esegesi più esorbitanti e azzardate, che allargavano a dismisura le competenze dell’esecutivo; per fronteggiare l’emergere di un legislatore aggiuntivo, peraltro privo di limiti efficaci e quindi soverchiante, come sarebbe stato un Presidente che avesse governato a colpi di eccezione, occorreva un intervento legislativo in grado di fissare paletti chiari (auspicio della Costituzione stessa, colpevolmente disatteso). Schmitt chiamava così alla perimetrazione delle competenze dell’amministrazione centrale, anziché esaltarne il potere di ricreare l’ordine sociale e riscrivere i codici della vita ordinaria (potere normopoietico cui egli non ha fatto alcun cenno, mai, in nessuna opera). Soprattutto, deprecava la crescente confusione, diffusa sia nella dottrina sia nella pratica giudiziaria, tra la misura emergenziale, per sua natura limitata nel tempo e particolare, e la legge ordinaria, per sua natura astratta e generale, quindi priva di demarcazione temporale. Fa piacere che oggi, nel dibattito recentissimo, anche importanti filosofi abbiano riscoperto questo Schmitt: il costituzionalista affaccendato in ermeneutica giuridica, non già l’esagitato cantore della sovranità quale forza numinosa capace di istituire stati di eccezione à la carte. Crediamo sia un bene, quindi, che si sia preso o ripreso a leggere altri testi schmittiani, oltre al disgraziato saggio di cui quest’anno si celebra il centenario, Teologia politica, dove il giurista s’intronava filosofo dell’origine. Un saggio infelice, che Schmitt, ahinoi senza la giusta efficacia, tentò a più riprese di ritrattare e finanche di cancellare dalla lista delle pubblicazioni a suo avviso degne di menzione e memoria. Non ha funzionato, evidentemente.

 

Ma al di là della nostra lettura giudiziosamente polemica, che se troppo reiterata rischia di girare a vuoto almeno quanto i suoi bersagli critici, una tesi forse più utile nel nostro recente libro la si può trovare là dove tentiamo di far luce sulla proposta teorica più arguta di Schmitt. Si tratta di quelle pagine nelle quali si discute il modo in cui, secondo il giurista di Plettenberg, si può davvero edificare un ordine solido e affidabile – attività cruciale per la vita dello Stato, ai cui fini l’eccezione si rivela perlopiù disfunzionale. Schmitt ha in mente quell’operazione delicatissima con cui il potere politico, in virtù di convergenze contestuali e impredicibili tra le forze in campo, riesce a operare un mutamento nella Costituzione materiale della comunità politica. Proprio nel corso della crisi decisiva, che segnerà la fine della Repubblica weimariana, Schmitt intuisce che il modo più efficace e deciso per risolvere e superare le emergenze è far sì che esse non si materializzino. L’eccezione diviene, in quest’ottica, non già l’occasione per mirabolanti performance di un sovrano in grande spolvero, bensì la certificazione dell’insipienza giuridica e della scarsissima lungimiranza politica di un’intera classe dirigente. Ed è proprio questo l’aspetto più rilevante del pensiero schmittiano agli occhi di uno dei più acuti e influenti tra i Padri e le Madri della Costituzione, Costantino Mortati. Già in un saggio del 1974 il giurista calabrese[3] indica come Schmitt ebbe il pregio di abbandonare lo scriteriato eccezionalismo del 1922 per abbracciare la ben più solida idea secondo cui il governo di un paese riposa innanzitutto sulla capacità di dare forma a un “ordine concreto”. Quello che appunto Mortati chiama Costituzione in senso materiale. Non sarà inutile seguire questo filo, che può dirci qualcosa di interessante sulle vicende politiche più vicine a noi.

 

Con l’anticipo che accompagna i previdenti più solerti e le previsioni più svianti, a urne quirinalizie non ancora aperte si è da più parti paventato il pericolo, o comunque la concreta prospettiva, di una quasi inerziale transizione a un semipresidenzialismo di fatto. Se Draghi va al Quirinale – questa era la tesi in circolo – l’Italia di qui a poco dismetterà gli abiti di Repubblica parlamentare. Un tale cambio di palazzo avrebbe portato con sé un vero e proprio cambio di ordinamento. Poco conta, evidentemente, che la Costituzione non vieti in alcun modo la rielezione del Presidente uscente, tantomeno l’elezione del Presidente del Consiglio in carica a Capo dello Stato. E conta poco, perché quanto si dice contare davvero è appunto la Costituzione materiale.

