A cura di Laura Pugno

 

Nel 2022 si compiono 15 anni dall’inizio della mia personale avventura con l’ibrido, la pubblicazione del mio primo romanzo, Sirene, nel 2007. Da allora, le figure più che umane, oltreumane, si sono moltiplicate, in letteratura e nell’immaginario, intorno a noi, fino a essere in un certo senso ovunque, o forse solo nell’occhio di chi guarda. La parola Chimera, oltre i Canti Orfici e i Dialoghi con Leucò, riecheggia oggi gli ibridi interspecie della scienza contemporanea insieme alla mitologia greca, etrusca ed egizia, e per questo ce ne serviamo qui: il campo delle ibridazioni, come si vedrà, è molto ampio (lp).

 


Chiara Lagani, l’ibrido che ho scelto per te è l’Avatar. Vuoi raccontarci, a modo tuo, la sua storia?



L’Avatara, nella mitologia induista, è la discesa della divinità nel mondo, o in un corpo (incarnazione), per restaurare l’ordine del cosmo. È dunque una forma fisica provvisoria che, una volta portato a termine il suo compito, può perfino scomparire. Da circa trent’anni lavoro in teatro. Mi sembra che l’abbinamento chimerico che hai fatto con me, l’ibrido che mi hai assegnato, in fondo parli proprio di questo mio destino.
Nelle società primitive il rito teatrale aveva spesso funzioni apotropaiche: attraverso il sacrificio della rappresentazione (un corpo che subisce una speciale metamorfosi) si purificava l’universo.
L’attore, in fondo, è sempre un avatar, la sua è la forma ibrida per eccellenza. C’è un essere misterioso e invisibile di cui l’attore, servendosi del suo corpo (e della sua voce) testimonia la presenza. Siamo di fronte a una sapienza sottile e speciale, quella dell’intermediario, che con la sua performance, che infatti è chiamata interpretazione, ci rende manifesto un personaggio fino a quel momento invisibile. Cos’è di preciso, per noi che guardiamo, quel corpo d’attore? Potremmo chiamarlo avatar, forse?
Poiché, anche nella sua nozione religiosa, l’Avatara assume forme fisiche diverse, la sua storia non può mai essere solo una. Ne sceglierò dunque tre, tra le mille possibili, tratte da spettacoli della mia compagnia, Fanny & Alexander, realizzati in epoche diverse, ma accomunati dal fatto che in loro la nozione di avatar è anche tematica, viene cioè anche narrativizzata, divenendo uno degli elementi della storia:



1. Dorothy, la bambina del Kansas.
In un nostro progetto triennale dedicato alle molte storie di Oz scritte da Frank Baum, Dorothy attraversa più spettacoli e ogni volta, a staffetta, le dà corpo e voce un’attrice di età diversa. «Mi chiamo Dorothy e ho 32 anni. Mi chiamo Dorothy e ho 43 anni. Mi chiamo Dorothy e ho 65 anni», dicono le attrici al principio del loro spettacolo. Gli spettacoli, tutti, raccontano di un viaggio (forma elettiva anche dei giochi di ruolo, dove l’utente si muove con il suo avatar). Nel suo viaggio dunque, in maniera evidente, Dorothy è l’avatar non solo delle attrici, ma anche dello spettatore. Lo spettatore si mette in viaggio attraverso Dorothy. «La protagonista, Dorothy, un avatar dello spettatore, è catapultata dal suo ciclone prima a Sud, poi a Nord, quindi a Est e infine a Ovest dell’universo fantastico attraverso cui il suo viaggio-avventura si svolge», recita il foglio di sala di uno degli spettacoli di quel progetto.



