di Rolando Vitali

 

Nel commentare la spaventosa aggressione militare all’Ucraina, più di un opinionista si è lasciato sfuggire che forse la storia non è finita, come avevamo creduto nei ruggenti anni ‘90. L’attacco di Putin, si dice, è un fantasma del Novecento che ritorna. Quello che a questo punto meriterebbe di essere chiamato il “secolo lungo”, con il suo carico di orrori, conflitti, guerre, non sarebbe terminato con la caduta del Muro di Berlino, ma continuerebbe a vivere nella figura del pallido autocrate dell’Est e nei suoi freddi occhi da sgherro sovietico. Deridere oggi Francis Fukujama quando sosteneva che, con la caduta del Muro di Berlino, la democrazia liberale di mercato avesse ormai trionfato e quindi la storia raggiunto la sua destinazione finale, appare sin troppo facile. Ma forse, nel far ciò, consideriamo il suo pensiero con eccessiva leggerezza e faciloneria. Il punto, per Fukujama, non è mai stato che la storia dopo il 1989 avesse raggiunto la sua fine, quanto che da allora essa possedesse un fine, e che questo fine fosse la società liberale di mercato: “la ‘fine’ della storia indicava lo scopo o l’obiettivo, più che non la sua conclusione”[1]. Possiamo davvero dire che l’idea di una storia inesorabilmente orientata verso l’installazione globale di democrazie liberali sul modello occidentale sia divenuta obsoleta? Difficile da sostenere. Anzi, l’idea di un mondo diviso in buoni e cattivi, in regni dei diritti e delle libertà e patrie dell’autocrazia e della repressione, sembra ancora determinare il nostro “orizzonte d’aspettativa”. In questo, sia chiaro, non c’è niente di male: semplicemente può accadere che la divisione da astratta divenga concreta. Molto concreta, come in questa guerra ad esempio. Così come può accadere che queste lenti non ci facciano capire bene verso che cosa stiamo andando incontro.

 

L’orrendo attacco di Putin all’Ucraina, in questo contesto, appare come il male assoluto: l’atto autocratico e violento di un dittatore sanguinario. E giustamente, beninteso: la guerra, qualunque guerra, è un baratro assurdo e angosciante che cancella ogni umanità, e questa in particolare rappresenta un crimine ingiustificabile. Costituiscono quindi un segnale di salda salute morale l’indignazione, lo sconcerto, la rabbia collettiva che il suo innesco ha scatenato nell’opinione pubblica europea. Ma, come tutte le emozioni collettive, anche queste si prestano a ricevere un indirizzo politico preciso: e non è detto che sia quello della pacificazione. Non è detto, infatti, che “le magnifiche sorti, e progressive” dell’Occidente non ci portino, ancora una volta, alla guerra totale. Magari sventolando una bandiera della pace.

 

Lo scorso 27 febbraio il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha tenuto un discorso che rappresenta una vera e propria cesura storica: nel bilancio della federazione verranno stanziati 100 miliardi aggiuntivi per la difesa, facendo passare la spesa tedesca in armamenti dal 1,49% a più del 2% sul Pil.  Contestualmente è stato programmato un rinnovamento radicale dell’antiquata flotta aerea con nuovi Eurofighter ed F-35, capaci di trasportare testate nucleari. Inoltre, una volta per tutte, è stata assicurata la disponibilità tedesca ad ospitare l’arsenale nucleare sul proprio territorio, così come quella ad utilizzare droni armati in operazioni militari[2]. Questioni fino a pochi giorni prima divisive per l’opinione pubblica tedesca (pensiamo al sacramento del pareggio di bilancio!) si sono risolte immediatamente, trovando il più largo consenso nell’arco parlamentare e popolare. Eccetto la Linke e l’AFD, il resto dei partiti ha votato compatto per il pacchetto di investimenti, mentre secondo un sondaggio[3] il 78% dei tedeschi approva la decisione. Degno di nota, è il fatto che, nel chiudere il proprio discorso, Scholz abbia tenuto a ringraziare proprio le migliaia di cittadini e cittadine che in quella stessa giornata erano scese a manifestare per la pace.

