di Massimo Mastrogregori
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la dua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito l’11 aprile 2012].
Il grande accademico, che ha promosso l’incontro sulla crisi della disciplina storica nel nostro tempo, mi ascolta con apparente attenzione. Sto parlando del diluvio di libri, articoli, riviste, convegni di storia che si abbatte ogni anno sul pubblico. Non mi sembra che ci sia questa grande crisi della disciplina. E quando accenno alla difficoltà di informare i lettori su questa immane produzione, alla fatica di creare una specie di mappa del sapere storico che si produce – che poi è il compito che mi fu richiesto di svolgere quindici anni fa, come nuovo direttore della «International bibliography of historical sciences», pubblicata annualmente dal 1930 – ecco che l’accademico reagisce, fa un cenno alla sua assistente: dobbiamo assolutamente procurarci quest’opera per la biblioteca, le dice. È strano però, in quel momento gli sfugge che quell’opera è già in biblioteca, dal 1930.
Ogni discorso realistico sull’eccesso di testi e di immagini deve fare i conti con la questione dell’attenzione. Nabokov sosteneva che la realtà è una questione di gradi e di profondità. Un giglio è più reale per un botanico che per un fioraio, ed è ancora più reale per un botanico specialista dei gigli. La diversa esperienza delle cose conduce a gradi diversi della stessa realtà, «vera per tutti e diversa per ciascuno» (Proust). Dunque la situazione normale – anche, per esempio, quando si producono testi o immagini per un pubblico – è il dislivello di realtà. Che si approfondisce e si complica a causa dei limiti dell’attenzione: distrazione, noia, impazienza, pigrizia, per non parlare di avversione e disprezzo. La sovrapposizione, o comunicazione, degli smisurati universi reali che ciascuno di noi tende a creare è perciò minima. Anche la scrittura e la lettura si svolgono in una zona d’ombra, dominata da fraintendimenti ed equivoci, e regolata da una specie di indifferenza operativa: non siamo in grado di dissipare i continui malintesi e comunque non perdiamo tempo a provarci. Vastissimo è il regno del non detto e del mai chiarito.
I libri appena pubblicati, presenti nelle vetrine dei librai, o perfino in mano o sotto gli occhi di lettori che li hanno appena acquistati, sono molto meno visibili reali e presenti di quanto gli autori si illudono che siano. E lo stesso vale per la voce che parla in un microfono, amplificata davanti a un pubblico: è infinitamente meno limpida ed ascoltabile di quanto chi parla s’illude che sia. Tra autori e pubblico è ovvio presupporre sempre una spessa coltre nebbiosa di disattenzione.
Quindi il grosso problema – se vogliamo parlare della giungla di testi e di immagini in cui ci troviamo immersi – riguarda più il pubblico che gli autori. È l’endemica, costituzionale, irrimediabile mancanza di attenzione del pubblico. Non mancano però i tentativi di arginare il fenomeno delle letture rapaci. L’attenzione viene concentrata così su alcuni autori, chiusi in riserve indiane filologiche. I loro testi diventano illimitatamente significativi; le profondità delle loro opere sono esplorate minuziosamente; una luce piena è proiettata su di esse; un intenso, inesauribile movimento produce risultati ambivalenti, forse contraddittori: da una parte testi canonici in editio ne varietur, dall’altra il continuo smontaggio delle forme a partire dai vari strati della composizione (gli scartafacci, i manoscritti, gli abbozzi). Ma è l’attenzione stessa – religiosa, professionale, retribuita – che alimenta la contraddizione. E che fa di un autore un’auctoritas, un’autorità.
Ecco, però, che nella riserva indiana filologica, tra l’autore e il pubblico disattento si è incuneata una figura diversa, a imporre attenzione, a creare l’autorità, a suscitare reverenza automatica: il custode del canone, l’editore scientifico, il commentatore perpetuo. Ciò attira la nostra attenzione sul ruolo giocato dai mediatori, anche fuori dalle riserve indiane. Sono loro i veri padroni della terra di nessuno tra autori e pubblico. Degli autori se ne infischiano abbastanza: la loro missione è attirare, canalizzare, finalizzare le scarse attenzioni del pubblico. E quindi costruiscono piedistalli, tribune, tavole rotonde, testate, marchi di qualità, luoghi prestigiosi che accreditano gli autori. In un certo senso li creano come autori per il pubblico e li segnalano, nello stesso modo in cui i grandi segnali verdi indicano dove andare alle automobili lanciate sulle autostrade. Così l’attenzione residua non è più libera di fluttuare, di disperdersi.
Più in generale, i mediatori esercitano la loro funzione decisiva in vari modi. Alcuni sfruttano una posizione egemonica «naturale» nel campo dell’attenzione (genitori, maestri, traduttori, giudici, inquisitori). Altri se la conquistano, sono intraprendenti, spregiudicati, ci guadagnano sopra (a volte cifre colossali).
L’essenziale è che questi ultimi mediatori siano percepiti come moderni, realizatori di cose nuove. Essi in effetti fondano il loro prestigio proprio sulla novità, come nel Quattrocento gli stampatori rispetto ai copisti. E in genere si assicurano rapidamente il dominio delle novità tecniche, come Berlusconi con le televisioni private italiane, alla metà degli anni ’70.