2. Il Campione.
Discorso Celeste è uno spettacolo in cui l’attore protagonista riceve degli ordini da una voce (quella di suo padre, in scena e nella vita) che lo spinge ad accedere ai livelli successivi di un game sportivo che mano a mano che la storia procede si sovrappone anche all’idea di ascesa verso una sorta di paradiso artificiale di cui il Padre è l’emanazione. L’identità del nostro personaggio, che il padre chiama Campione, evoca esplicitamente la nozione di avatar:
«Ogni Campione ha inizio in un’ombra. Un’anima inerte che attende soltanto d’esser plasmata nella figura di ciò che sei tu. (…) Primo stadio del gioco. Dar vita all’Altro che sei. Ta–dah! Il tuo personale Campione nel suo primissimo slancio. Cammina verso di lui, guardalo fisso, lo stesso farà il tuo Campione, identico a te. Gira la testa. Destra! Sinistra! Dire di no. Dire di sì. Scrolla la testa. Mento in su. Ecco la faccia! Non c’è al mondo un’altra faccia così! Due gocce d’acqua! Questa è la parte più bella: non solo lui ti assomiglia, si muove con te! Sorridi, aggrotta la fronte, apri la bocca! Tristezza. Rabbia. Paura. Eccolo: azione! Quando sei pronto fai un passo indietro. Lo vedi? Tu vivi, respiri… come il Campione!»
A questo punto l’attore diventa davvero l’avatar del gioco, le due figure, quella virtuale e quella reale coincidono, e lo spettacolo può finalmente cominciare.



3. Il politico camaleontico di Discorso grigio.
In questo personaggio stanno acquattati, uno dentro l’altro come in una inquietante matrioska, le voci, i tic verbali e gestuali di molti personaggi politici noti degli ultimi cinquant’anni. In una delle ultime scene dello spettacolo quell’attore così schizofrenico e franto (sarà mai possibile che perfino un avatar possa avere una crisi d’identità?) esclama sconfortato: «Che cosa ci sta capitando? Sembriamo tutti nel bozzolo, come Matrix! La realtà… che cos’è la realtà? Io non lo so più… voi lo sapete? Che cos’è la realtà se non… una percezione? Adesso sta arrivando qualcosa di strano… adesso sta arrivando attraverso la rete una realtà virtuale, inventata questa realtà da uno psichiatra per poter spiegare ai propri colleghi le allucinazioni… visivamente… Ha inventato questi pupazzi che si muovevano per far capire agli altri scienziati dei congressi quello che pensava uno psicopatico. Un’azienda americana ha detto: cazzo, c’è da fare dei soldi … Si sono inventati che uno può avere una seconda vita… Questi sono pupazzi che ti scegli te, pupazzi, dimensioni fisiche che ti puoi scegliere tu: puoi essere magro o donna, vecchio, bambino, quello che vuoi. Bene. Puoi anche andare indietro nel tempo, nella storia: tu lo comandi e… ci sono tutte persone vere dietro! Ci sono due milioni di persone vere che hanno dei pupazzi che girano, girano in quel mondo là. E allora si sono inventati di avere anche degli affari: tu vai lì, prendi un terreno che non esiste, ci costruisci dei palazzi che non ci sono e li vendi magari! Ci sono casinò, ci sono locali, uno può andare a ballare, uno può conoscere…»



E come finiscono tutte queste storie? Non finiscono. L’avatar si dismette. Si adagia come un guscio vuoto, improvvisamente senza vita. Fino alla nascita di un’altra forma, al principio di un nuovo viaggio. È questa la vita nel teatro.



Pensa alla parola totem. C’è qualcosa nel tuo ibrido che ti parla del passato, tuo e di tutti?