Proviamo a dare in pochissime battute un’idea non corriva di cosa sia una Costituzione materiale – e sbarazziamoci subito del primo abbaglio: essa puntella, e non già relativizza, la Costituzione formale. Con il concetto di Costituzione materiale si fa riferimento all’insieme, piuttosto eterogeneo, delle realtà istituzionali che strutturano e indirizzano i rapporti sociali interni alla comunità. Più esattamente, Mortati parla di “ceti e forze che si raccolgono attorno ad interessi o valori avvertiti come essenziali dai loro appartenenti, che sono fatti valere, e riescono di fatto a valere, quale elemento unificante del gruppo sociale, conferente a esso carattere di unità politica”[4]. La Costituzione è, insomma, materiale in quanto fatta da forze materialmente operanti, ossia gruppi che possono dirsi dominanti perché in grado di far valere un indirizzo politico a discapito di alternative parimenti praticabili. Tra i cittadini e le istituzioni che li ricomprendono, tra l’ordine legale e la struttura sociale sottostante, deve inserirsi un collante aggregativo che congiunga e saldi i due momenti. Mortati richiama dunque la necessità di una sintesi tra forze politiche con interessi e visioni del mondo distinte ma convergenti – convergenza che si traduce nel convinto e comune sostegno, da parte delle diverse forze in campo, all’assetto politico-istituzionale frutto del compromesso che le tiene assieme. La Costituzione materiale – semplifichiamo, sì, ma non troppo – non è altro che la rispondenza biunivoca tra le caratteristiche fondamentali di un dato ordine politico e le forze sociali che concretamente lo strutturano e hanno interesse a che detto ordine perduri.

 

Se dunque si assume questa ottica materialista, rileva poco che la rielezione del Presidente uscente e il trasloco del Presidente del Consiglio in carica non sarebbero esiti formalmente vietati, o dottrinalmente sconsigliati, sulla base del dettato costituzionale. Si avrebbe in ogni caso a che fare con una torsione inedita rispetto alle prassi che per decenni hanno garantito di fatto – ossia materialmente – la tenuta dell’assetto repubblicano. In questo consiste l’insegnamento dello Schmitt mortatiano (o forse meglio, del Mortati sotto spoglie schmittiane) che Cos’è lo stato di eccezione oppone al vuoto gergo eccezionalista: se l’eccezione non ha affatto il potere normopoietico che i suoi critici le attribuiscono con affettata generosità, la Costituzione materiale ne possiede invece in gran copia. Ma attenzione: se come strumento concettuale ed euristico è ben più solido e probante che non l’eccezione, anche la Costituzione materiale è lente che richiede cautela affinché chi l’usa non generi i falsi mostri paventati dallo schmittianesimo eccezionalista di ultima mano.

 

E qui veniamo al punto. Quello che, nel caso in questione, manca per evocare lo spettro (o la speranza) del presidenzialismo, dimidiato o intero che sia, sono proprio le forze che dovrebbero assicurarne l’attuazione. Che manchino le risorse, capita. Che manchi la volontà, già è più singolare. Ma nelle votazioni che hanno portato alla rielezione di Mattarella, o meglio nel trascinarsi di quella involontaria commedia degli equivoci concretatasi in vigilie di altre vigilie non preventivate, a non essere pervenuta è stata nientemeno che la consapevolezza, da parte di tutti i partiti, di cosa davvero si volesse. Nell’ottica di Mortati, forze strutturanti che non sanno neanche se davvero vogliono esserlo non sono forze, e tantomeno strutturanti. E infatti la rielezione di Mattarella è stata la più eclatante riprova di una riconferma, pur all’insegna dell’impotenza, dell’ordinamento di cui si temeva la trasfigurazione. Certo, le forze in campo hanno sbandato e con tutta probabilità molte tra loro non avevano la minima contezza di dove sarebbero approdate se non una volta toccata terra, ma poco importa: nei fatti, hanno dato corpo a iniziative che hanno avuto come esito ultimo quello di rinsaldare orientamento, prassi e sostanza dell’impianto ordinamentale in essere.

 

Si obietterà: ma la duplice e consecutiva rielezione di un Presidente della Repubblica in carica non può non marcare un prima e un dopo rispetto a consuetudini che fino a quel momento andavano in altro senso. Ed è qui che l’ottica materialista, se così impiegata, rischia di far suoi i vizi tipici del formalismo: un materialismo “ben inteso” si rende presto conto del fatto che, nel caso in oggetto, la rielezione in sé non dice nulla, dacché gran parte dipende da chi materialmente viene rieletto – e il rieletto, nello specifico, ha per prima cosa omaggiato e ribadito la primazia del Parlamento quale “luogo più alto della rappresentanza democratica, dove la volontà popolare trova la sua massima espressione”[5]. Senza scomodare abusatissimi gattopardi, un secondo mandato presidenziale – che segna certo un oggettivo scarto rispetto alle prassi invalse – può infatti ben essere il modo migliore, o il migliore che si sia saputo trovare in una data congiuntura, per proseguire nella stessa direzione del tracciato da cui pure in certa misura si scarta. Ben altra conclusione, di contro, si sarebbe potuta trarre nel caso di una elezione convinta, compatta e largamente maggioritaria di Draghi: una simile decisione si sarebbe potuta ragionevolmente interpretare come una chiara riprova di una marcata convergenza da parte della gran parte delle forze in campo nel voler assicurare, a un ordinamento giudicato ormai non più rispondente alle esigenze del sistema, una supervisione sostanziale e garbatamente contra legem dell’azione di governo, con una composta moral suasion trascolorante in un tacito ma efficacissimo reindirizzo esecutivo.

