Intervista a Elisa Donzelli
Si può parlare oggi di ‘scrittura femminile’ sia in generale che nel contesto specifico della poesia. Cosa porta con sé questo termine e quali sono, se ci sono, i suoi limiti?
Ho esordito in poesia a quarant’anni. Prima, per vent’anni circa, mi sono occupata di ricerca letteraria, scrittura critica e saggistica. E, a margine, di editoria di poesia. Considero la mia scrittura poetica una scrittura femminile e non potrei parlarne diversamente in quanto donna e poeta. Femminile consapevole e femminile inconsapevole. Accorta e distratta. Su questa ambivalenza si fondano le mie risposte.
Esiste una dimensione estetica della poesia scritta da donne? Esiste cioè uno spazio di ‘scrittura femminile’ o è questa un’etichetta critica apposta a posteriori?
La stanza, la casa. Gli interni. La letteratura per secoli ci dimostra che le donne prima cuciono fili, poi tessono le proprie lettere in luoghi chiusi, o comunque riparati, partendo da una collocazione interna che, senza particolari riti di passaggio, subito si risolve in collocazione interiore. Sviluppano cioè all’ennesima potenza vaste capacità introspettive per ragioni storico-antropologiche, persino paesistiche, che affiancano e in parte soverchiano le singole esperienze biografiche. Questo presupposto socio-ambientale ha consentito loro di affinare lo sguardo puntando sul rapporto fra mondo interiore ed esteriore come se, per ragioni congenite, l’uno fosse lo specchio dell’altro. Tutte noi siamo implicate in questa nota faccenda, e per compensarla troviamo nuove strategie di posizionamento esteriore.
Non ho difficoltà ad ammettere che la mia poesia spesso si muove nel solco di un condizionamento ambientale, a partire da un luogo protetto: le case dove sono cresciuta, i luoghi intimi e personali delle città o dei posti di vacanza. Come segno di terra ho una predisposizione a imitare i comportamenti degli animali territoriali, difendere il nido familiare, prendermi cura della casa, del luogo che mi ruota intorno senza ossessione per l’ordine. Da bambina giocavo concentrando (nel senso di ‘far convergere in una zona ristretta’) l’immaginazione sui giochi che custodivo nella mia stanza. È così che noi bambine sviluppiamo una più alta capacità di sintesi rispetto a ciò che ci circonda, pozione magica per una buona poesia. Ma per natura ho anche una spinta opposta, affatto ‘femminile’, quella di esplorare ed uscire per strada mescolandomi con l’esterno. Quale esterno?
Da dieci anni dirigo una collana di poesia italiana e straniera ed ho il privilegio di leggere diverse raccolte e dattiloscritti per proposte editoriali, di fiutare ciò che accade altrove. Intorno a me vedo una straordinaria varietà di possibilità nella scrittura poetica delle donne, ma patisco nel dover ammettere che nel 2022 è più difficile trovare un libro di poesia femminile pienamente convincente. La dialettica dei sessi non è prescindibile e riguarda la mia condizione di studiosa, editrice e anche poeta. E in quest’ottica da editrice di poesia mi sembra di poter affermare che nel complesso i libri maschili sono più decisi, forse più assertivi di quelli scritti da donne, e con un minor numero di livelli di lettura. Il che rende il giudizio – per quanto soggettivo e imperfetto – più semplice da esprimere. E dunque più facile anche la scelta. Il grande vantaggio delle voci maschili è anzitutto quello di saper stare con naturale disinvoltura negli spazi del fuori: nel tempo, e nel mondo.
Io sono nata nel 1979, al termine di un intenso periodo di lotte e contestazioni politiche e generazionali alle quali, pur con ripensamenti successivi, entrambi i miei genitori non si sono sottratti. Il Settantanove è un anno che si colloca proprio sul crinale: tra impegno e disimpegno, ma non lo potevo sapere perché ero appena nata e con scarse possibilità di espressione, se non primordiali e biologiche.
