di Piero Salabè
[Questo racconto è inedito. La poesia che lo segue è tratta da Il bel niente (La Nave di Teseo, Milano 2019) dello stesso Piero Salabè].
L’ultima cosa che ricordava era la luce prima di saltare da quel muro di quasi tre metri di altezza nell’impenetrabile cimitero cattolico di Alessandria d’Egitto dove, mosso da un irresistibile richiamo sul lungomare, era andato a cercare la sua propria tomba. Una luce vivissima che stava proprio sul punto di guastarsi. Nato a Roma nel 1970, aveva lasciato la città paterna in giovane età, ma vi fece definitivamente ritorno quel giorno in cui, mentre percorreva il tragitto che dalla stazione Ramses porta alla Corniche, il suo sguardo inerme scorse esterrefatto sulle facciate butterate dei palazzi gentilizi, completamente decrepiti, costruiti da architetti italiani un secolo prima. Nella sua irreversibile decadenza Alessandria prefigurava ciò che Roma sarebbe stata. Lui allora non sarebbe dovuto tornare, non avrebbe dovuto più aspettare il monotono corso degli anni, né consumarsi in faticosi ritorni e ricordi, illudendosi di riconquistare quello che il tempo gli aveva tolto: in quel momento unico il bicchiere era colmo, la sua vita compiuta, il passato gli scintillava fra le mani. Giunto a Piazza Saad Zaglul, l’improvvisa vista del mare che la sua città natale non possedeva gli provocò uno spavento, accerchiato poi dall’implacabile luce africana cercò un riparo nell’antico Caffè Trianon. Aspettò invano che uno dei camerieri in livrea lo servisse. La gente continuava a entrare, ma il caffè dagli enormi soffitti rivestiti di legno scuro restava vuoto. Non avrebbe saputo dire dove sparivano quelle persone benvestite. Attraverso le vetrate scure vide un gruppo di donne attraversare la piazza, erano avvolte in vesti colorate, il capo coperto da splendidi chador, una di loro era sua madre, non c’era dubbio, riconobbe il limpido viso tedesco la cui bellezza appariva ancora più irraggiungibile adesso che si era imbrunito e aveva assunto fattezze africane. Non fece in tempo a capacitarsi che le donne erano già svanite in uno delle migliaia di taxi gialloneri che pullulavano nella città. Le luci dei sontuosi lampadari si affievolivano, fuori il giorno cresceva paurosamente, mentre dentro il Trianon il buio si spandeva come una marea mortifera.
Decise allora di uscire verso la luce incandescente del lungomare, evitando di scorgersi in una delle tante specchiere del caffè – quanto sarebbe ancora invecchiato – ma i vetri davanti a cui passava non mostravano altro che i tavolini vuoti e gli specchi in un gioco di infiniti riflessi. La passeggiata sul lungomare lo liberò dalla fatica di scegliere un altro cammino, scelse il marciapiede dal lato del mare, con lo sguardo rivolto all’immensa distesa di acqua verdastra che all’orizzonte si perdeva nel cielo. Non riusciva a illudersi di vedere quello che vedeva, e non le sue fantasie, i suoi ricordi, l’immagine del piacere. Sempre più si sentiva schiacciato dalla luminosità, messo a nudo e spinto senza la sua propria volontà verso il mare, le ginocchia gli tremavano. In quel momento capì che era cominciata la lotta finale, sentiva una forza aliena infiltrarsi irresistibilmente. Si opponeva concentrandosi su quell’unico pensiero, trovare un giaciglio degno, mentre immagini incontrollate scorrevano sempre più veloci nella sua mente. Adesso quelle labbra lontanissime che non aveva mai baciato lo risucchiavano verso l’acqua, mentre con tutte le sue forze si trascinava oltre la trafficatissima strada della Corniche. Disperato presenziò a un incidente mai avvenuto, sentì le lamiere perforare la sua carne, ascoltò, ancora vivo, il grido e poi il pianto di una donna morta da anni. Fece ancora in tempo a sussurrare una poesia: Attraverso i neri corridoi del tempo verso la luce di uno spazio ancora più vuoto … Poi si diresse come un sonnambulo verso il vialone dei cimiteri. Quello cattolico era sigillato, invalicabile il cancello e le mura altissime, ma attraverso le grate riuscì a leggere un nome su una lastra di basalto nero, Robert Zuppinger, nato nel 1838 a Männerdorf, e morto nel 1897 ad Alessandria. Con le sue ultime risorse pensò a come sarebbe potuto entrare. Scorse allora che dal muro dell’adiacente cimitero copto ci si sarebbe potuti lanciare. Riuscì ancora a trascinarsi lì, strascicandosi attraverso gli infiniti corridoi di colombari, nauseato dalle quelle incomprensibili scritte arabe. Si sarebbe potuto adagiare in uno dei tanti loculi vuoti, ma riuscì ancora a salire sul muro che divideva i due cimiteri, sotto di lui si distendeva quello cattolico con il prato gonfio di morti, con le pietre divelte e i monconi di palme.
Era la luce pungente – nell’ultimo frammento del suo salto lo sapeva – dell’ultimo giorno sulla terra, aveva consumato tutta l’iridescenza dei colori a disposizione. Ci sarebbero state forse notti, ma mai più luce. Si lasciò cadere da quel muro che mai e poi mai avrebbe potuto risalire, passavano i secondi, i minuti, le ore – forse già erano anni ma chi l’avrebbe potuto dire – e il suo piede non voleva toccare terra, non sentiva crollare il suo corpo, non era quella la promessa della morte, potere giacere finalmente, neppure quello gli era dato dunque. In quel buio senza appigli aveva nella mente ancora l’immagine nitida delle tombe viste dall’alto, figlie dell’Ottocento che era anche sempre stato il suo secolo. Non sapeva se avrebbe ritrovato il suo fra tutti quei nomi, ma valeva la pena di cercarsene un altro ancora prima di atterrare.
Piero Salabè, nato a Roma nel 1970
morto ad Alessandria d’Egitto nel 1897
Alessandria d’Egitto
un altro mattino
mi alzerò
e scenderò nudo
nelle strade della città
straniera
in mano avrò i giorni
non spiegati
le non dormite notti
inseguito dall’altra
città camminerò
fra i ciechi palazzi
verso uno sbocco
che non conosco
un mare solo pensato
sempre perduto
morirò su una sporca
aiuola prima di giungere
il mio corpo stanco
si piegherà su se stesso
finalmente burat-
tino
ignorato dai passanti
il palmo aperto
trasuderà l’ultimo pianto
riceverà la luce marina
la voglia bambina
e deporrà nel mare
troppo mirato
il viso che sul ciglio
sconsolato
si gira