di Gianfranco Pellegrino

 

Un aspetto minore ma molto discusso della reazione all’attacco russo all’Ucraina riguarda l’opportunità o meno di schierarsi, o di chiedere di schierarsi, a chi abbia una qualche visibilità pubblica e abbia rapporti – di cittadinanza, principalmente – con la Russia. I casi del direttore d’orchestra Valerij Gergiev e del soprano Anna Netrebko sono gli esempi più evidenti. A Gergiev è stato chiesto di esprimere pubblicamente il suo dissenso nei confronti del regime di Putin e il suo silenzio è stato accolto revocandogli l’incarico come direttore alla Scala. La soprano Netrebko si è dichiarata contraria al regime di Putin, ma ha sostenuto che al suo connazionale non si doveva chiedere di pronunciarsi e di schierarsi contro il proprio paese. Molti hanno collegato questi episodi con altri, dove a cittadini russi o di origine russa sono stati rescissi contratti, o sono state ritirate offerte, fino al recente episodio dello scrittore Paolo Nori, il cui corso su Dostoevsky è stato prima annullato, con l’idea di evitare polemiche, all’università Bicocca di Milano (nel frattempo, l’ateneo è tornato sui suoi passi, anche se Nori ha deciso di annullare comunque il suo corso).

Sembra evidente che questi eventi hanno caratteristiche diverse, che dovrebbero portare a giudizi differenti. Dostoevsky non è un cittadino della Russia attuale e metterne al bando le opere e la memoria sarebbe ovviamente assurdo. Se anche considerassimo responsabili delle malefatte del regime di Putin tutti i cittadini della Russia, anche quelli che vivono all’estero, ciò non varrebbe per i cittadini morti, e da lungo tempo. Così come sarebbe contraddittorio, oltre che assurdo, limitare la libertà di pensiero per combattere un regime le cui principali caratteristiche sono la censura e l’autoritarismo. E si potrebbe anche pensare che il valore dei prodotti artistici prescinda del tutto dalle idee politiche eventuali o presunte dei loro autori o autrici. Céline era antisemita, notoriamente, ma continuiamo a leggerlo.

Detto questo, ci sono altri aspetti degli episodi che hanno avuto come protagonisti Gergiev e Netrebko che andrebbero però considerati. Chiedere a figure molto note, che hanno un capitale di visibilità da spendere, di pronunciarsi pro e contro un regime dittatoriale con cui sono connessi da relazioni di cittadinanza è improprio? Se questi pronunciamenti possono essere un’arma contro il regime, quest’arma non si dovrebbe usare né sollecitare mai? E ove queste figure decidano di non spendere quel capitale di visibilità – rivendicando il diritto al silenzio – o manifestino opinioni fiancheggiatrici sarebbe immorale esporli a blande ripercussioni, come la rescissione di un contratto e quel minimo di gogna mediatica inevitabile in casi del genere? Non si tratta di domande retoriche. Le cose non sono affatto chiare.

Ma una mossa da fare, se si vuole considerare l’etica del fiancheggiamento o del dissenso, è inquadrare questi episodi in un quadro più largo. All’invasione dell’Ucraina l’Unione Europea, gli Stati suoi membri e gli Stati Uniti hanno reagito innanzitutto con parole pubbliche di condanna e poi con sanzioni economiche, spesso dirette a danneggiare singoli individui – i famosi oligarchi russi. Poi, si è arrivati anche alla decisione di vendere armi all’esercito e alla resistenza ucraina. Tutto questo si ferma prima dell’intervento diretto, ma deriva dalla premessa che potrebbe portare a intervenire: l’invasione dell’Ucraina è politicamente (e forse anche legalmente) ingiusta, perché lede la sovranità e l’indipendenza di uno Stato sovrano e di una nazione, che sono stabiliti da principi di etica delle relazioni internazionale e forse dal diritto internazionale. Alla luce di questa premessa, riprovazione verbale, sanzioni e trasferimento di armi sono mezzi forse meno pericolosi o drastici dell’intervento armato, mezzi che sperabilmente dovrebbero permettere di ottenere gli stessi risultati che giustificherebbero, in altre condizioni, l’intervento – cioè la cessazione della guerra o anche il crollo del regime russo. L’idea, o meglio la scommessa, che motivano la condanna pubblica da parte dei governi, le sanzioni e gli aiuti militari hanno la forma seguente: questi mezzi possono creare certi effetti – il venir meno del sostegno a Putin, il crollo del morale delle truppe russe, la maggior capacità della resistenza ucraina di fronteggiare l’invasore – e questi effetti possono contribuire a fermare la guerra. Lasciamo da parte (per adesso) la vendita o il trasferimento di armi. Le sanzioni sono giustificate perché dovrebbero indebolire il sostegno a Putin, colpendo nel portafoglio gli oligarchi. E infatti i pronunciamenti di costoro, che piano piano cominciano timidamente a schierarsi contro Putin, vengono riportati con grande eco. Detto ancora più precisamente: stiamo sottraendo soldi ed altri benefici economici a queste persone per indurle a pronunciarsi contro Putin, e magari a far cessare altre forme di sostegno, e nella speranza che questo eroda il sostegno popolare e il potere del regime.