Nel Novecento le nostre nonne letterarie, almeno in Italia, avevano imposto la propria voce più come narratrici forse che come poete, e come poete di recente mi è piaciuto notare, in alcuni studi su Lalla Romano pittrice e poeta (prima ancora che narratrice), che i più originali e liberi esercizi in versi nella prima metà del secolo scorso nelle donne erano frutto di un esercizio figurativo dello sguardo, pittorico prima ancora che letterario. Questo atteggiamento negli anni Venti conteneva al suo interno un forte, parzialmente inespresso, potenziale politico. Ma era un luogo speciale quello in cui la giovane Lalla si era mossa, la Torino di Gramsci e di Gobetti, quella dell’antifascismo di Venturi e Casorati, degli amici Antonicelli e Soldati. Non così per tante altre poete e scrittrici del primo Novecento che andrebbero comunque rilette e studiate più a fondo per indagare il nucleo rivoluzionario sotteso alla scrittura in versi.
E le nostre madri in poesia sono riuscite a fare i conti con la dialettica del dentro e del fuori? Di certo non tutte ma alcune di loro negli anni Settanta hanno avuto il merito di individuarne la presenza tentando di esternarne la contraddizione. In questo senso mi piace ricordare quanto scriveva Frabotta nell’antologia del 1977, che precede di un anno La poesia femminista a cura di Laura Di Nola. Donne in poesia era dichiaratamente un’operazione ‘non femminista’ ma rivendicava con grande nitore un senso di appartenenza nella diversità: “occorre rivendicare la separatezza. Come punto di forza, come tappa non di una esclusione culturale, ma di un’ambivalenza, di una sospensione tra storia e metastoria dolorosa, ambigua, sfuggente ma necessaria”.
Negli ultimi anni, ho fatto caso a una caratteristica comune e quasi rituale nel caso di voci più vicine alla mia età biologica, o appartenenti alla mia generazione. Ciò vale, a dire il vero, a prescindere dal genere perché mi è spesso capitato di ragionare – album stesso potrebbe essere letto anche in questa chiave – sulla difficoltà che noi nati dopo il 1968 (l’anno è più simbolico che reale) abbiamo avuto nel considerarci adulti, oltreché nel percepirci come una ‘collettività’. Di recente ne ho parlato in un documento dedicato ad una ipotetica non-generazione di poeti nati negli anni ’70 o ’80 che ha per lo più saltato l’appuntamento con gli eventi della Storia degli ultimi quarant’anni. In questo quadro per le ragazze della mia età, ereditiere in quanto donne di un antico condizionamento culturale, è stato anche peggio.
Nella poesia femminile scritta da coloro che sono nate negli anni Settanta e Ottanta ciò che manca – non sempre ma quasi – sono gli eventi, i ‘fatti’ pubblici. La non consapevolezza di essere escluse, e di avere escluso dal proprio raggio di scrittura i principali avvenimenti che hanno determinato il nostro presente. Come se la ‘separatezza’, della quale parlava Frabotta in riferimento alla condizione di donna, e della quale qui parlo in riferimento ai principali episodi che hanno caratterizzato la nostra crescita (dalla caduta del muro di Berlino, alla Guerra nel Golfo, dalla ascesa al governo di Berlusconi al G8 di Genova e all’11 settembre 2001), fossero ‘occasioni’ delle quali in poesia (e non solo in poesia) le donne nate dopo il Sessantotto non si fossero accorte o, nella migliore delle ipotesi, che avessero lasciato come appurate sullo sfondo. Si potrebbe eccepire dicendo che ci sono infiniti modi di fare poesia, anche quelli di eludere. Ma penso occorra riflettere sulle ragioni che determinano ed hanno determinato le nostre scelte di autrici, proprio in ragione del fatto che io credo sia proprio in questa ‘inconsapevolezza’ che si è annidata la parte più creativa della poesia femminile degli ultimi anni. Ed è qui che colgo il potenziale espressivo del suo futuro letterario, ma anche il suo limite. C’è un dato che non dovremmo continuare ad ignorare se vogliamo che si creino più spazi editoriali per le donne, consapevoli di quanto minor spazio anche le migliori neo-collane di poesia in Italia dedichino alle voci femminili.
In poesia dimostriamo, anche se non lo crediamo, che la Storia pubblica non ci abbia riguardate e non ci riguardi, o che ci riguardi da lontano, che a volte è come dire anche dall’alto o dal basso. E da pensatrici attive e illuminate crediamo che il modo per ragionare su ciò che accade pubblicamente nel mondo sia quello di teorizzarlo o all’opposto di vagheggiarlo e poi rifuggirlo come possibile soluzione (quando la poesia non dovrebbe mai offrire soluzioni). Della fuga – in primis di quella dall’io – facciamo un suggestivo potenziale fenomenico, ma anche un vezzo. In misura più attenuata, per onor del vero, questo è un ragionamento che dovrei estendere anche ai poeti maschi della mia età e dintorni, senza tutto il peso, lo ripeto, dei condizionamenti di genere.