Il totem è sempre un’entità simbolica. Nel nostro primo spettacolo, Hevel, c’era un trabattello color argento, di quelli che adoperano gli imbianchini, al centro della scena. Io e Luigi De Angelis al tempo avevamo sedici anni. Chiamavamo quell’oggetto «totem». All’ombra del nostro totem avveniva una specie di liturgia fondativa in cui le nostre identità venivano semplificate, stilizzate, schematizzate per estremizzazioni successive, fino ad arrivare alla distribuzione rituale dei ruoli. Il ruolo era strettamente legato a quel processo di stilizzazione, che oggi potrei forse anche definire, perché no, scelta di un «avatar». In fondo ogni forma di rappresentazione, anche quella del gioco infantile, parte da questo tipo di semplificazione. Nel gioco dei bambini, però, c’è un’altra complicazione: tutto è dal principio sempre già “vivo” e, di conseguenza, degno di rispetto: dall’arcobaleno alle posate d’argento, dai robot alle bambole di pezza. Quella del bambino insomma (e forse chi si accinge al gioco teatrale è sempre un poco anche un bambino) è una posizione “multiculturalista”, basata sul principio che tutti gli umani, anzi, tutti gli esseri, meritano uguale rispetto. Questa sorta di animismo elementare che immagina legami solidali tra l’uomo e il mondo circostante – inclusi animali, vegetali, minerali, macchine e manufatti – finisce in un modo o nell’altro per proiettare la sua luce fantastica sul mondo vero, il suo presente, ma anche il suo passato, per rispondere alla domanda, perché è un processo che fa capo a meccanismi ancestrali. La fede incondizionata del teatro nel ruolo attivo dell’avatar, dunque, è in un certo senso anche una sorta di fede animista nei corpi come nelle cose inerti e nel loro potere misterioso di diventare improvvisamente vive nel presente. Il presente è il tempo del teatro, eppure questo è un presente capace di riattivare il passato, ciò che è ormai trascorso. Il teatro è il regno dove le cose vive e le cose morte stringono relazioni potentissime tra di loro.



Pensa alla parola daimon. Il tuo ibrido può accompagnarci nel futuro?



Il daimon è un essere intermedio (fra il divino e l’umano). Impedimento o tramite? Entrambe le cose, da diverse prospettive. In teatro, potremmo dire, mezzo e fine a volte coincidono. Da oltre dieci anni, con la mia compagnia, sperimento un dispositivo che si chiama «eterodirezione». Si tratta di un processo di scrittura live in cui il corpo dell’attore è una strana penna vigile che comunica a chi scrive le sue intenzioni attraverso sottili indicazioni di senso e sentimento. In parole povere l’attore va in scena senza la memoria di un testo e di una partitura gestuale, ma riceve delle indicazioni live attraverso degli ear-monitor parlanti. Le indicazioni possono essere somministrate da due persone fisiche (solitamente altri attori) in consolle, oppure far parte di una partitura preregistrata. La parte verbale può essere portata da una voce “neutra” (la voce di un altro attore o dello stesso attore eterodiretto) oppure può essere fortemente caratterizzata, cioè appartenere a un personaggio che l’attore eterodiretto va a “improntare”. L’impronta è il processo attraverso cui la voce di un personaggio si “imprime” sulla voce dell’attore, lasciando un’evidente traccia. È un gioco che innesca anche dei meccanismi di riconoscibilità dei personaggi evocati naturalmente e ha sempre a che fare con una mescolanza tra sé e un altro, con una forma di controllato abbandono. C’è una parte scura, densa, d’ombra che viene trattenuta, e un’altra di luce, cristallina, diafana, sottilissima che viene liberata. C’è sempre un corpo ospite e c’è anche un essere nuovo, ibrido, che spinge per nascere, e questa idea di nascita si collega in qualche modo anche alla tua domanda sul futuro.


Ho un’amica carissima che, un giorno, mi raccontò in dettaglio la sua esperienza di maternità surrogata. Aveva chiesto a un’altra donna di portare in grembo le sue figlie. Mi disse che quella donna le «aveva lasciate passare attraverso di sé, verso la vita», ma aveva al contempo fatto passare anche lei, riconsegnandola a una specie di «second life a colori. Portare un figlio senza vederlo, vedere due figlie senza averle portate: mi sono vista di spalle che partivo, mi sono vista partorire».
Quando penso alla parola avatar, al potere generativo che può avere, in arte e nella vita, non posso fare a meno di risentire queste sue parole.
C’è una crittografia, il gioco enigmistico che gioca sugli slittamenti di sensi o di suoni di semplici sintagmi, che amo molto. L’esposto è: immagino di andare. La soluzione: parto di fantasia. Potrei rispondere che, in teatro, è proprio questo il senso del futuro a cui ci accompagnano i corpi ibridi, metà persona e metà personaggio, con tutti quanti i loro avatar, quelli più volatili e quelli che invece durano una vita intera.

 

[Immagine: Fanny & Alexander, Oz].

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