Che differenza c’è, allora, fra le sanzioni e quello che è accaduto a Gergiev? Perché la pressione per così dire ‘morale’, che si esplica con concretissimi attacchi al patrimonio, sarebbe lecita nel caso degli oligarchi, e sarebbe immorale e lesiva del libero pensiero e della legittima lealtà alla propria terra d’origine nel caso di Gergiev? Non mi pare ci siano differenze rilevanti. Certo, Gergiev non è paragonabile, per ricchezza, agli oligarchi. Ma ha, come molti altri, un patrimonio da spendere, che è quello della sua visibilità. Spronarlo, anche con mezzi spicci, a spenderlo, o infliggergli perdite economiche se non lo fa non è differente dalla pressione esercitata con le sanzioni, o con questo tipo di sanzioni. Se sono giustificate le sanzioni è giustificato anche questo genere di censura.

Si potrebbe dire, però, che le sanzioni non sono giustificate. Questa conclusione si può derivare da due premesse. Si potrebbe dire che le sanzioni non siano giustificate perché inefficaci o costose (perché lesive di diritti inviolabili, come la libertà di opinione o la proprietà privata), e quindi serve qualcosa di più forte, come per esempio il trasferimento di armi oppure addirittura l’intervento. Oppure si potrebbe affermare che le sanzioni non siano giustificate perché non è così chiaro che l’invasione di Putin sia ingiusta, o sia talmente ingiusta da giustificare reazioni di questo genere. Non considero quest’ultima ipotesi, perché la ritengo falsa.

Ma naturalmente sostenere che le sanzioni non sono efficaci, o sono lesive di diritti, e preferire l’intervento armato diretto non è una posizione incontroversa, per almeno due motivi. Innanzitutto, perché l’intervento armato potrebbe essere pericolosissimo, e accendere altre guerre, invece che spegnere quella attuale – il che lo renderebbe ancora più inefficace delle sanzioni, in un certo senso (inefficace perché controproducente). In secondo luogo, perché se le sanzioni violano diritti l’intervento viola gli stessi diritti e molti altri ancora. Quindi, le sanzioni sembrano una strada abbastanza obbligata, almeno in questo momento.

Ma, come detto, alle sanzioni si è aggiunto il trasferimento di armi. E molti hanno sostenuto che questo non sia lecito, perché è una forma di fiancheggiamento inammissibile, e non è poi molto diverso rispetto all’intervento armato. Ci sarebbe da chiedersi se chi difende queste idee sia d’accordo con le sanzioni. Si ricordi che queste ultime derivano dalla premessa secondo cui l’invasione russa è politicamente e forse anche giuridicamente ingiusta. Ora, se le cose stanno così, le sanzioni sono giustificate solo in quanto mezzo più adatto – cioè meno pericoloso – dell’intervento armato diretto. Non si può dire che le sanzioni siano il mezzo migliore in qualsiasi condizione. È evidente che ci sono scenari (auspicabilmente lontani e improbabili) che renderebbero l’intervento armato l’unico mezzo per rettificare il torto commesso da Putin.

Ma, se le cose stanno così, perché trasferire armi non sarebbe, in questo contesto, un altro dei mezzi da considerare? Forse perché si tratta di un mezzo violento? Ma anche le sanzioni sono una forma di violenza, e alla violenza preludono. Perché si tratta di un mezzo pericoloso? Può darsi, ma non è chiaro che vendere armi sia più pericoloso di altre azioni che si potrebbero compiere oggi, e comunque rendere la resistenza ucraina più forte può servire a indurre i russi a desistere, o almeno può servire a questo fine con la stessa probabilità di quanto non lo sia minare il sostegno degli oligarchi o del popolo al regime. Insomma, se si crede che l’invasione russa sia illegittima e ingiusta, fermarsi alle sanzioni, o limitare le sanzioni e la pressione morale solo agli oligarchi, non è la scelta più coerente – anche se salva la purezza e l’innocenza di chi lo propone. C’è da sperare, tuttavia, che questa scelta un po’ incoerente sia quella che ci è ancora concessa, e che mezzi più estremi non siano necessari.