 

Qualche giorno prima, a stretto giro dopo l’invasione russa, decine di migliaia di persone si radunavano a Bologna per chiedere la pace. Le fiaccole e i cori riempivano la piazza. La commozione era palpabile. Tutte le personalità politiche e culturali della città erano presenti. C’era anche Gianni Morandi, che ha improvvisato un concerto cantando C’era un ragazzo, accompagnato dalle voci dei manifestanti. Sul palco, ad un certo punto, hanno fatto arrivare un cartello: c’era scritto “Ukrainian people ask NATO to being [sic] their forces to Ukraine”.

C’è qualcosa che non torna, evidentemente. L’Europa è attraversata da partecipatissime manifestazioni pacifiste e contemporaneamente da una corsa al riarmo che trova poca o nessuna opposizione in quella stessa opinione pubblica. Gli appelli alla pace si sommano senza soluzione di continuità agli annunci dei governi che si preparano alla guerra e inviano armamenti al governo ucraino.

 

Cosa è successo? Come è diventato possibile che le manifestazioni “per la pace” siano diventate carburante per rilanciare la spesa e l’interventismo militare?

Ripercorrere nel dettaglio le cause della guerra e rimproverare all’opinione pubblica europea la sua cecità davanti ai numerosi segnali che lasciavano prevedere la crisi attuale (come la guerra che dal 2014 si combatte nel Donbass), sarebbe un esercizio inutile e ingrato. Ma la sensazione è che, in ogni caso, nelle cancellerie europee ci si aspettasse il precipitare degli eventi. Non solo per le chiare avvisaglie statunitensi prima dell’invasione, quanto anche per la rapidità con cui misure di portata epocale sono state imposte nel giro di una giornata. Come ha sottolineato Ursula Von der Leyen, “si è fatto di più per la difesa europea negli ultimi sei giorni, che negli ultimi vent’anni”. Comunque stiano le cose, un’ebrezza sembra attraversare l’Europa, la cui prontezza di risposta ha qualcosa di impressionante. Tutto il continente si muove compatto. Ma la domanda è “verso dove?”

 

Intanto anche noi siamo di fatto in guerra. La scorsa settimana il parlamento italiano ha predisposto l’invio di armamenti in Ucraina, derogando alla legge 185 del 1990 che vietava di esportare armi in contesti di guerra. Si tratta, secondo le prime ipotesi, di missili Stinger antiaerei, missili Spike anticarro, mitragliatrici Browing, mitragliatrici Mg e munizioni. Certo non siamo i soli. Insieme a noi anche Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno inviato supporto militare. Persino la Svezia e la Finlandia, paesi fuori dalla NATO, hanno annunciato che manderanno in Ucraina armi ed equipaggiamenti: armi anticarro, munizioni, giubbotti antiproiettile. Si tratta nei fatti di un intervento nel conflitto. Il generale Bartolini, non certamente un pacifista, ha sottolineato come l’invio di armi da parte dell’Occidente in Ucraina “sarebbe letto dalla Russia come un atto di guerra”[4]. Ma, fatto forse ancor più grave, quelle inviate sono un tipo di armi predisposte per una guerra di terra, da combattere strada per strada. Come ha scritto giustamente Ernesto Sferrazza, “l’invio massiccio di armi in Ucraina […] tende a trasformare i civili in combattenti”[5] e prelude ad una guerra completamente fuori dal perimetro della distinzione tra combattenti e non-combattenti[6]. È il preludio ad un massacro, come in Afghanistan del resto. L’esito più favorevole del loro impiego sarebbe infatti quello esplicitato da Hillary Clinton in un’intervista: trasformare l’Ucraina in un nuovo Afghanistan per i russi. “Ricordiamoci quando i russi invasero l’Afghanistan nel 1980” ha detto la Clinton: “anche se nessun paese entrò in guerra, c’erano però molti paesi che fornivano armi […] per combattere la Russia. Non è finita bene per i russi”[7]. Costringere la Russia in un conflitto prolungato ed estenuante, isolarla con ogni mezzo, sperando, perché no, che il malcontento popolare e delle élite economiche del paese rovesci Putin. L’obiettivo dell’invio di armi alla resistenza ucraina non è quello di una pacificazione rapida e immediata, ma quello di una sconfitta di Putin su tutta la linea. Una sconfitta però che verrebbe pagata dall’estensione della guerra in Ucraina a guerra totale: è necessario, infatti, che la guerra divenga “sempre più sanguinosa”, come ha chiarito Federico Fubini su La7 a Piazza Pulita.

