di Gian Mario Villalta

 

[In questi giorni è uscito, edito da SEM, Parlare al buio, una nuova raccolta di racconti di Gian Mario Villalta. Pubblichiamo qui il racconto Maggio 1998, la cui storia ha suggerito il titolo del volume.]

 

MAGGIO 1998

 

Ho chiamato perché ho una storia dentro la testa. Sono due giorni che mi assedia. Credo che se la racconto dopo mi lascerà stare.

Voglio anche dire che ascolto spesso il vostro programma: le cose che uno riesce a tirare fuori, di notte, quando viene lasciato qui a parlare da solo, sono… sono incredibili. Succede qualcosa di vero, che neanche importa quello che dicono, basta sentire la voce; il desiderio, la paura, arrivano con la voce. È una bella idea questa. Non le solite chiacchiere. Aprite il microfono e chi vuole parlare ha davanti la notte, una storia da raccontare… continua finché ha finito.

È giusto tenere la radio spenta, continuare da soli fino alla conclusione senza interruzioni, risposte… solo la propria voce nel buio, questa regola piace a tutti. E credo sia vero che nessuno vuole sapere se la sua storia è stata ascoltata per intero, se è piaciuta o se è servita soltanto a far ridere.

Chi racconta è contento di essere solo, sentirsi costretto alla parte fino in fondo.

 

Qualcosa mi sono anche scritto, anzi, all’inizio volevo scrivere un vero racconto e poi leggerlo, ma non andava mai bene. Alcune frasi però mi sono rimaste, e credo che le leggerò, come quella che ho in mente dal primo momento, una frase che dice «Mamma, ne arriva ancora di quella stupida acqua, sempre di più, non riusciamo a tenerci fermi.» È l’espressione «stupida acqua» che mi  colpisce. L’ha usata il vicino del piano di sotto   quando mi ha raccontato il fatto – un fatto di cronaca – come l’aveva sentito, così ha detto lui, e ha usato le parole «stupida acqua», quelle due parole, è stato proprio lui a metterle in bocca al ragazzo, e io poi ho continuato a pensarci per due giorni, perché da subito il «fatto di cronaca» si è animato e ho cominciato a vedere in faccia il ragazzo, la madre, a vedere tutto quanto.

 

Il vicino del piano di sotto ha più di sessant’anni. È in pensione. Vive da solo e ha un figlio che ogni tanto lo viene a trovare. È molto orgoglioso di possedere un appartamento, per quanto al piano terra, in questo quartiere, e particolarmente orgoglioso di questo stabile. Da quando sono venuto ad abitarci, tre anni fa, nelle poche parole che scambio di solito con il buongiorno c’è sempre da parte sua un complimento perché ho scelto uno stabile così signorile: fa il confronto con gli edifici vicini e il nostro è sempre il migliore, per la posizione, per le finiture di pregio, persino per l’orientamento.

Il vicino del piano di sotto non è facile da evitare: staziona nell’ingresso, oppure sul marciapiede davanti al portone, trafficando sempre con qualche cosa – aspetta gli inquilini per salutarli e, se ci riesce, parlare un poco.

 

Non mi ricordo se questa storia l’ha letta sul giornale o forse non me l’ha detto e – d’altra parte – dubito che a questo punto la storia che vi racconto sia ancora la stessa.

Non proprio la stessa.

A cominciare dal fatto che, mentre io ho cominciato a vedere dentro la storia – appena mi è stata raccontata – ho sentito l’amaro sulla lingua, quell’amaro che non sono riuscito più a cancellare e che sento anche adesso.

Dovete provare a concentrarvi respirando col naso: piano, respirate piano seguendo l’aria che inalate con il pensiero. Immaginatevi l’aria che riempie le narici, fa una curva in alto (quasi sfiora il cervello) e poi ricade dietro il palato. Concentratevi su questo passaggio. Lentamente, ora, immaginatevi l’aria che fa il suo giro e da dietro il palato scende verso i polmoni. Quando fa quella curva in alto del naso e poi scende, se vi concentrate, potete sentire il contatto dell’aria con la parte ultima della lingua in fondo alla bocca. Provate a pensare che l’aria sia luce, o colore, e vedrete con il pensiero che quella parte della lingua, sul fondo, proprio dove è rivolta all’interno, si illumina oppure si tinge. Ecco, da lì c’è una linea di pelle e papille, mezzo centimetro più in avanti, verso la punta della lingua, dove si sente il sapore della vita. Se vi concentrate e lasciate che il respiro sfiori la parte ultima della lingua con l’aria che scende verso i polmoni, se vi concentrate sul gusto che si forma un poco più avanti, appena mezzo centimetro, verso la punta della lingua, ecco, quello è il gusto della vita, inconfondibile.