 

Ma niente di tutto questo è avvenuto. La Costituzione, nelle sue procedure e nelle sue prassi, si è dimostrata ancora una volta in grado di assicurare la tenuta dell’ordinamento con la fattiva collaborazione delle forze in campo (quale che fosse e che sia la caratura di esse – punto sul quale Mortati, caritatevolmente, ha inteso tacere). Se dunque in riferimento alle recenti vicende si vuol parlare di Costituzione materiale, ebbene essa ha rinsaldato, non già minato, sia l’indirizzo sia l’equilibrio del complesso ordinamentale. Del resto, la Costituzione materiale il più delle volte tende a stabilizzare; anzi, stabilizza sempre, semmai talvolta in senso contrario a quanto consensualmente deciso.

Questa, dunque, la tesi conclusiva del libro. L’irruente allure dello stato di eccezione è forse capace di destare molte infatuazioni filosofiche, ma rischia di farci perdere di vista i reali meccanismi che presiedono, favorendolo o al contrario ostacolandolo, il mutamento sociale. Un mutamento che non è mai l’esito poderoso di un intervento potestativo irresistibile (addirittura duplicato, nel caso dell’eccezionalismo schmittiano: si decide a riguardo del darsi e di come disfarsi dello stato di eccezione), ma sempre il provvisorio approdo a un equilibrio tra le parti, frutto dell’integrarsi di prassi molecolari che si assemblano e ricompongono di continuo. Lo Schmitt più utile per scrutare e scrutinare le dinamiche del presente è quello che indaga le composizioni delle forze in campo e dà indicazioni fattive su come produrre blocchi di potere capaci di imprimere un indirizzo politico. Ed è qui che però bisogna congedarsi sia da Schmitt sia da Mortati.

 

I due giuristi, infatti, drizzano sì la barra dell’analisi politica individuando i processi reali cui guardare per capire cosa stia accadendo alle democrazie liberali, ma guai a imprimere all’approccio teorico una piega normativa: nella sua crescente passione per il conservatorismo più rigido e tradizionalista, Schmitt intendeva utilizzare il suo proto-materialismo costituzionale per indicare alle autorità come serrare le fila di quella che era una disarticolata congerie di forze incapaci di dar forma a una realtà istituzionale. Oggi questa tendenza materialista, non solo analitica ma normativa, infiltra molti pezzi di un panorama teorico-politico che ha abbandonato ogni fiducia nel tenuissimo proceduralismo di fine Novecento. Ma dopo aver visto accoliti dell’eccezionalismo auto-eleggersi a figli primogeniti dell’istituzionalismo, si spera di non dover assistere a un’ansante transumanza di democratici più o meno sinceri nei pascoli materialisti. Ci si guardi quindi dal commettere un errore eguale e contrario all’eccezionalismo, fare della Costituzione materiale, oltre che un pezzo pregiato dell’armamentario teorico-politico la punta di diamante di una democrazia adatta ai tempi attuali.

 

Nel suo richiamo alla preferibilità delle incertezze tipiche della pluralità di voci rispetto alla compattezza solida delle visioni uniche (nel campo degli irragionevoli, ma anche dei ragionevoli), in Cos’è lo stato di eccezione si opta sempre per il rischio della precarietà. Lo studio della materialità dei processi, che invita alla mappatura dettagliata di singoli provvedimenti, misure, conversioni in legge, elezioni presidenziali, per poi guardare a come queste si addentellano e consolidano in forze compatte, ci indica che di pericoli di eversione al momento non ce n’è. Non dubitiamo che se ne affacceranno all’orizzonte a breve, o comunque che le sirene dell’anti-aerea critica suoneranno presto nuovi allarmi. Ma per questo l’unico antidoto è un antischmittiano pluralismo senza briglia, che sa creare anticorpi a sé stesso. E nel frattempo continuiamo a vivere, sufficientemente al sicuro, in una Repubblica parlamentare. Per disperare, e disperarsi, c’è sempre tempo.

 

Note

 

[1] Giorgio Manganelli, Altre concupiscenze, Adelphi, Milano 2022, p. 175.

[2] Bruno Latour, “Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern”, Critical Inquiry 30 (2004), pp. 225-248.

[3] Costantino Mortati, Brevi note sul rapporto tra costituzione e politica nel pensiero di Carl Schmitt, in Id., La teoria del potere costituente, Quodlibet, Macerata 2020, p. 135.

[4] Mortati, Brevi note, cit., p. 135. Per completezza, i luoghi classici del materialismo mortatiano sono La Costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano 1940, e la voce Costituzione (I: Dottrine generali, II: Costituzione della Repubblica italiana), in Enciclopedia del diritto, tomo XI, 1962, pp. 139-233.

[5] Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento, 3 febbraio 2022, https://www.quirinale.it/elementi/62272.

1 thought on “Il fantasma dell’eccezione e lo spettro del semipresidenzialismo

  1. le infatuazioni filosofiche sono ,secondo chi ha scritto l’ articolo,vane,se non peggio.
    che dire delle infatuazioni ” costituzionalistiche” ?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *