di Stefano Modeo
(Raffaele Carrieri – Foto di Ugo Mulas)
Chissà quanti lettori ha oggi Raffaele Carrieri, tra i maggiori poeti pugliesi del Novecento, vincitore del premio Viareggio nel 1953 con la sua raccolta di poesie Il trovatore (Mondadori) e mai più ristampato dopo la morte nel 1984. Me lo chiedo mentre passeggio intorno al palazzo in cui deve essere nato, nel centro di Taranto, alla ricerca – vana – di una targa che possa segnalare il luogo. Taranto gli ha dedicato una scuola e una piccola via cieca che muore su un caseggiato in periferia. In occasione del centenario, nel 2005, solo grazie alla passione di un’associazione cittadina si organizzarono alcune attività in suo ricordo. In pochissimi – credo – hanno modo di sapere chi fosse o di leggerne le opere. È, purtroppo, il consueto destino di molti poeti. Eppure a questo fuggiasco non sono mancati in vita gli omaggi critici di un vasto gruppo di intellettuali: Giuliano Gramigna, Carlo Bo, Francesco Flora, Alberto Savinio, Giancarlo Vigorelli, Mario Praz, per citarne alcuni. Ma come è potuto succedere che la città abbia dimenticato il suo poeta più importante? Me lo chiedo mentre dalla casa di Carrieri procedo verso il lungomare che affaccia sul Mar Grande, dove lo stesso Carrieri veniva ad osservare le navi, le luci dei fari sulle punte di San Vito e Rondinella, le isole, fino a quando il sole cominciava a scendere, come ora, per nascondersi dietro i monti della Calabria, in una giornata limpida da lasciar percepire l’abbraccio del golfo.
«Le parole sono meno sole dei poeti» annota Carrieri, in uno dei suoi brogliacci. Lui che la solitudine doveva averla provata più volte nella sua vita avventurosa, da romanzo, sin da giovanissimo quando all’età di tredici anni, irrequieto e senza un amico, al termine del primo conflitto mondiale, già insoddisfatto della misera vita di una città del Sud, s’imbarcò clandestinamente alla volta dell’Albania. La città che gli aveva dato i natali nel 1905 si reggeva attraverso attività artigianali, piccole fabbriche ma soprattutto sulla presenza dell’Arsenale della Marina Militare. Nel golfo ionico, invece, si alternavano navi commerciali e pescherecci. Tutto ciò che la città potesse offrire, infatti, si trovava oltre quella linea retta che orizzontava lo sguardo e il destino del poeta.
«L’Orione era un postale di medio tonnellaggio, teneva il mare dal 1910: adibito alla fine della guerra al trasporto dei materiali da costruzione per le terre d’Oltremare. Il primo scalo era Valona, poi Corfù e le isole del Dodecaneso. A me interessava il primo. Dall’Albania potevo proseguire sia per terra che per mare, dove mi piacesse. E mi piaceva tutto. Non sarei finito contabile, spedizioniere, ufficiale dello stato civile. Il meglio che potesse offrire Taranto era il mare. […] L’Orione salpò al tramonto. Navigava lento prima di prendere il mare aperto. Vedevo schierata in una curva ampia la mia città coi lumi accesi: un immenso balcone. Da quel balcone mancavo soltanto io. Non provavo rimorso per quelli che avevo abbandonato. Il diavolo che portavo in corpo era sveglio. Se avessi avuto cent’occhi li avrei aperti per vedere le case svanire.»
Cresciuto con la madre, Maria, la quale gestiva una piccola pensione, Carrieri dopo l’Albania prosegue a piedi verso il Montenegro, vive per un periodo con dei pastori. In seguito viene ricondotto a Taranto ma non passa molto che, attratto dall’impresa fiumana di D’Annunzio partecipa al ‘’Natale di sangue’’ in cui viene mutilato ad una mano. Torna nuovamente a Taranto ma ancora una volta s’imbarca come marinaio sui mercantili in rotta per i porti del Mediterraneo e del Nordafrica. In seguito, fra il 1921 e il 1923 si stabilisce a Palermo, dove trova lavoro presso gli uffici della dogana come gabelliere e da cui nascerà la sua prima raccolta Il lamento del gabelliere (1945).
«Non pesa il fucile ad armacollo | né il pastrano né la cartucciera | lo stivale non pesa nella sera | né la brina sulla bandoliera. | È l’ora ventidue, manca un minuto: | il giro della luna s’è compiuto. | All’oscuro le pietre sono colte | da improvvisa tacita morte. | In cielo non scorre fiume | la foglia più non riluce | il muro è tornato muro | e lo stivale ancora stivale | sopra il cuore del gabelliere.»
Nel 1923 si trasferisce a Parigi dove entra in contatto con molti dei grandi artisti che in quel periodo animano la città, tra cui Picasso con cui stringerà un rapporto d’amicizia e per il quale posa come modello. Dopo qualche anno rientra nuovamente a Taranto, ma ancora una volta per poco tempo poiché nel 1930 si trasferisce definitivamente a Milano dalla quale comincia la sua attività di critico d’arte e scrittore. Negli anni Trenta pubblica, nelle edizioni in miniatura Scheiwiller, alcune prime monografie e nel 1939 pubblica Fantasia degli italiani (Edizioni Domus), in cui ricostruisce una sorta di linea italiana della storia dell’arte, da Cosmè Tura fino a Boccioni e De Chirico. È interessante conoscere la biografia di Carrieri per comprendere quanto la fuga, l’allontanamento, l’instancabile nomadismo geografico, intellettuale, artistico si manifestino nella sua poesia. È infatti a partire da questo essere fuggiasco che in Carrieri si palesa uno straordinario trasformismo, una capacità d’indossare maschere che ingannano e disorientano chiunque voglia, a livello critico, incastrarlo in una definizione.
Pastello di Picasso del 1964 dedicato a Carrieri
Nel bellissimo saggio introduttivo dell’antologia ‘’Raffaele Carrieri, Poesie scelte’’ (Mondadori, 1976), il curatore Giuliano Gramigna scrive:
«[…] la poesia di Carrieri costituisce davvero un mezzo di locomozione; essa ‘’viaggia’’ non soltanto attraverso il mondo (geografico e culturale) e attraverso il suo autore ma, ciò che più conta, attraverso sé stessa. Il carattere che la distingue è questo scorrimento instancabile da verso a verso, da pezzo a pezzo, da libro a libro. La poesia carrieriana copre delle distanze enormi: anche se si muove circolarmente come i trenini elettrici dei ragazzi, in nessun punto il suo viaggio dà l’impressione del déjà vu. Ciclicità e continuo straniamento contraddistinguono questo discorso poetico: solamente se si accetta tale doppio aspetto si riesce a individuare con ragionevole approssimazione la sua peculiarità irriducibile: che è la lieve e penetrante vertigine, direi fisiologica, che provoca, come un risucchio, ogni movimento continuo di allontanamento.»
Ciclicità e straniamento, sono queste due parole che racchiudono tutto ciò che mi attira nella poesia di Carrieri. La capacità di ri-percorrere, in un moto di avvicinamento e allontanamento, il proprio mondo reinventandolo. Una sorta di giocoliere che in un trick fa ruotare in aria i propri versi eseguendo uno schema preciso, basato tutto sul rapporto di durata e di permanenza in aria, su avvicinamento e allontanamento di ciò che si maneggia: «Si addice al mio verso | l’andamento leggiero | e l’odore bruciato | del fuggiasco». Questo gioco pare avvalersi di tre strumenti che ricorrono frequentemente nei suoi versi: il corpo, il ritmo e lo sguardo.
Il primo è qualcosa di adattabile, pieghevole, sacrificabile, tramutabile: «Se non ti senti verme e usignolo ogni ventiquattr’ore smetti di consumare l’inchiostro» scrive sempre in uno dei suoi brogliacci. Anche Gramigna sempre nella sua introduzione scrive a proposito del corpo che: «la corporalità di Carrieri è sparpagliata, polverizzata, transitiva: è sempre, cioè, in moto rispetto alla parola, alla frase, all’immagine, insomma al suo significante.» Il corpo ha dunque a che fare con qualcosa di tipicamente picassiano, una sorta di scomposizione analitica in cui il soggetto si riduce, componendo nella simultaneità immagini altre, che portano altrove, in un gioco di incastri: «Il mio corpo mi porta via | e devo sempre ricominciare | fuoco donna focolare | e la speranza per durare | dove sono più fugace | della stella che cade. | Il mio corpo mi porta via. | Mi taglia, mi ritaglia | mi separa dall’arpa | mi separa dall’amata. | Mi separa mi sparpaglia | per deserti e cordigliere | come sabbia nella sabbia. | Cieco vado col cieco vento | il mio corpo mi porta via».
Per quanto riguarda il ritmo, i versi di Carrieri sembrano mattoncini posti sapientemente a edificare piccole torri di avvistamento. Puntellate di rime, pezzo dopo pezzo queste costruzioni – al contrario di ciò che fa la corporalità – avvicinano, tengono insieme ciò che concettualmente si allontana e culminano con un’attenzione finale rassegnata, rivelatrice. Spesso Carrieri mette in piedi un racconto musicale adottando uno stile formulare fatto di ripetizioni, ritornelli, espressioni fisse come se volesse evidenziare il rapporto fondamentale che esiste tra la sua poesia e la memoria, qualcosa che bisogna tenersi stretto e che non si può dimenticare.
Infine lo sguardo, che si traduce tramite l’occhio come vocabolo e immagine ricorrente: «In ciascun giorno | di nuovo ti perdo. | In ciascun angolo | ancora ti aspetto. | Col tuo occhio | mi guardo intorno: dietro ogni muro | mi trovo solo». Lo sguardo è legato alla memoria, all’apprendere, ma è anche ciò che rivela, che conosce – se al contrario non gli è negato sapere – e che infine, sempre, prende atto: «Socchiuso ti sto a guardare | fare lega col mare. | T’investe, ti scioglie | con spade e coppe | ti coglie. | Rovinoso prestigio | dell’indaco: | interrompo il giuoco | apro l’occhio | e ti faccio entrare»; «Più allegri degli zingari | alla fine di un bottino | se ne vanno i cavalli | sentendo da lontano il mare | come gli zingari il rame. | Se ne vanno i cavalli | e non si voltano a guardarmi. | No che non si voltano. | I cavalli dal cuore d’argento | non si voltano a guardarmi».
Lo straniamento in Carrieri ricorre anche attraverso l’immagine del muro, elemento che crea allontanamento, pone esplicitamente e con fermezza una distanza da sé stessi, lo si vorrebbe valicare ma si viene costantemente respinti. È da questo respingimento che il poeta può generare il suo sguardo rassegnato, questa volta verso sé stesso ma soprattutto però, nuovamente, una fuga provvisoria. Il muro carrieriano nella sua accezione puramente esistenziale non è lontano da quello montaliano: «Non ha sete il muro | e l’acqua passa dall’altra parte. | Non ha bocca né occhi | e la mano della calce | si disfa in polvere | e mi respinge.»; «Il silenzio non mi salva | la parola non m’aiuta. | Muri aggiungo muri tolgo. | Più mi scopro più mi nascondo»; «La notte sentite un tamburo | che batte sperduto? | Quel tamburo sono io. | Sentite parlare un muro | più basso dell’oscuro? | Quel muro sono io. | Se percuote il vento una porta, | la percossa il vento la porta | sono ancora e sempre io.»; «Come le ventose dei rampicanti | si abbarbicano ai muri | le speranze risalgo | poggiando sul niente. | Muro dopo muro | mi spreco, mi consumo | in diramazioni provvisorie.»; «Quando l’uva rubavo | muri rompevo, | muri come te | con tante spine. | Quando l’uva rubavo | nel rubare m’aprivo.»
Anche la morte, nelle poesie di Carrieri, è fuga dalla vita, ultimo movimento. Oppure ancora, la morte è ciò che muove alla ricerca – tragica e vana – di quella vitalità che era e che non c’è più perché esaurita; e questo giro a vuoto conduce sempre a scontrarsi contro il muro della propria solitudine; quello che divide il mondo dei morti da quello dei vivi; quello della voce da quello del silenzio. Carrieri affronta più volte questo tema nei suoi libri, lo fa in ‘’Souvenir caporal’’ (1946), in ‘’La giornata è finita’’ (1963), in ‘’Le ombre dispettose’’ (1974) ma soprattutto ne ‘’La formica Maria’’ (1967), raccolta scritta in seguito alla morte della madre:
Apprendo un altro silenzio
alla fine del giorno:
la sera attendo
il tuo ritorno.
Con la tua mano
al posto vuoto
la polvere tolgo
a poco a poco.
In ciascun giorno
di nuovo ti perdo.
In ciascun angolo
ancora ti aspetto.
Col tuo occhio
mi guardo intorno:
dietro ogni muro
mi trovo solo.
Di silenzio in silenzio
ti scorgo, ti sento
e parlo da solo
tutto l’inverno.
Domenico Cantatore – 1974
La figura della madre chiude la ciclicità dell’opera carrieriana. Ciò che rappresenta questa donna è chiaramente l’immagine della laboriosità, quella di un mondo antico, di un Sud immobile, dal quale si è scelto di fuggire per liberarsi dal giogo, dall’inerzia, dalla paura di finire «ufficiale dello stato civile» o «contabile». Donna-custode di una porta che dava accesso alla memoria – non a caso la madre di Carrieri visse con lui a Milano per tutta la sua vita – alla quale si torna però per fuggire ancora, da settentrione verso il Mediterraneo, così come gli dovevano evocare i volti scabri dipinti dal suo amico Cantatore. È lo stesso Carrieri, in uno dei suoi brogliacci, che in una bellissima e lunga descrizione della madre ad un tratto spalanca quella porta e scrive:
«Ci sono stati califfi prima di noi, faraoni diseredati, beduini morti in una razzia. Ci sono stati poveri pescatori di seppie, venditori di stoviglie. […] Il pallore olivastro sul viso di mia madre: un milione di anni di invasioni e razzie. I ladroni arabi, i contrabbandieri albanesi, i biondini svevi, i marinai catalani per secoli e secoli hanno lasciato figli illegittimi. E la luna sull’isola di Rondinella è sempre la stessa. A forza di servire si perde ogni nozione di libertà. Si impara a trattenere il fiato, a stare zitti, a rimandare. L’istinto della difesa talvolta può assumere forme di crudeltà. Il vero fondo di questo istinto è la paura. Ribellioni fulminee ed espiazioni che durano un’intera esistenza»
Come già detto, dal 1984, data della morte di Raffaele Carrieri, nessuna sua opera è stata più ristampata. Sarebbe importante che il Comune di Taranto si occupasse di istituire una fondazione, un centro di studi che raccolga le opere e si preoccupi di promuoverne un discorso critico, che collabori con le università. A non molti chilometri da Taranto, in Basilicata, a Montemurro questo tipo di lavoro è stato fatto nei confronti di un altro poeta, grande amico di Raffaele Carrieri, Leonardo Sinisgalli, del quale proprio qualche anno fa è stato pubblicato il volume Tutte le poesie (Mondadori). In uno scritto del ’55 quest’ultimo così definiva l’amico: «Carrieri è l’unico tra noi, della nostra generazione, che abbia accettato di spendere, di dissipare tutta la vita per la poesia. Negli altri tutti c’è un grosso margine di riserva, di recupero, di taccagneria. Accendere il fuoco per gli altri è un’operazione lunga, lenta, paziente. Ci vuole l’innesco, ci vuole la scintilla.»
Bibliografia e note:
- L’associazione cittadina di cui si parla a proposito del centenario di Raffaele Carrieri è il ‘’Gruppo Taranto’’
- Il mondo di Raffaele Carrieri – Pittura, carte, documenti, a cura di Elena Pontiggia e Aldo Perrone (SilvanaEditoriale) 2006
- Raffaele Carrieri, Poesie scelte a cura di Giuliano Gramigna, (Mondadori) 1976
- Raffaele Carrieri, Il grano non muore (I brogliacci) 1930-1980, (Mondadori) 1983
- Raffaele Carrieri, Stellacuore, (Mondadori) 1970
- Luigi Cavallo, Raffaele Carrieri – Una vita per la poesia, (Rusconi) 1978
- Riguardo Leonardo Sinisgalli: https://www.fondazionesinisgalli.eu/
Bel saggio! Merita una rilettura attenta. E grandissimo poeta ed intellettuale Raffaele Carrieri. Nasce fuggiasco e finisce nomade, nell’accezione che per sé da alla parola Rosi Braidotti. Auguriamoci che la sensibilità di Taranto nei confronti di questo suo figlio, cittadino del mondo cresca. Pochi altri hanno compreso, come lui, l’identità tarentina nel profondo.
La sua storia così avventurosa mi ha affascinato e ho comprato il suo “Lamento del gabelliere” prima edizione del 46 nella speranza di trovare altre sue opere .Il suo articolo è splendido e da leggere tutto d’un fiato,grazie
Conosco Raffaele Carrieri perché, da bancario avevamo come cliente il pittore Domenico Cantatore, suo grande amico. Lo ho visto insieme al suo amico pittore che l mi ha anche donato una sua litografia e sono andato a trovarlo, essendo in ferie a Cupra marittima dove, non molto lontano Cantatore aveva una villa è proprio in quel periodo era in compagnia di Carrieri. Ho letto molte sue poesie. La sua poesia è molto particolare, ma da me apprezzata. Penso che debba essere ricordato e riproposto. Ho letto molto di poeti; penso che Carrieri non sia ne l’ultimo ne il primo: ma nella sua unicità leggerlo è una ricchezza.