9 thoughts on “Schierarsi e venire schierati. Etica delle sanzioni, del fiancheggiamento e del dissenso

  1. Dov’erano le sanzioni quando gli USA hanno attaccato senza motivo (… Ops dimenticavo la fialetta sventolata all’ONU!) l’Iraq? E le altre sanzioni? Quelle contro i regimi fantoccio degli USA in America Latina? Eppure c’erano i desaparecidos (30.000 solo in Cile) che non sono meno morti degli altri. E le controsanzioni agli USA per 60 anni di sanzioni ingiustificate a Cuba? Potrei continuare ancora, ma non vi annoio. Il punto è che le superpotenze hanno delle linee rosse, se le superi reagiscono. Punto. Quinti sono indignato assai per l’aggressione all’Ukraina, bene le sanzioni economiche, male quelle intellettuali e un po’ meno di doppiopesismo, non vi pare?

  2. Non ho certezze, come molti, però mi pare che il problema debba essere posto nei termini di quale sia l’obiettivo che ci si propone di raggiungere: il ritiro incondizionato della Russia? È impensabile allo stato attuale e nel breve periodo. Allora forse lo scopo di ogni azione dovrebbe essere arrivare a una pace che risparmi ulteriori morti, ossia obbligare a trattare. Gli strumenti messi in essere (sanzioni economiche, messa al bando di oligarchi, di intellettuali, di atleti, di scienziati di qualunque cittadino russo che non si schieri ecc.) potrebbero portare a un irrigidimento anche del popolo russo, un accentuarsi del nazionalismo filo Putin anziché un suo indebolimento (è un rischio che temo reale: quando ci si sente attaccati spesso ci si arrocca). Più che giungere a una trattativa si rischia di finire in una strada senza uscita. Per trattare occorre concedere, le sanzioni economiche indeboliscono Putin e possono indurre a sedersi attorno a un tavolo (sapendo però che qualcosa occorre concedergli). Ma estendere le forme punitive a ogni campo del vivere sociale comporta entrare in una dimensione simbolica ed emotiva che può essere controproducente. Il tema, quindi, non è se sia giusto che personalità in vista dell’arte, dello sport, della scienza siano messi al bando (salvo abiura), ma se è opportuno. Suonerà un po’ cinica come argomentazione, ma a me pare che quel che manca nella narrazione dominante sia un po’ di realismo e che domini al contrario una retorica da interventisti versus neutralisti

  3. A Adriano Sofri
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    «se Zelensky decidesse sinceramente di sacrificarsi per la salvezza del suo paese e si consegnasse ai russi di Putin in cambio del cessate il fuoco, la conseguenza non sarebbe altrettanto caotica e disastrosa e penosa?» (Sofri)
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    Certo, perché ormai le macchine di guerra contrapposte si sono messe in moto e siamo già nella tragedia (che forse doveva – non so se si poteva – evitare prima, quando era ancora – diciamo – dramma). Ora le scelte sono obbligate e forse una peggio dell’altra.
    Quindi, posso capire (e in parte condividere) fino ad un certo punto il sarcasmo nei confronti del pacifismo che «sonnecchia, o dorme del tutto, ma si ridesta con una sincera passione per pronunciare ogni volta di nuovo il suo No alla guerra e per argomentare la necessità di prevenirla» .
    Altrettanto sarcasmo, però, andrebbe riservato a lei che ha (in altro post) accostato Zelensky ad Allende ed ora ancora insiste ad accostare o forse ad equiparare lo slogan “Armi all’Ucraina” con quello di “Armi al MIR” delle nostre gioventù. Come se fossimo rimasti inchiodati a un tempo che non esiste più.
    Io tempo che « la tenacia di quella ribellione di studenti, di giovani e di popolo» in Ucraina, sia «pur mista alla partecipazione violenta di forze ultranazionaliste» sia politicamente cieca e cieca è stata avviata (da Zelensky e altri attori che non so intravvedere) al macello. Come dicono quasi tutti gli esperiti militari, Cosa non certo irrilevante se i rapporti di forza in uno scontro vanno tenuti presente.
    Le armi non basteranno come non basteranno più le sue o le mie preghiere (o quelle dei pacifisti).
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    P.s.
    Avremmo dovuto da tempo riuscire a pensare a una solidarietà militante in altri modi. Non ci siamo riusciti e siamo rimasti pacifisti o interventisti più o meno romantici.
    Ricorda “OTTO MOTIVI CONTRO LA GUERRA” di Franco Fortini?
    Lì, di fronte alla Guerra del Golfo, s’era avviato un ripensamento della “nostra” tradizione. S’è perso per strada:
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    «Chi avesse voglia di ricordare che cent’anni fa i socialisti cantavano: “Guerra al regno della guerra / morte al regno della morte”, mentre le sinistre italiane (e da mezzo secolo quelle sovietiche) hanno dimenticato che nella seconda strofa dell’Internazionale sta scritto che: Se codesti cannibali si ostinano / a far di noi degli eroi/ presto sapranno che le nostre pallottole / sono per i nostri stessi generali), commetterebbe un errore. L’esperienza del secolo prova che la trasformazione leniniana della guerra imperialista in guerra civile è ipotizzabile solo al di sotto di un certo livello di tecnologia degli armamenti, fin tanto che le due parti in conflitto non possono o non vogliono farne uso. Ancora due o tre decenni orsono si poteva pensare al valore esemplare dei “fuochi”, accesi e spenti in America latina o destinati a eternizzarsi come nelle guerriglie centroamericane o africane. Che alla base della guerra degli eserciti si opponesse quella dei popoli, secondo la parola di Mao e la pratica, fino a una certa data, del Vietnam. che però ha vinto solo quando ha ricevuto un certo tipo di armamento. Possesso e uso di strumenti tecnologicamente complessi implicano, in chi li guida e li usa, una modificazione analoga a quella che ha portato dall’operaio della “catena” a quello attuale, giapponese o italiano. Secondo il sarcasmo di Brecht, ai tempi di Hitler, il difetto del carrista e del meccanico era quello di poter pensare. Oggi quel “pensare-contro”, i generali odierni lo hanno eliminato proprio accrescendo la quota di “pensiero” applicato all’impiego della tecnologia militare».
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    ( in “Disobbedienze II”, pagg. 128)