Negli ultimi cinquant’anni abbiamo visto estendersi in modo progressivo lo spazio dei mediatori, grazie a straordinarie innovazioni, come la televisione e internet. Ciò ha prodotto uno straordinario accrescimento dei contenuti disponibili, immagini e testi. Nel caso della televisione, si è trattato di contenuti nuovi e di retoriche nuove, prontamente incrociate con altre di natura diversa e altrettanto nuove (la pubblicità per esempio). Nel caso di internet, ai (pochi) contenuti nuovi si sono affiancati quelli vecchi, duplicati nel mezzo nuovo – quindi, almeno tendenzialmente, tutto l’universo dei contenuti “mediati” dalla stampa negli ultimi sette secoli, libri riviste e giornali, riproposto sugli schermi del computer.
In un certo senso si è ripetuto, in scala enormemente maggiore, quanto è successo con l’avvento della stampa, che riprendeva e diffondeva i contenuti manoscritti. Però con una significativa differenza. Mentre l’universo creato dalla stampa possedeva una serie di mappe concettuali, come le bibliothecae o bibliografie selettive di Conrad Gesner o Antonio Possevino – e quindi una descrizione culturale dello spazio occupato dai mediatori – l’universo creato da internet possiede Google, che non è una mappa, e non è una descrizione culturale, ma una via d’accesso ultrarapida alla lettera dei testi presenti sul web, per di più costruita per canalizzare informazioni verso altri mondi, come quello del commercio e della pubblicità (e non solo). Semmai, Google ha la tendenza a descrivere non tanto l’universo dei contenuti su internet, quanto la realtà stessa, di cui offre porzioni limitate visibili (maps, satellite). Aggiungete che la realtà stessa, mediata dai social networks, per esempio, tende a duplicarsi nella rete. Nell’ombra, intravediamo mediatori interessati alla decifrazione automatica della realtà duplicata sugli schermi (Google analytics, per esempio).
Scomparsa la descrizione culturale dello spazio che i mediatori occupano per attirare e dirigere l’attenzione del pubblico, minore è la possibilità di stabilire quanto la loro occupazione – la loro egemonia sull’attenzione – sia abusiva. Per tornare all’esempio dei testi canonici e delle autorità, senza descrizione culturale non si può stabilire se un’opera appartiene al canone perché è giusto che sia così, o se sembra giusto che vi appartenga perché così è stato stabilito dai mediatori.
La tesi che la scomparsa delle bibliografie abbia un’importanza tanto grande può sembrare curiosa. Ma è di questo che si tratta: della sostituzione della mappa, o della carta geografica, con il gps (global positioning system). Quando usiamo la prima, dobbiamo sapere dove siamo, collocarci sulla carta. Quando usiamo il secondo, ciò non è necessario: il satellite sa dove siamo, anche se noi non lo sappiamo. Pensato per i deserti, oggi lo strumento è usato nelle città.
[Immagine: Google (gm)].
Molto condivisibile. Complimenti
L’articolo è persuasivo e convisibile. Mi sarei aspettato però una parte sull’eccesso “alla fonte”. Oggi si scrive troppo in ogni campo. Mi pare che il dato di base da cui partire sia questa proliferazione.
Bellissimo. Mi permetto di segnalare l’Operetta morale di Leopardi intitolata “Il Parini”, raramente antologizzata e poco letta, dove si discutono problemi di diffusione della cultura e di ruolo di mediazione del canone e di chi lo costruisce: il tema di questo quest’acutissmo intervento. In quell’Operetta, Leopardi mette in bocca al poeta Parini una disamina del mondo culturale per dissuadere (o invitare a prendere in considerazione fin da subito l’idea di un possibile fallimento) un giovane che vuol fare il poeta dal lanciarsi nella faticosissima ricerca della gloria. Infatti, dice, è più facile che si valuti esteticamente riuscita la pessima opera di un autore già canonizzato che l’ottima opera di un autore sconosciuto. Leopardi si era già accorto di quanti fattori allotrii disturbino il nostro giudizio critico (osservazione che mi pare abbastanza simile alla difficoltà di attenzione di cui parla Mastrogregori e alla nabokoviana realtà che è questione di gradi e profondità).
Credo che oggi sia da capire dove si sposterà il filtro che decide cosa è degno di memoria e cosa no. L’idea che Internet sia democratica e che sia in grado di abolire quel filtro infatti è un’illusione. Selezionare è necessario, non si può legger tutto, per ovvi limiti fisici e mentali. Al massimo l’assenza di filtro potrebbe produrre solo un sovraccarico di voci che si risolve in un ronzio o gracidio inutile e indistinto (Montale parlavi di “limo dei neòteroi”).
Mi è piaciuta poi moltissimo l’ultima parte sulle bibliografie, le mappe, Google e il GPS. Anche di questa novità della nostra collocazione (o fine della collocazione) nello spazio culturale si dovrà parlare. Gentile Mastrogregori, ho trovato affinità fra il suo discorso e i contenuti di un libro, di cui però conosco solo quello che ne ho sentito dire e le recensioni che ne ho letto, Crisi della ragione cartografica, di Franco Farinelli. Lei indaga il tema dallo stesso punto di vista? Ci sono davvero queste attinenze? L’argomento mi interessa e vorrei avere da Lei qualche altra indicazione bibliografica (per orientarmi…). Grazie.
Grazie Enrica per i complimenti. A Marco Gusberti: è vero, l’eccesso alla fonte di cui parli è un problema decisivo (magari il tema per un prossimo articolo…). E a Daniele Lo Vetere: mi dispiace, non conosco quel libro di Farinelli, ma se può interessarti, questo mio pezzo sui mediatori e l’attenzione in qualche modo prosegue un discorso iniziato su «Belfagor», 2010, 1, in un breve articolo intitolato Archivi e telefonini (purtroppo solo cartaceo!).