Che tipo di dimensione o narrazione storica ritrovi all’interno della tua opera?
La Storia con la ‘s’ maiuscola è diventata una parola desueta, quasi ideologica in poesia (nell’arte in genere). Ma la storia non può prescindere dagli avvenimenti che, quasi sempre, accadono anche contro la nostra volontà. Quel che dico è che la cronaca ha un peso nelle vicende di tutti noi: uomini e donne; e preme senza distinzioni di genere scatenando la sua violenza più spesso sulle donne che sugli uomini. C’è dunque contraddizione tra l’evidenza dei fatti e il silenzio della cronaca nella poesia femminile contemporanea. Ma questo è un discorso che travalica la dimensione letteraria.
Anzitutto penso che le pagine di cronaca dei giornali dovrebbero essere affidate alle donne perché la voce femminile che non rinnega l’evidenza, non solo del male ma dell’episodicità del male, abbia maggiori potenzialità di rielaborazione del trauma collettivo. Nel senso che avere sviluppato capacità multiple sul piano psichico-linguistico ci consente di concepire nessi tra la società e il singolo ad alto potenziale interpretativo e connettivo, e in modo differente rispetto al giornalismo maschile. Il punto è la percezione dell’accaduto e ciò vale a maggior ragione se si parla di poesia.
La percezione è un potenziale artistico altissimo nelle voci femminili e supera le barriere cronologiche e generazionali. A questo dovremmo appellarci, rivendicandolo come modo nostro di guardare a quanto è accaduto. Eppure senza conoscere bene e studiare a fondo, senza sapere concretamente che cosa è successo, qualcosa in poesia va perduto. È un lavoro che possiamo fare anche a posteriori se da bambine o da adolescenti – per ragioni epocali di cui non siamo responsabili, perché figlie del riflusso degli anni Ottanta – non ci siamo accorte di ciò che stava accadendo intorno a noi e fuori dalle nostre mura, talvolta anche dentro le mura domestiche.
Io credo questo del femminile, ma anche del maschile. Che esista una connessione profonda tra la crescita emotiva, corporea, sentimentale, sessuale, intellettiva e politica di ogni singolo individuo e ciò che accade fuori dalle nostre case ed entra ormai senza filtri ed orari, istantaneamente e in maniera figurale più che reale, nelle nostre stanze tramite il web e i social network. Si è detto che la mia è poesia civile. Ma album non è un libro di poesia civile nel senso tradizionale del termine, perché io mi sono accorta tardi di molte cose e le connessioni tra privato e pubblico sono reali ma procedono a ritroso, per intuizione figurale (come se disegnassi una bozza di dipinto, perché in principio per me la scrittura è tratto o tratteggio, poi tessitura e si veda una poesia di album intitolata cross stitch che è un po’ un manifesto di come intendo la tecnica del femminile in poesia) e per ricerca.
Lavoro molto sulla ricerca storiografica, riguardo ossessivamente i video, rileggo articoli di giornale, testimonianze, riascolto canzoni. Sono fonti tanto quanto i suoni e gli odori della mia infanzia, tanto quanto i testi sui quali mi sono formata e che hanno costituito la mia costellazione amorosa, tanto quanto la percezione del mio corpo che agisce e si posta negli spazi del mondo interagendo con altri corpi.
Il piano meta-poetico non può escludere né quello storico né quello virtuale, l’uno deve illuminare gli altri ammettendo l’ambivalenza (ma oggi dovrei dire la tri-valenza) sulla quale si fonda la stessa azione dello scrivere.
Esiste o è mai esistito un rapporto dialettico tra maschile e femminile all’interno della tradizione poetica italiana? Pensando al complesso processo di canonizzazione e la difficoltà che alcune poete hanno avuto ad entrare nel canone poetico italiano, vorremmo chiederti se secondo te c’è una poeta particolarmente significativa per il tuo percorso? Quali sono, in senso più ampio, i punti fermi e modelli poetici all’interno della tua produzione?