 

Che questo sia l’orientamento delle cancellerie europee e statunitensi è dimostrato dall’inazione delle diplomazie nel sollecitare maggiore chiarezza da parte russa sulle condizioni per un accordo di pace. Condizioni ribadite lo scorso lunedì dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov: neutralità militare dell’Ucraina e riconoscimento della Crimea e delle repubbliche autonome di Donetsk e Lugansk[8]. Nessuno che, da parte occidentale, abbia posto la questione se davvero si debba rischiare la vita di milioni di civili e, potenzialmente, la proliferazione incontrollata di una guerra globale, per impedire a Putin di avere il riconoscimento su territori che nei fatti controlla già dal 2014, e per garantirgli la neutralità militare dell’Ucraina, ossia qualcosa che, ci piaccia o meno, viene ritenuto da parte russa un elemento di sicurezza irrinunciabile. Che il tentativo di assorbire l’Ucraina all’interno dello spazio militare euro-atlantico rappresentasse per la Russia una minaccia esistenziale, capace di scatenare risposte violente e potenzialmente distruttive, è un fatto noto da anni tra gli analisti di ogni schieramento. Non è un caso, infatti, che le tensioni, anche militari con la Russia, siano iniziate proprio dopo la conferenza di Bucarest ai primi di aprile del 2008, nella quale l’allora presidente George W. Bush garantì all’Ucraina e alla Georgia un futuro ingresso nella NATO attraverso l’attivazione del Membership Action Plan (MAP)[9]. Il 20 aprile iniziarono i primi conflitti con la Georgia che avrebbero portato in agosto alla guerra. In un lungo articolo per Foreign Affairs lo spiegava già nel 2014  John J. Mearsheimer, professore dell’Università di Chicago, chiarendo che, per forza di cose, “sono i russi, non l’Occidente, che alla fine decidono cosa conta come minaccia per loro”; e se loro “considerano inaccettabile l’espansione della NATO alla Georgia e all’Ucraina”, allora bisogna agire di conseguenza per evitare un’escalation del conflitto[10]. Anche Henry Kissinger, al quale non possono certamente essere imputate simpatie filorusse, ha sempre raccomandato che l’Ucraina mantenesse uno status di neutralità rispetto all’ingresso nella NATO[11]. Lo stesso Romano Prodi nel 2015 affermava che “isolare la Russia è un danno” e che “portare l’Ucraina nella NATO” produrrebbe “tensioni irreversibili”. Insomma, molti interpreti autorevoli e dal solido posizionamento euro-atlantico avevano messo in guardia davanti alla strategia che si stava percorrendo, prima in Georgia poi in Ucraina, di un loro ingresso nella Nato. Si dice adesso che l’ingresso nella NATO dell’Ucraina non solo non è all’ordine del giorno, ma probabilmente non avverrà mai in futuro: perché allora non provare a porre questa garanzia come base per un negoziato? Ma chi oggi provasse a farlo, sarebbe probabilmente accusato di essere “Putinversteher”, ossia fiancheggiatore del nemico[12].