Potete provare quando volete.

 

Mangiare, bere, odorare profumi lo altera per alcuni minuti, un’ora al massimo, poi ritorna. Anzi, se vi capita di uscire e annusare in giro, respirare – di cosa sa, oggi, la vita – il gusto è ancora più preciso.

Dopo che ho parlato col mio vicino del piano   di sotto ho sentito l’amaro in modo inconfondibile, un amaro senza profumo.

Questo per tutto il giorno di sabato e poi oggi di nuovo, appena alzato.

La domenica è un giorno assurdo.

Avete fatto bene a mettere questo programma la notte della domenica, perché è proprio adesso che si ha bisogno di parlare. Si vorrebbe parlare a qualcuno, ricevere attenzione, qualcuno che dopo però non ci carichi addosso il peso di quello che abbiamo detto.

 

Arriviamo alla mia storia, dunque. All’inizio, mentre il vicino la raccontava, mi sono messo a ridere: un ragazzo di un paese qui sopra, a pochi chilometri da dove abito, torna a casa e non trova la sua capra dentro il recinto. La cerca, sotto una grande pioggia, e la ritrova in mezzo al greto di un corso d’acqua. Piove da giorni dirottamente. All’improvviso, liberata dalle chiuse più a monte, l’acqua inizia a salire e il ragazzo sospinge la capra verso un ramone del torrente, cercando di uscirne. L’acqua continua a salire, è buio, avanzando sente franare la ghiaia sotto i piedi. Il ragazzo ha con sé il telefonino. Chiama a casa. La madre lo sente descrivere «quella stupida acqua» via via che aumenta, finché non ce la fa più a stare in piedi e l’acqua lo porta via. Anzi, li porta via, lui e la capra. Il ragazzo ha parlato sempre al plurale, diceva «L’acqua ci prende le gambe», diceva. «Abbiamo freddo.» La madre, quando non sente più la voce al telefono, passa il ricevitore al marito, che è lì vicino, e gli dice: «Parlagli tu, fa’ qualcosa».

Vedo il telefonino in fondo al torrente.

 

Oggi nel pomeriggio sono andato a casa mia.  Sono stato a trovare i miei genitori, volevo dire. Non è molto distante. C’era ancora un po’ di luce e allora ho pensato di andarci a piedi.

Qualche chilometro a piedi, ho pensato, continuando a sentire l’amaro sulla lingua. Speravo di confondere il gusto alla vita: a volte basta un aroma di erbe che viene da un fosso o l’umido del cemento da un nuovo cantiere.

Mi sono messo per strada.

Non vado mai a piedi. Nessuno va mai a piedi su queste strade che portano nei paesini. Se uno va a piedi è perché non ha niente da fare oppure perché non possiede una macchina. In tutti e due i casi è colpevole.

Non appena ho cominciato a percorrere la strada, mentre pensavo alla storia del ragazzo e della capra, mi sono messo in allarme perché dal nulla sbucavano dei cani enormi, che si lanciavano contro la rete di cinta dei giardini. A volte erano giardinetti di sei metri quadri, con dei cani grandi come vitelli, però, anche più di uno, e si lanciavano a turno, a corpo morto, contro la rete o le sbarre delle ringhiere. Tentavano di scavalcare, abbaiando e ululando come ossessi. Non c’è casa che non abbia almeno un cane, anche piccolo, e quando è piccolo è peggio, perché viene lasciato libero di uscire e incalzare chi passa per strada.

 

Pensavo al ragazzo – vent’anni – là in quel paese, che in fondo è così vicino alla nostra città, e vedevo questo ragazzo con la sua automobile fuori strada, il suo lavoro nel magazzino di ferramenta di uno zio, alla periferia della nostra città, dove arriva col suo fuoristrada, spavaldo, riparte spavaldo quando ha finito il lavoro. Sono quindici buoni chilometri di strada diritta, tranne gli ultimi due che si incurvano a est, imboccando la prima vallata all’inizio della montagna.

Perché è già montagna il suo paese, niente di veramente diverso dalla nostra città, che è tutta una periferia, ma quel poco di diverso che basta per sentire un altro gusto sulla lingua, più selvatico, più vicino agli odori di resina e di muschio. Si nasconde di meno la solitudine, pensavo, in quei posti, si sente più acuto il bisogno di una vita che respira vicina.

Pensavo questo mentre ero a piedi per strada, accompagnato dall’abbaiare feroce dei cani, preso di mira dalle automobili che mi sventagliavano a pochi centimetri. Pensavo a questo ragazzo affezionato a una capra. L’aveva portata a casa suo padre? Era un regalo di qualche parente? L’aveva vinta lui alla pesca di beneficenza della contrada? Oppure l’aveva vista che era nata da poco, su una malga più in alto, una domenica, ci ha giocato e poi ha chiesto quanto costava.

 

Questo pensavo: il ragazzo che arriva all’osteria e beve e bestemmia e sale sul fuoristrada e va in discoteca fino alle sette di mattina quando ritorna a casa, prima di entrare, passa a salutare la capra, l’accarezza, le dice qualche parola.

Pensavo questo mentre i proprietari delle villette e i metalmeccanici che lavorano i campi di domenica venivano fino alla strada, si appoggiavano alla rete di recinzione per vedere chi era, stavano lì muti a guardarmi, senza neanche zittire i cani che continuavano a scatenare un baccano infernale. Li conoscevo, i proprietari delle villette e dei campi, e loro mi avrebbero riconosciuto, se non fossi stato a piedi per strada. Mi guardavano fisso senza un avviso di saluto, sicuri che qualcosa di male avevo fatto o avevo intenzione di fare, perché ero a piedi su quella strada, vestito così, non un africano né un indiano, non mostravo di avere niente da vendere.

 

Pensavo a quel ragazzo, al suo telefonino, che usava per chiamare dall’osteria del centro gli amici che giocavano a carte nell’osteria dopo il bivio in fondo al paese. Oppure, quando partivano per il mare in due o tre gruppi, c’era il suo fuoristrada, la Golf di questo, la Volvo Station – allora parlavano da un abitacolo all’altro: fantasie, le auto che superavano, le fighe che c’erano dentro, prendevano accordi sulla strada da fare e sulle soste.

Del resto, una volta arrivati, era bello solo il ritorno.

La domenica mattina il ragazzo lavava il fuoristrada e la capra.

Mentre lavava la capra parlava con lei sottovoce.

Il ragazzo rientra dal lavoro, non trova la capra nell’angolo del garage dove di solito sta a quell’ora, va fuori nel buio a cercarla. Piove. La capra non è neppure nel recinto. Se fosse andata verso la strada se ne sarebbero accorti, pensa. Prende il sentiero che porta al torrente.

Non è neanche entrato in casa.

 

Vede una sagoma scura dentro il torrente. Il greto in questo punto è molto largo, con delle secche e dei banchi di ghiaia. Decide di entrare, anche se si bagnerà. Ma sono già bagnato, pensa. Quando raggiunge la capra la sente che trema. La abbraccia al collo. Le carezza un fianco e le dice che è ora di tornare.

In quel momento arriva l’acqua e li porta qualche metro più in là, poi ancora qualche metro. Bestemmia e rassicura la capra.

C’è un’ansa del torrente dove l’acqua si incanala fino a una specie di condotto naturale, tra le rocce, che risale sui campi.

Punta in quella direzione, con tutte le forze, trascinando la capra.

Il ragazzo non sa che hanno chiuso il canalone da due settimane. L’acqua scorre attraverso dei tubi di cemento. All’imboccatura dei tubi è saldata una grata di ferro.

Sono arrivato finalmente a casa dei miei genitori, inseguito dai cani e dalle automobili, dagli sguardi astiosi dei proprietari delle villette e dei campi vicini alla strada.