La verità in principio è un’altra. Sin da giovanissima il mio sguardo si è formato ruotando attorno alla poesia maschile. In particolare, non è difficile evincerlo, prendendo di petto la poesia europea del secondo Novecento. Dico “di petto” nel senso amoroso del termine, di fascinazione e rapporto fisico con lo studio. In principio ero attratta dal conoscere ciò che non conoscevo, la poesia come il sesso opposto. Sul piano pratico ciò è dipeso dalla scarsa, pressoché inesistente, presenza di voci femminili sui manuali scolastico-universitari o nelle antologie della poesia del Novecento, prima tra tutte l’antologia più seria sulla quale ancora la mia generazione si è formata. E fu proprio un regalo di corteggiamento quello che ricevetti a vent’anni da un compagno di università: Poeti italiani del Novecento a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, così consumato e maltratto nel tempo da costringermi a ricomprarlo senza buttare mai la copia matrice. Lì dentro di donne in poesia c’era solo Amelia Rosselli e mi era sembrata una tomba. Perché Rosselli era morta suicida e la sua presenza non creava particolari ingombri. Non dico nulla di nuovo, lo avete descritto con puntuale evidenza nei vostri propositi e la storia delle antologie con le sue partecipazioni ed assenze è utilissima in questa direzione, solo che mi annoia e la lascio fare ad altri. Io preferisco parlare di libri di poesia e di cataloghi di collane che scelgono di non pubblicare antologie ma raccolte di poesia di singole voci. Però ammetto che in questa vicenda le antologie hanno un loro peso specifico.
Solo al termine degli studi universitari avrei scoperto Donne in poesia curato da Biancamaria Frabotta per Savelli nel 1977, un anno prima dell’antologia di Mengaldo. A Mengaldo pare fosse importato poco di quella uscita quando nel 1978 aveva pubblicato l’antologia Mondadori, e si badi che Mengaldo è stato la punta di diamante dei maestr-i cui mi sono rivolta e cui devo la mia formazione (a lui devo la premessa alle traduzioni inedite di Sereni da Char da me curate nel 2010, anche se ho faticato parecchio per avere la sua autorizzazione a pubblicarle rispetto ad altri suoi studiosi maschi). Io sarei nata l’anno dopo nel 1979. Ci sono voluti quasi vent’anni per iniziare a sfogliare davvero la poesia, i primi libri e le antologie.
A casa di mia madre ho ritrovato un libro del 1996 L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del ‘900 a cura di Davico Bonico e Paola Mastrocola. Tra le pagine qualche orecchio o segno di lettura, ma a onor del vero le sottolineature si affastellano soprattutto accanto ai profili bio-bibliografici delle autrici. Se mi chiedete come sono andate le cose, delle ‘poete’ da ragazza mi interessava capire come ce l’avessero fatta. Come si fossero mosse in un mondo maschile, con quali editori avessero avuto la possibilità di pubblicare e come avessero gestito rivali, nemici, amanti che le avevano protette o osteggiate. E studiavo il volto nelle fotografie, giocavo a chi mi assomigliava di più nella biografia (il numero delle sorelle, i luoghi prediletti, le affinità elettive) e nei tratti somatici: Anna Achmatova con il suo naso irregolare; Sylvia Plath per la sua ribellione verso il padre; Ingeborg Bachman per il rigore del pensiero filosofico. Ero adolescente, le considero tappe necessarie. Ma al di là dei gusti personali credo sia importante ricordarci questo: delle donne in poesia, ad un primo livello, sulle prime, si nota il comportamento, il loro saper stare o non “stare nel mondo”. È ciò a cui ci ha abituate la cultura occidentale e, per paradosso, il potenziale più grande è stato proprio aggrapparsi a questo aspetto. Per molto tempo ho faticato a leggere anche le maestre più vicine, non ne vado fiera ma è andata così. Solo più avanti ho studiato e scoperto a fondo i testi avendo chiaro che per le poetesse (in questo caso preferisco utilizzare il termine desueto poet-esse, non cancellando il peso della storia che si sono portate addosso) erano i silenzi nati attorno ai rumori delle loro vite lo spazio rivoluzionario della parola.
“We grow accustomed to the Dark – / When light is put away” (“Facciamo l’abitudine al buio – / Quando la luce si mette via”): è l’incipit della poesia 419 di Emily Dickinson. Una parola d’ordine, o quasi. Le donne hanno fatto l’abitudine all’oscuro imparando a camminare a tentoni nel buio, e proprio per questo si muovono più ardite nell’ombra. Non ci sarebbe album se non vi fosse ombra. L’ombra, come immagine (si veda un testo sul concepimento e l’animalità come Viaggio di nozze), è consustanziale alla poesia. L’ombra dei morti certo, ma anche quella dei vivi. Che nei vivi è proiezione del corpo, o il nostro doppio. Riflesso che ci tiene a terra, presenti nella realtà come potenziali o reali procreatrici; magiche come Trilly campanellino, talvolta più concrete e accoglienti come Wendy ma mai solo astratte come Peter Pan, che infatti l’ombra la perde.
Che valore ha il tema dell’identità all’interno della tua produzione? Ha esso un valore estetico fondamentale nella creazione della tua identità poetica?
A questa domanda ho già in parte risposto prima, ma merita un approfondimento. Oggi in poesia sembra quasi un’onta dire io. Oppure sembra necessario scegliere se dirlo o non dirlo. Io penso che qualunque pensiero forte debba nutrirsi di un soggetto definito. Non concentrarsi in principio sull’io significa sprecare una possibilità. Troppo semplice gridare allo scandalo dell’egotismo se una poeta chiama se stessa o gli altri con il proprio nome. Vedo più egotismo inespresso nella soluzione opposta, anche solo perché già di per sé l’atto dello scrivere (in prima o in terza persona, al maschile o al femminile, o al plurale) è una forma di narcisismo.
Quando l’ovulo viene fecondato per non perdere il feto la donna deve ‘centrare’ se stessa, non gettarsi altrove con la mente; semmai concentrare tutte le energie sul proprio corpo. La natura ci dà una mano con gli ormoni e ci rende forti, più forti del solito. Quasi immuni e corazzate rispetto a ciò che accade intorno a noi in quei nove mesi. È una condizione passeggera e felina che le donne che hanno avuto figli conoscono molto bene. Egoismo? Il più altruista degli egoismi. Concentrarsi su di sé e dare cura, spazio, forma alla gestazione della creazione di un altro. Sino a quando l’altro non è in grado di prendere autonomia e forza l’io deve fare per due (a volte per più di due). In poesia la vedo un po’ così; perché ci sia un Tu occorre essere consapevoli della responsabilità dell’Io. È questa la maternità in poesia, esplicata o meno nella vita attraverso la possibilità di mettere al mondo un figlio. Non è il mio caso, ma ci sono molte poete che non hanno figli è sono madri in poesia più di quanto non pensino. Ammesso di non ergersi a sacerdotesse.
La mia poesia non esisterebbe senza i tanti tu dei quali si compone: altre voci che in album sono, sin dalla dedica e sin dai titoli, soprattutto voci femminili. Si è detto che questo mio esordio è un libro “sororale”, per ragioni biografiche legate alla perdita precoce di una mia sorella germana e alla centralità della mia sorella maggiore che apre le danze alla presenza dei tanti tu femminili presenti nella raccolta. Donne resistenti – Mary Barbara Tolusso le ha felicemente chiamate “eroine” – che hanno attraversato la mia vita personale e quella collettiva. Ma tutte donne attorno alle quali la mia coscienza femminile si è formata: le principesse che sin da piccola disegnavo ispirandomi all’iconografia femminile (fiabesca e mozartiana, della cultura rinascimentale e contemporanea), mia madre, le mie nonne, le compagne di vita, le amiche poetesse (la coetanea Isabella Leardini dell’omonima poesia), Biancamaria Frabotta anche lei presente in album e che è stata anche la mia maestra all’università, le donne che hanno svolto mestieri scientifici, le star dello spettacolo, le protagoniste della cronaca e della storia più recenti: Marta Russo, Hevrin Kalaf, Karola Rakete.
album è un libro sulla giovinezza e sulla fuoriuscita dalla giovinezza. L’ho scritto a quarant’anni, facendo un po’ un bilancio della mia vita precedente e dovendomi confrontare con chi, molto vicino a me, aveva violentemente terminato la propria vita a vent’anni. Un libro sororale perché, in termini collettivi, non elimina l’esigenza profonda e amorosa che abbiamo di non sentirci diversi anche rispetto a chi non c’è più (l’unica diversità che andrebbe annullata è quella tra i vivi e i morti). E di non sentirci soli, pur restando unici. Uniche. Ciascuna di noi per la propria parte e a proprio modo, come la poesia ci dimostra.
‘The death of a beautiful woman is, unquestionably, the most poetical topic in the world.’ ‘La morte di una bella donna è senza alcun dubbio il tema più poetico al mondo’ (Edgar Allan Poe).
Chiaramente queste parole implicano un modello che vede un soggetto poetico maschile e un oggetto femminile. Come interviene la tua scrittura su questa struttura dialogica paradossale basata su una dialettica di presenza/assenza della voce femminile? Come si colloca all’interno di una lunga tradizione poetica che richiede al soggetto femminile di essere un oggetto e per di più un oggetto necessariamente assente? Come risuona questa citazione all’interno della tua poesia?
Questa è una domanda che sin dai miei primi studi mi interessa molto. Non ho mai amato molto Montale proprio perché, nonostante tutto, cercava ancora la musa. Anche se, rispetto alle altre, Irma Brandeis è tra le muse più belle e intelligenti del Novecento. Però sempre musa è.
Ho amato molto Giorgio Caproni, e l’ho scritto approfondendo la questione nella monografia Giorgio Caproni e gli altri del 2016 (Marsilio), perché a mio avviso era un poeta in grado di amare frontalmente le donne con l’idea, poco ortodossa, che fosse anche un amatore più sensuale di altri. Ponendola sullo stesso piano per saggiarne la diversità, e non in una dimensione gerarchica, la donna per il poeta livornese era stata in principio ombra, o Bestia come ho avuto modo di verificare in tangenza con la poesia di Pierre Jean Jouve, e in quello straordinario rapporto che fu con la prima fidanzata Olga Franzoni dedicataria di Cronistoria. La “mite fidanzata / così completamente / morta”, che nel 1936 perderà la vita per setticemia lasciando un segno indelebile nella vita e nell’opera del giovane poeta. Ma Olga in principio leggeva, era colta, studiava i poeti europei e li faceva scoprire al più giovane Giorgio. Il suo primitivismo, il suo furor (di questo antico sentimento parlerò alla fine), come quello di altre successive figure femminili caproniane, aveva innescato la miccia della poesia, non certo l’aura della sua presunta sacralità. Non c’era stata solo Annina che era la madre-fidanzata, comunque immagine di un femminile poetico di forma angelicata ma umanissima. E non solo la moglie Rina. Caproni era un uomo con un amore reale per la sua famiglia, ed era un uomo nato nel 1912. Eppure era assai più libero nella mente di autori della sua come delle successive generazioni.
Anche René Char, altro poeta che ho studiato per anni, ha fatto altrettanto, se non di più, per smontare il meccanismo oggettuale del femminile in poesia: “Vorrei che oggi l’erba fosse bianca per calpestare / l’evidenza di vederti soffrire” così in La Maddalena del lumino di Georges de la Tour. La Maddalena che è una prostituta.
È l’atteggiamento maschile che ho più amato in poesia e che ha prodotto i migliori risultati letterari nel Novecento. Sono uomini che hanno restituito luce al volto in ombra, non solo al corpo peccaminoso, di Maria Maddalena più che rivolgersi alla Madonna. E dell’ombra hanno accettato “l’impossibile soluzione” (sempre La Maddalena del lumino).
Se faccio entrare una figura maschile in poesia cerco di fare altrettanto, illuminare la sua parte opalescente preservandone l’enigma. È una dialettica amorosa, una leale guerriglia, cui non rinuncio facilmente. Anche se i nomi maschili sono puntati in album o mai svelati. Perché? Perché il diverso lo si conosce meno, e perché anche l’incognita maschile va difesa e celata.
Esiste o dimostrabile secondo te una differenza linguistica a livello di genere? Esiste secondo un rapporto causale fra differenziazione biologica e linguistica? Nel caso esistesse, sarebbe meglio descritta da un sistema di opposizione statica o meglio da un processo, da un contino divenire della lingua poetica?