 

La questione rilevante, in questo momento drammatico, non può comunque essere quella di risalire alle colpe originarie della situazione. Ciò nonostante, è bene essere consapevoli che, perlomeno sul piano politico, queste ultime non stanno esclusivamente da una parte sola del conflitto. Le lenti morali, che interpretano il mondo secondo la dicotomia colpevole/innocente, carnefice/vittima, non aiutano in questo caso, dal momento che le ragioni politiche vanno tenute in considerazione in ogni caso, giuste o sbagliate che siano. Specialmente se l’obiettivo è quello della pace.

 

Si tratta quindi di capire se vogliamo la pace nel nostro continente, o se vogliamo invece qualcosa di diverso, come la sconfitta di Putin. Certo, Putin è un autocrate violento e autoritario, ed è la Russia in questo momento ad attaccare. Allo stesso tempo, è difficile rimproverare il popolo ucraino quando si arma per difendere con ogni mezzo il proprio paese. Così come è difficile dare una risposta forte a chi accusa i pacifisti di attendismo e invoca azione e sostegno concreti – e quindi militari. Assumere una posizione coerente e ben fondata non è possibile, in una fase nella quale le notizie si accavallano e le posizioni si radicalizzano. Sarebbe però auspicabile che chi nelle opinioni pubbliche europee vuole la pace si opponesse con decisione all’invio di armamenti (o peggio di foreign fighters[13]) in sostegno alla resistenza militare. E questo non perché il popolo ucraino debba essere lasciato solo a vedersela con Putin, ma perché il conflitto non si trasformi in un pantano dal quale sia poi impossibile uscire. Se sotto il profilo strettamente militare i rifornimenti non cambiano nella sostanza i rapporti di forza complessivi tra le parti, prolungano però la guerra in una logica di lento logoramento, che radicalizza il conflitto ed espone ulteriormente la popolazione civile. Nell’attuale situazione non ha senso insistere sulla crudeltà e sulla disumanità di Putin, e ancor meno squalificarne le azioni come frutto di una mente disturbata. Quando Spinoza scriveva che “le azioni umane non vanno derise, compiante o detestate, ma comprese”, i suoi amici Jan e Cornelis de Witt erano stati da poco linciati dalla folla. È proprio davanti all’orrore e al disorientamento che si deve mantenere la lucidità per capire e cambiare la realtà. Se il nostro obiettivo è la pace, allora, bisognerebbe sfruttare ogni occasione per condurre entrambe le parti ad un accordo, riconoscendo le ragioni sul campo. Su questo l’Europa, se fosse un soggetto geopolitico, potrebbe esercitare la propria auctoritas. Viceversa pare si stia preparando ad una guerra di lungo periodo, tagliando ogni ponte diplomatico e promuovendo, sull’onda dell’emozione, la più vasta operazione di riarmo e di mobilitazione militare degli ultimi 40 anni. L’intervento indiretto attraverso forniture militari, infatti, comporta una seconda conseguenza: quella di posizionare chi lo esercita in una parte precisa del conflitto. In questo modo però, si rinuncia necessariamente a poter svolgere ogni funzione diplomatica di pacificazione: non ci si può candidare a ricomporre un conflitto tra parti, se si è parte in gioco. Quindi l’Europa va alla guerra, e lo fa sull’onda delle sollevazioni popolari contro la guerra. L’euforia governativa e lo sdegno popolare si fondono in discorsi che credevamo di aver finalmente archiviato, come quelli che rimpiangono i tempi nei quali era motivo d’orgoglio avere in famiglia dei caduti in guerra[14]. Lo stato d’emergenza bellico ripropone la mai esausta retorica dei sacrifici, già inaugurata da Monti per giustificare gli spaventosi tagli alla spesa sociale, ed evocata nuovamente da Draghi con toni decisamente più inquietanti. Si assiste anche a episodi grotteschi, come la sospensione di corsi universitari su Dostoevskij[15], o più francamente disturbanti, come l’esclusione delle squadre russe e bielorusse dalle olimpiadi paraolimpiche, o di scienziati e ricercatori russi dai progetti di ricerca universitari. All’interno di questa spirale di follia crescente il movimento pacifista non sembra aver capito la situazione e la posta in gioco: altrimenti non si capirebbero le resistenze e gli imbarazzi a esplicitare la contrarietà all’invio di forniture militari.[16] Il problema è quello di un movimento che si ritrova privo di ogni riferimento politico di un certo peso, incapace di dare concretezza effettuale alle proprie posizioni. Il pacifismo sembra essere oggi costretto a incarnare quel “preferirei di no” che conduce Bartleby prima all’isolamento e poi alla morte di inedia. Per non fare la fine dello scrivano, bisognerà lavorare a lungo, tutti e tutte insieme, e dare un orizzonte politico al pacifismo europeo. Forse il continente intero crede di avere nella guerra l’occasione imperdibile per farsi, finalmente, nazione europea. Non lo scriveva già Altiero Spinelli che, “per quanto non si possa dire pubblicamente, […] l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica”[17]? Ma è questa l’Europa che vogliamo?