    Conversazione con Adriano Sofri
    9 MARZO 2022

    Armi al Mir

    Certo: preghiamo tutti insieme, ciascuno come sa, che si cessi il fuoco e si cominci un vero negoziato.
    Parlo di me, scusate. Di fronte a quelle che si chiamano pigramente o ingordamente guerre ho avuto a lungo un parziale riparo: andarci e capire meglio, capire diversamente, e soprattutto fare amicizie. Il giornalismo, cioè, più mediocremente, scrivere per i giornali, era il modo per concedermi quel privilegio, che oggi mi manca penosamente. La guerra cosiddetta porta con sé un’inevitabile esasperazione dei pensieri e dei sentimenti, e la distanza messa tra il proprio pezzo di mondo e il “teatro di guerra” (bella formula, svelatrice, se solo si riuscisse a pensarla assieme al suo complemento, il “teatro di pace”), se contribuisce all’esasperazione, insieme la attenua. In un teatro di cantina è difficile simpatizzare per un teatro del piano nobile e viceversa. I dissensi che discendono da partiti presi e ottusamente conservati sono inutilmente irritanti, e meritano d’essere ignorati. Altro è il caso per i dissensi derivati dal luogo in cui succede di trovarsi: chi sta dentro “la guerra” e chi ne sta fuori – non importa nemmeno quanto fuori, alla distanza dello Yemen o alla portata di schioppo della Bosnia e di Kiev, comunque fuori. Il pacifismo, un suo modo d’essere, vive di questa distanza: sonnecchia, o dorme del tutto, ma si ridesta con una sincera passione per pronunciare ogni volta di nuovo il suo No alla guerra e per argomentare la necessità di prevenirla: “Combattere le guerre prima che scoppino”, come intitola ieri sul Manifesto Luciana Castellina (cito solo un nome cui sono affezionato). Ma la guerra è scoppiata – è l’obiezione stupita di chi si trovi in quel momento nello Yemen o a Sarajevo o a Charkiv. “Il pacifismo non può essere più intermittente”, dice ancora il suo intervento. Non è solo intermittenza, è, o rischia di essere, una vera inversione: sommersa in tempo di “pace” (chiamiamo così i periodi in cui il frastuono delle armi arriva più attutito o affatto silenziato) la mobilitazione pacifista si riaccende quando il rumore e le vittime della guerra ci arrivano addosso, e il Che fare del destino degli umani sulla terra diventa angosciosamente il Che fare di questo rumore, di questi aggressori e di queste vittime.
    Questa divergenza trova subito appigli particolari sopra i quali inasprirsi ed escludersi. Così per la questione delle armi all’Ucraina. Ho sul punto una memoria pregiudicata, risale al golpe cileno del 1973, allora, aderendo a un nostro impulso e alla richiesta dei militanti del Mir di cui eravamo diventati intimi compagni e amici, indicemmo una sottoscrizione intitolata esplicitamente “Armi al Mir”, che ebbe una risonanza e un effetto pratico di gran lunga eccedenti il nostro seguito. Ci avvicinammo ai 100 milioni di lire, qualcosa, se non sbaglio, come 750 mila euro di oggi. (Quei nostri giovani compagni e amici fecero presto a morire, e Pinochet è morto di vecchiaia, nel suo letto). Oggi: ci si oppone, chi lo fa, a che siano i governi europei, il nostro governo, ad aiutare in armi e munizioni la difesa ucraina? O si dichiara che non lo si farebbe, ciascuno, per ragioni morali prima che pratiche? Perché “le guerre non si combattono con le guerre”, dando un solo nome all’aggressione e alla difesa, all’assedio e alla resistenza? Il presidente Zelensky continua a invocare una difesa del cielo ucraino che sa impossibile, per ricordare che era stata promessa, e per avvertire che la fine, quando verrà, non scalfirà il valore della resistenza. Nella posizione in cui è, Zelensky può in ogni momento fare un passo falso. Sono in tanti, troppi, ad augurarselo, ad augurarglielo, non ci piacciono esempi troppo solenni. Ci piace, in un empito supposto gandhiano o evangelico o kantiano, raccomandargli o intimargli la resa, per il bene del suo popolo, che distinguiamo meglio di lui – di Zelensky e del suo popolo. O confidiamo, più modestamente, nel nostro realismo. Ci è passato per la mente che se Zelensky stesse attraversando la sua tempesta del dubbio, e fosse tentato di arrendersi, e decidesse di farlo per non sacrificare altre vite di fronte all’evidente sproporzione di forze fra la Russia e il suo paese, una gran parte del suo paese lo maledirebbe come un disertore o un traditore e sceglierebbe, in una condizione di caos, di demoralizzazione e di divisione, di continuare a battersi fino alla morte? O pensiamo che Zelensky possa organizzare un referendum sul tema? Abbiamo visto che cosa furono capaci di fare gli ucraini – quella volta contro altri ucraini, il governo e il parlamento infeudati alla Russia di Putin, polizia, truppe speciali e delinquenti arruolati al loro soldo, nella Kiev di Maidan nel 2013-2014. O crediamo davvero che la tenacia di quella ribellione di studenti, di giovani e di popolo, pur mista alla partecipazione violenta di forze ultranazionaliste e antisemite, fosse il frutto della cospirazione occidentale? E che se Zelensky decidesse sinceramente di sacrificarsi per la salvezza del suo paese e si consegnasse ai russi di Putin in cambio del cessate il fuoco, la conseguenza non sarebbe altrettanto caotica e disastrosa e penosa?
    (Immaginate per un momento – è assurdo, s’intende – che Allende, il buffo Allende con l’elmetto il giubbotto e il mitra di Fidel, avesse avuto qualche minuto in più, il tempo di invocare l’aiuto del mondo contro il golpe dei generali felloni e della Cia).
    Ecco, e ora preghiamo tutti insieme, ciascuno come sa, che si cessi il fuoco e si cominci un vero negoziato.

  4. Articolo veramente modesto. Contiene una serie di imprecisioni inspiegabili, anche in base alla tesi che si vuole sostenere (ad esempio, Netrebko si è espressa contro la guerra, non esplicitamente contro il governo di Putin, cosa che le è stata appunto rinfacciata), ma ancora peggio delle semplificazioni e incoerenze logiche che ne inficiano l’argomentazione. Al netto del ridicolo di dover solo discutere seriamente il fatto che i russi defunti (come Dostoevskij) non sono responsabili per Putin (e ci mancherebbe pure!), mettere sullo stesso piano sanzioni ad oligarchi, che sono parte del potere stesso putiniano, con quelle a cittadini russi (artisti o altro) che non si esprimono pubblicamente (ma talvolta anche quando lo fanno) è del tutto immotivato: i primi sono in qualche modo corresponsabili della gestione politica della Russia e dunque capaci di influenzarne il regime, i secondi invece non lo sono necessariamente e potrebbero al contrario subire loro, oltre alle “sanzioni” di cui parla l’autore, ben più pesanti repressioni in patria (si pensi al fotografo Gronskij, escluso dal Festival di Fotografia di Reggio Emilia nel momento stesso in cui si trovava in carcere a Mosca per aver partecipato alle proteste contro la guerra), probabilmente senza che l’opinione pubblica russa ne venga a sapere qualcosa (se non in chiave di “occidentali che perseguono i russi innocenti”, con effetti di propaganda favorevoli a Putin e alla sua retorica dell’accerchiamento alla Russia). Altrettanto semplicistico è equiparare logicamente sanzioni economiche alla Russia e consegna di armi all’Ucraina: in una situazione di conflitto sono evidentemente entrambe scelte possibili e legittime, ma avendo scopi del tutto diversi (le prime servono a spingere la Russia a un cambio di politica o di regime, la seconda a rafforzare militarmente la resistenza ucraina) una non consegue automaticamente all’altra e chi fosse contrario ad esempio alla consegna delle armi, non necessariamente lo sarebbe alle sanzioni o addirittura sarebbe favorevole alla guerra russa. Insomma, molta confusione che poco aiuta a ragionare sulla tragedia in atto.

  5. Sottovoce, perché non sono un filososo come Pellegrino e ragiono alla buona. Faccio astrazione da tutto, da tutte le implicazioni politiche e geopolitiche, dai calcoli su imperi e sfere d’influenza, sui rapporti Nato-Russia. Prenso solo e soltanto l’invasione dell’Ucraina, come se avvenisse su un piano astratto. Io penso che le sanzioni economiche siano giuste. Non so se lo sia inviare armi, ma diciamo che lo è, perché l’invasione è sbagliata e dobbiamo finanziare dei partigiani.
    Come si vede, non faccio distinzioni speciose su questo. Pure, la mia coscienza continua a provare ripugnanza per quello che è successo a Gergiev, che meritava lo stesso afflato che abbiamo mostrato per un morto, per quanto grande, Dostoevskij.
    Provo ripugnanza perché io inserirei una dicotomia dove Pellegrino appena accenna a un vel vel: sanzionare Gergiev perché si è schierato esplicitamente con Putin sarebbe, forse, stato comprensibile e accettabile. Gergiev però ha taciuto. In silentio non fit interpretatio. A meno di non applicare al suo silenzio la logica di pressione di cui parla Pellegrino, che però significa riconoscere che siamo usciti dalla sfera del diritto in tempo di pace e siamo entrati in quella del diritto di guerra.
    Non lo puniamo per un’azione, perché è un sostenitore attivo di Putin – legittimo -, nemmeno per un’opinione -più problematico, se ci sforziamo di continuare a ragionare liberalmente. Lo puniamo perché ha taciuto. Perché ha taciuto? Possiamo installarci nella sua coscienza e imporgli un certo contenuto? Così gli facciamo il processo alle intenzioni e anche una certa violenza su una sfera che è sua e solo sua. Magari ha taciuto perché in cuor suo è antiputiniano ma tornerà in patria e ha paura per sé o per qualcuno a lui caro; oppure è semplicemente un cordardo. Dobbiamo punirlo? Io sento che non è giusto.
    Qualche giorno fa leggevo una persona che su un social richiamava il coraggio di dire no al fascismo dei ben noti 12 professori. Ecco, merito al loro no. Ma quale fosse il contenuto del sì degli altri, (in quelle disperate condizioni, ricordiamolo), io non lo so e non me la sento di giudicarlo. Anche se me la sentissi di giudicarlo, certo non lo sanzionerei formalmente. La libertà di dire no va riconosciuta. L’obbligo di dire no, mi pare qualcosa che cozza profondamente con l’assunto dell’autodeterminazione personale e ci porta, appunto, in tutt’altra logica.
    Ma, come dicevo, ho molti meno strumenti di Pellegrino, per cui mi rimetto alla sua risposta. Mi dica se ho detto sciocchezze.