Il lessico della poesia scritta da una donna mi pare diverso da quello di un uomo. Come donne e uomini ci circondiamo e poniamo lo sguardo anche su oggetti, persone, ambienti diversi. Il lessico è lo specchio del mondo di cui ci circondiamo, fatto di cose e desideri che diventano poi azioni. Credo che la ripresa sistematica di uno studio linguistico della poesia femminile contemporanea oggi non farebbe male a nessuno, anzi. I linguisti dovrebbero rivolgere l’attenzione alla poesia non dimenticando che per le donne ciascuna parola è seme e che gli studi più interessanti in questa direzione li aveva scritti negli anni Settanta Julia Kristeva (Unes femmes per primo). Ho tradotto a più riprese qualche anno fa l’opera di Kristeva, Del matrimonio considerato come un’arte e l’autobiografia La vita, altrove. È tramite lei che ho esercitato, tanto quanto in poesia, la lingua dell’altro. Le donne dovrebbero anche iniziare a tradurre le donne, oltreché mettersi al servizio dei classici (che quasi sempre sono opere maschili). La scommessa della semiologia ha implicato una riflessione sulla natura sessuale del linguaggio. La lingua è fatta di stratificazioni e la poesia ha il compito di sfogliare le parole come frutti, di non concentrarsi su un solo alfabeto ma di arrivare al nocciolo attraverso una faticosa conquista degli elementi. Da Julia Kristeva ho appreso questa lezione: che penetrare i meandri labirintici della lingua, delle lingue, significa attraversare il territorio più esteso e originale che esista. Quello dell’amore tra due individui a prescindere dall’inclinazione erotica per l’uno o per l’altro sesso (se è vero che il maschile e il femminile sono percentualmente dentro ciascuno di noi). E che questo attraversamento è anche un gioco, il gioco dell’infanzia come tenta di mostrare una poesia di album intitolata fermo-immagine.
È possibile individuare un rapporto tra metrica (approccio stilistico e lingua) e biografia nella tua scrittura?
Sul piano stilistico e formale la lezione cui mi sono maggiormente affidata in album è quella adottata da Attilio Bertolucci in Viaggio d’inverno. Quasi una tecnica che non ho applicato pedissequamente ma che mi ha accompagnata nella gestazione del libro, forse perché mentre lo scrivevo pendolando sui treni tra Roma e Pisa (io insegno ora come Professore associato alla Scuola Normale di Pisa) quell’anno tenevo agli allievi un corso su Bertolucci. In un saggio per me esemplare Giovanni Raboni l’aveva definita la tecnica a sgocciolamento, paragonando la scrittura di Bertolucci all’informale americano. Nella sostanza la puntuazione spesso salta e un verbo può contemporaneamente riferirsi al sostantivo che lo precede o che lo segue, lasciando una doppia possibilità di senso. Una sintassi, anche quella di album, oscillatoria ma mai senza perdita di senso logico del discorso. Grazie a questa tecnica non occorre ricorrere all’escamotage dei versi a gradino. E una forma di strabismo stilistico, uno sguardo obliquo sulle cose, o una tecnica del tessere come quella del punto a croce (di nuovo la poesia cross stitch). Mi è già capitato di dire che nella cultura occidentale, infatti, questa imperfezione della bellezza – lo strabismo – viene attribuita a Venere, e non a Giove.
Vi è secondo te un rapporto gerarchico tra i generi letterari? In che modo funziona l’ibridazione fra generi letterari nella tua poesia?
Penso ancora che la poesia sia un genere capace di conservare una propria specificità. E che sia il più nobile e il più antico dei generi, ma anche il più contemporaneo se capace di sfruttare a pieno le sue potenzialità. In primis quella di restituire la memoria al presente, e di stare ‘nel’ tempo. Non solo di guardare al passato. Però credo fermamente nella contaminazione delle forme.
Non sono affatto contraria alla prosa in poesia là dove abbia senso utilizzarla. La prosa è l’impossibilità dell’idillio, del canto. La difficoltà che proviamo a ritrovarlo e a cantare come usignoli. La consapevolezza che il male è nelle cose. Sarebbe un errore negarci questa evidenza, un errore non pensarci. Dobbiamo esserne coscienti e darle forma.
Anche la prosa in poesia è un esercizio difficile da sperimentare. Ma non potrei mai scrivere poesie in versi o in prosa se non avvertissi un ritmo in entrambe le situazioni. Io tengo un doppio passo, un doppio ritmo perché ho due gambe. E i suoni accanto alle idee procedono a passo alterno per muovere il corpo della lingua. È in questa instabilità – in questa a-ritmia, così l’avrebbe definita Bertolucci – che va cercata una stabilità formale. Poi si trova la propria andatura. Ritrovo il verso là dove condenso l’immagine in una creazione. Ma alcune delle mie prose potrebbero essere tranquillamente declinate in versi (al principio lo erano), perché un ritmo claudicante dentro c’è. È in questo agonismo formale che credo risieda il senso di un genere meno ingabbiabile e solido di quanto si pensi come la poesia rispetto alla narrativa.