 

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

 

[1] Francis Fukuyama, Noi, oggi, alla fine della storia, https://www.corriere.it/cultura/18_giugno_30/francis-fukuyama-la-fine-della-storia-vita-pensiero-84cebf1e-7c72-11e8-87b8-02c87e8bc58c.shtml (ultimo accesso 01.03.2022)

[2] https://www.zeit.de/politik/deutschland/2022-02/olaf-scholz-rede-regierungserklaerung-russland-ukraine?fbclid=IwAR30MdkPXRV1eh7zs98MW6zLoECZUF7NnVJL8yAfV53UmcgHTmG2XUWuE0w

[3] https://www.limesonline.com/notizie-mondo-oggi-1-marzo-cina-mediazione-ucraina-kiev-convoglio-kharkiv-armi/126888

[4] https://www.quotidiano.net/cronaca/nato-ucraina-1.7410303

[5]https://www.leparoleelecose.it/?p=43586&fbclid=IwAR2P79LKsMAJta7dnnswGR_jYDbmaRgbt1tQwe0i3A7dzbUnookBCHfdnuk

[6] Come ha fatto notare in un’intervista il generale Fabio Mini, “dove finiscono le armi non [si sa] e non lo sanno nemmeno coloro che le stanno mandando. Il problema è che se si mandano all’esercito ucraino regolare […] allora i canali sono sempre gli stessi, e sono dieci anni che viene rifornito di tutto il possibile […] Più armi di quante non ne abbiano ricevute negli ultimi anni non so se hanno abbastanza uomini per usarle. Se invece come sospetto vadano ad armare formazioni irregolari, “difese civili” che rispondo a referenti politici variegati…”. https://www.raiplaysound.it/audio/2022/03/Tutta-la-citta-ne-parla-del-03032022-e0256774-9990-4192-b31e-879fd81f3d37.html?fbclid=IwAR1Zym1M-tMucvQS3SW7_pEDlpt_sK2_gc8BSLoRkgJKoK2IzjEh7hB5x60 min. 27.

[7] https://www.msnbc.com/transcripts/rachel-maddow-show/transcript-rachel-maddow-show-2-28-22-n1290370

[8] https://www.reuters.com/world/kremlin-says-russian-military-action-will-stop-moment-if-ukraine-meets-2022-03-07/

[9] https://www.reuters.com/article/us-nato-idUSL0179714620080403

[10] John J. Mearsheimer, Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault: The Liberal Delusions That Provoked Putin, in: Foreign Affairs, Vol. 93, No. 5 (2014), pp. 77-84.