 

Non ci vado quasi mai, a casa, anche se spesso li chiamo e mi informo di come stanno. Abbastanza spesso. Al telefono viene mia madre. A pensarci bene, era davvero molto tempo che non parlavo con mio padre.

Sono arrivato sull’aia che tutte le luci erano spente.

Solo la luce della cucina era accesa.

Mio padre è uscito a vedere chi era.

Ci siamo baciati sulla guancia e siamo rimasti un po’ al buio, mentre gli odori mi aggredivano – della stalla, del foraggio verde, degli alberi pieni di foglie nuove. Le forme scure del nastro trasportatore e del carro autocaricante per il fieno, come animali preistorici acquattati. I rumori sommessi e caldi delle bestie.

 

Non cambia mai niente, ho pensato. Frusciare degli alberi. Mi sembrano troppo grandi. «Papà, è ora di dare un colpo a quel noce, ancora un’estate e ti entra in casa, ti porta umidità, insetti.» Abbiamo sempre parlato, tra noi, soltanto in questo modo, parlando dei lavori, «Ho visto che hai già cominciato il foraggio verde, non è troppo presto?», cioè: sono io, sto bene, ti vedo invecchiato ma asciutto, sono contento di vederti. «Non c’è più fieno vecchio e se attaccano l’erbaspagna poi mi ritrovo a febbraio che sono già a secco; il foraggio è venuto prima, quest’anno», cioè: finalmente, sei proprio tu, sì, finalmente, noi si tira avanti: ci manchi.

Si mette un dito sulle labbra ed entra in casa per primo dicendo «Indovina chi c’è.» Mia madre non mi viene incontro, le scendono subito lacrime. Non piangere, scherzo, resto poco, tranquilla, torno via subito. Mi abbraccia velocemente. Si riesce a mangiare un boccone, domando a voce alta, contraffacendo la voce del nonno quando rientrava la sera dalla stalla, stasera si mangia qualcosa o devo andare in albergo?

 

Sono invecchiati. Si assomigliano. Mi ascoltano senza interrompermi mentre racconto del mio lavoro, di mia moglie, tranquillamente, mentendo un poco, si tratta solo di sistemare le carte, venite una volta a trovarmi, tanto lo so lui non viene.

Mi dice che è casa mia, quella, e che non lo devo dimenticare. «No, no, non è questo» rispondo, «è che ci sono sempre mille problemi, adesso poi con la doppia sede, i due uffici, non riesco neanche a vedere mia moglie, siamo costretti a rincorrerci tutta la settimana, ma adesso, venerdì prossimo, stiamo insieme tre giorni, abbiamo deciso. E veniamo a trovarvi.»

Il ragazzo può abbandonare la capra e salvarsi.  Può farlo sia dopo la prima ondata che dopo la seconda. Lasciare la capra al suo destino e, finché ancora riesce a far presa sul fondo, mettersi in salvo.

Invece fa il numero di casa e racconta alla madre quello che sta succedendo. Nel buio, sotto la pioggia, con l’acqua gelata fin sopra la pancia. Non si rende conto del pericolo che sta correndo.

È convinto che l’acqua montante, trascinandolo nel canalone, li porterà fuori.

Proprio a questo punto dice la frase «Mamma, ne arriva ancora di quella stupida acqua, sempre di più, non riusciamo a tenerci fermi.»

 

I miei genitori farebbero di tutto per non ave e bisogno di me e io farei di tutto per non avere bisogno di loro, pur sapendo benissimo che posso contare su di loro in qualsiasi momento e loro sapendo benissimo che basterebbe una parola e io farei qualsiasi cosa. Penso questo mentre li guardo. Non mi sento a disagio con loro. Non occorre neanche parlare. Oppure si può parlare e pensare ad altro, tranquilli. Se ci siamo fatti del male, è stato tanto tempo fa, e adesso siamo più forti. Siamo sicuri che non accadrà più.