Questa antinomia inconciliabile evidenzia l’inconoscibilità dell’Essere. Non possiamo cancellarla, la spinta è doppia, e comporta un’indagine sull’idea di mondo e sulla relazione tra essere e ambiente. Sull’esserci per sé, e per gli altri. La poesia vive di questa oscillazione tra pensiero, studio, esercizio e fonte, origine. Cosa intendo per origine? Lo spunto, in ombra, dal quale parte il primo vagito. Un’immagine, un dettaglio, il frammento di un ricordo in grado di produrre una scossa. Che però non si tiene in piedi sulle proprie gambe se non viene nutrita e formata, rimessi appunto al mondo tramite la cura del dettaglio. E la tecnica del pensiero.
Che ruolo ha la dimensione psichica nella tua poetica?
Nella poesia femminile individuo spesso una dimensione psichica che racchiude ed ingloba le precedenti; così è stato per album ed è forse l’aspetto sperimentale operato sulla lingua e sui motivi cardinali dei testi che avverto viene colto con maggiore difficoltà dalle pur lucidissime osservazioni critiche di natura maschile (oltre a Tolusso mi piace ricordare Silvia Rosa che su “il manifesto” di album ha saputo cogliere le plurime possibilità di lettura).
Attualmente sto proseguendo il lavoro avviato in album nella direzione di un’accentuazione della memoria somatica (nel senso greco del sòma come corpo) che gli eventi in cui siamo immersi muovono in noi e che sono forieri dell’immagine poetica e al contempo di una rivalutazione ermeneutica di ciò che ci accade o ci è accaduto intorno.
Di fronte all’esperienza tangibile la poesia contiene al suo interno un potenziale creativo che nel caso della poesia femminile è direttamente legato al principio di creazione, creazione come pro-creazione ma anche come erotismo. Nel testo Viaggio di nozze avevo cercato di enucleare, anche in termini narrativi, questa espressione attraverso la visione di ciò che è accaduto psichicamente, prima che fattivamente, quando ho concepito mio figlio. L’accoppiamento dei felini, la prospettiva dello sguardo animale che vede la motilità del vivere e del morire negli umani solo se di loro ne percepiamo l’ombra. L’erotismo femminile ha a che fare con il primitivo e con l’antico, ma soprattutto con ciò che riguarda il principio di legittimità dell’amore e la trasgressione dei divieti sociali. Ciò che Ovidio ha definito nell’Ars amatoria il furor femminile, in contrapposizione con quello maschile: “Più moderata è in noi [uomini] la libidine e non così furiosa: l’ardore virile conosce il limite della legittimità”. C’è una spinta semibuia nelle donne che è direttamente connessa con il desiderio e che non è necessariamente consumo o esibizione carnale del corpo. È su questo furore psichico che il linguaggio della poesia femminile può puntare per ricominciare a legittimare il proprio stare a suo modo fuori, a stare con femminilità nel mondo.
Siamo immersi in un ambiente malato, ormai obsoleto, dove è soprattutto la fiducia nella scienza e nella medicina, nella macchina, a renderci un esercito di sopravvissuti. La malattia, come l’amore, sono due grandi esperienze di declinazione della solitudine cui siamo esposti. Due grandi esperienze legate al doppio, e alla possibilità di eccepire alla regola e infrangere la norma, là dove la poesia ci spinge con il corpo della lingua e della psiche a sentirci ancora uniti in un corpo solo. È il grande mito di Hermafrodito forse? Un grande mito di civilizzazione dai barbari che non esclude nessuna perdita maschile della virilità. Hermafrodito nella più antica iscrizione di Kaplan Kalesi, e in alcune antiche versioni come quella di Vitruvio, era Dio della fecondità perché aveva accolto dentro di sé il femminile, allo stesso modo in cui noi femmine accogliamo il seme maschile.
Mi piace pensare allora che la poesia sia anche la possibilità che hanno uomini e donne di essere liberi nel corpo e nella mente, al cospetto degli eventi che ci formano e sempre immersi nel piacere del silenzio, del nevaio che ci coglie impreparati (questo è il titolo di una mia poesia inedita in uscita in questi gironi su “l’immaginazione” e dedicata alla nascita dell’erotismo amoroso in rapporto al paesaggio e ad alcuni eventi della storia). Della poesia come desiderio legittimo del mondo, che ci sveste e ci accoglie.