  6. Grazie a Domenico Gallo (www.costituenteterra.it) ho appreso che in Italia l’invio di armi a un paese belligerante è vietato (Legge sulla neutralità attualmente vigente: Allegato B al Regio Decreto 1415 del 1938, art. 8). Sarebbe importante prenderne atto.

  7. Rispondo al commento di Lo Vetere, che ringrazio molto, e che coglie un punto essenziale di quel che cercavo di dire. Lo Vetere distingue molto efficacemente fra schierarsi esplicitamente e tacere e si chiede se dobbiamo reagire a chi tace, o se non ci sia la libertà di tacere. Implicitamente o forse in maniera titubante ascrive questa libertà anche all’esercizio del libero pensiero. E poi usa più volte il verbo ‘punire’.
    Quello che cercavo di dire, e che ora mi è più chiaro grazie alla riflessione che Lo Vetere mi ha indotto a fare, è questo. Le sanzioni, come il trasferimento di armi, sono mezzi di pressione indiretti. Nella logica della teoria della guerra giusta, come nella dottrina della Responsibility to protect, o in certe interpretazioni del diritto internazionale, i crimini di guerra si puniscono, per l’appunto, con azioni di polizia internazionale, che poi sono interventi armati veri e propri. Le sanzioni e l’aiuto ai resistenti non sono azioni di polizia internazionale, sono forme di pressione per indurre certuni a uscire dal silenzio, appunto. La logica è: ti faccio stare scomodo, bloccandoti conti all’estero, oppure facendo aumentare i prezzi di certi beni, ti dico con chiarezza che lo faccio perché anche con la tua acquiescenza sostieni un regime ingiusto, e spero che così tu non lo sostenga più, anche rischiando in prima persona. La mia domanda è: questa pressione è lecita? Se è lecita, è lecito anche sottoporre Gergiev a gogna mediatica e rescindere un contratto. Cose che sono ben lontane da punizioni vere e proprie, come sono per esempio quelle che in certi ordinamenti puniscono l’hate speech, o, credo, in Italia l’apologia del fascismo. Sono pressioni, appunto. Se invece si ritiene che Gergiev è libero di tacere, e di sostenere un regime ingiusto tacendo, anche per paura, non vedo perché gli oligarchi debbano essere meno liberi. Quindi io non sto dicendo che abbiamo fatto bene a fare pressioni su Gergiev. -Dico che non possiamo distinguere sanzioni e altri mezzi di pressione. In un altro commento si distingue fra il contributo degli oligarchi al regime di Putin e quello di Gergiev e altri cittadini. La distinzione è ovvia e accettabile, ma è di grado, non di specie. I professori che hanno detto no al fascismo sono degli eroi. Ma questo non significa che quelli che hanno detto di sì, tutto sommato siano scusabili perché non potevano certo fare tutti gli eroi. Le nostre scelte morali, in certi frangenti, possono costarci fatica e pericolo. Ciò rende comprensibili i nostri errori e le nostre debolezze. Ma non li rende scusabili, né attenua la richieste della moralità. O almeno così a me pare. Grazie ancora per i commenti.

  8. A me sembra che le sanzioni economiche non pretendano da chi ne è colpito una conversione. Credo aspirino a modificare le condizioni delle scelte, l’insieme delle opportunità a disposizione degli attori, non le loro motivazioni. La richiesta di scherarsi fa altro. E in più è ad personam. E’ ravvicinata, e questo cambia le cose. Anche a fanno sentire a disagio

  9. Paola, grazie per il commento. Le sanzioni economiche modificano le opportunità e le scelte, certo. Puoi comprare meno cose o avere meno soldi. Ma perché questo serve? Perché la scomodità di un set di opzioni più ristretto ti induca a far venir meno il tuo sostegno, attivo o passivo, al regime. E ti induca a farlo per mutata convinzione, o per convenienza. Non ci interessano le motivazioni profonde, c’interessa una manifestazione di un milione di persone a Mosca, anche un milione di ipocriti va bene. Da questo punto di vista, non ci interessano le motivazioni profonde di Gergiev. C’interessa che usi un capitale che ha, la sua visibilità, per un certo fine. Esattamente come c’interessa che l’oligarca non usi il capitale monetario che ha per sostenere Putin. Questa è l’analogia. Grazie ancora.

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