Al momento di andare ci siamo presi in disparte, io e mia madre, mentre mio padre mi precedeva sull’aia, e poi, fuori sull’aia, siamo rimasti da soli per qualche minuto, io e mio padre, e tutti e tre ci siamo chiesti la stessa cosa, se avevamo bisogno di soldi, se c’era qualche problema, bastava chiedere, cioè: ti voglio bene, come posso, in questo modo insulso, l’unico che conosco, devi sapere che ti voglio bene, io a mia madre, mia madre a me, io a mio padre, mio padre a me, in disparte, faccia a faccia, se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, basta dirlo.

All’ultimo momento ho chiesto a mio padre se mi accompagnava con la macchina. Per strada abbiamo parlato. Gli ho domandato se aveva sentito la storia del ragazzo morto insieme alla capra.  Mi ha risposto di no.

 

Ho le luci spente, secondo le regole, e sto parlando dal buio… al buio. Il filo del telefono è lungo abbastanza e posso guardare dalla finestra: buio, anche fuori, con qualche macchia accesa e lattiginosa.

Il ragazzo è arrivato alla grata di ferro. Cerca di aiutare la capra ad arrampicarsi. Prova a prenderle una zampa e appoggiarla alla grata. Per fare questo è costretto a immergersi. Fa un ultimo sforzo, per sollevarla farle puntare le zampe anteriori.  L’acqua gli arriva alle spalle. La capra sta belando in continuazione, un suono straziante, intollerabile. Per un momento il ragazzo accosta la guancia al muso della capra, sente un alito nero, intravvede per un istante un occhio sbarrato e folle.

Adesso capisce.

Il telefonino funziona. Chiama di nuovo la madre e le dice che non riuscirà a venirne fuori. La madre crede che stia scherzando. Poi si rende conto che non è così. Gli chiede dov’è. Grida. Lui risponde che è troppo tardi, ne arriva ancora (di acqua, «quella stupida acqua»).

Il padre sente la moglie gridare e poi spezzarsi in singhiozzi, si alza dalla poltrona e si avvicina al telefono. Ha un’espressione stupita e interrogativa.

Ecco, la storia è tutta qui.

 

Ancora una cosa: quando sono rientrato e mio padre mi ha lasciato nel parcheggio dell’edificio dove abito (perché gli era comodo fare manovra, ha detto) c’era il vicino del piano di sotto alla finestra. Vedendomi arrivare ha aperto la finestra, mi ha dato la buonasera, e aspettava la mia risposta per capire se poteva fare due chiacchiere o no. Ho risposto con la mano, un gesto che per me era di stanchezza e lui ha interpretato in modo diverso, dato che ha cominciato col farmi notare come era più fitta e regolare la nostra siepe, e come la fila dei nostri lampioni fosse più pulita delle altre, una  residenza davvero signorile la nostra.

Ho sentito la volontà di ferirlo – sì, era vero, sarebbe stato proprio un edificio signorile, il nostro, e perbene, se non ci fosse stato un ciabattone bavoso che stazionava dì e notte tra il marciapiede   e l’ingresso, se questo vecchio sconcio si fosse messo indosso qualcosa di presentabile, se l’imbecille non si ostinasse a tenere sempre aperta la sua finestra di merda con quel mobilio da quattro soldi in bella vista.

 

Mi sono immaginato che gli scagliavo addosso   queste frasi, con calma, forza e precisione, una per   una, e che la sua anima, il suo amor proprio, erano nient’altro che una sagoma di cartone con i contorni della sua persona. Le mie frasi affilate sibilavano nell’aria e quando raggiungevano la sagoma le staccavano un braccio, le bucavano i genitali, scorticavano la fronte e le labbra.

Gli ho augurato la buonasera e mi sono affrettato a entrare.

Così ho finito. Ho detto tutto. Ci ho provato, insomma, e… questa è la storia…

Non l’ha abbandonata quella stupida capra. Doveva lasciarla là, mettersi in salvo.

Ce l’avrebbe fatta, anche all’ultimo, anche vicino alla grata.

Come lo so? Lo so e basta. Ne sono sicuro. Invece di bestemmiare «quella stupida acqua», avrebbe dovuto lasciar crepare quella stupida capra. Ecco che cosa penso.

Perché l’avrei abbandonata, io, la capra.

Chiunque…

Buonanotte. Auguro a tutti una buona notte.

 

 

[Immagine: Foto di Gianni Berengo Gardin].

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