[11] https://www.washingtonpost.com/opinions/henry-kissinger-to-settle-the-ukraine-crisis-start-at-the-end/2014/03/05/46dad868-a496-11e3-8466-d34c451760b9_story.html

[12]https://www.repubblica.it/politica/2022/03/03/news/ucraina_destra_sinistra_e_no_green_pass_identikit_dei_putiniani_ditalia-340032961/

[13] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ukraine-war-and-risk-new-foreign-fighters-wave-33919

[14] Vedi l’articolo di Federico Fubini, Ucraina, contro la Russia la finanza come arma, dove l’editorialista scrive: “noi occidentali stiamo perdendo la potenza delle armi perché non sopportiamo più di subire perdite in una guerra convenzionale. All’epoca dei nostri nonni un caduto era motivo d’orgoglio in famiglia, oggi è considerato inaccettabile” (Corriere della Sera, 26 febbraio 2022).

[15] La cancellazione è stata ritirata, ma le giustificazioni hanno, se possibile, reso ancora più grottesca la faccenda. A Dostoevskij, infatti, si sarebbe dovuto accompagnare anche un autore ucraino.

[16] https://www.editorialedomani.it/politica/italia/corteo-pace-fornitura-armi-dv1jt9om

[17] A. Spinelli, Diario Europeo (1948-1969), Bologna, Il Mulino, 1989, p. 175.

6 thoughts on “Verso la guerra totale, ma con le bandiere della pace

  1. La soluzione di un conflitto non può essere il conflitto e soprattutto non può essere la Guerra.
    Questi sono sempre stati i nodi che dopo secoli di stragi dell’Umanità, sono sempre rimasti intricati, mai sciolti. Nessuno in questo caso può pensare di avere verità in tasca. Il punto è che la dobbiamo ricercare questa verità. Soprattutto in noi stessi. Non si è mai riusciti dopo milioni di anni di evoluzione a trovare un’alternativa. La prima domanda è; la dobbiamo cercare? Oppure dobbiamo pensare che dopotutto non si può evitare la guerra? E’ un problema che riguarda l’Umanità intera. E’ una ricerca che tutti dobbiamo impegnarci a fare. Anche perchè una conclusione rischia di essere che i limiti della nostra civiltà sono limiti, e gravi, della nostra mente, della nostra intelligenza.

  2. Contento si citi Mearsheimer. I suoi video e conferenze successivi alla crisi del Donbass del 2014 andrebbero mostrati alle ore di punta per bilanciare gli sfoghi mediatico-intellettuali di cattiva coscienza (alla Benvenuto), secondo cui la guerra è un fiore sbocciato inopinatamente in bocca a Putin nel febbraio 2022.

  3. Sì, la verità dobbiamo continuare a cercarla partendo proprio da dentro di noi, perché dopo milioni di evoluzione tecnica abbiamo bisogno di una evoluzione mentale che purtroppo è mancata.

  4. “Condizioni ribadite lo scorso lunedì dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov: neutralità militare dell’Ucraina e riconoscimento della Crimea e delle repubbliche autonome di Donetsk e Lugansk”.
    Veramente abbiamo sentito anche cose diverse, e da Putin stesso, non dal suo portavoce. Davvero è credibile che la Russia abbia fatto una guerra per incamerare quello che già controlla? E cosa vuol dire “neutralità militare dell’Ucraina”, al di là del non-ingresso nella Nato, che comunque non era all’ordine del giorno? C’è qualcuno che se lo chiede nello specifico, che cerca di immaginarselo? Senza contare che nei quindici giorni di guerra i russi hanno detto tutto e il contrario di tutto, compreso il ministro degli esteri Lavrov che afferma che i russi non hanno attaccato l’Ucraina – riesumando, se mai era stato sepolto, il becco di bronzo di sovietica memoria.
    Ma i veri punti sono altri. Intanto il titolo: “Verso la guerra totale, ma con le bandiere della pace”, che ribalta su di noi la responsabilità della guerra e vorrebbe che il pacifismo, dottrina già di per sé idiota, significasse, come in effetti già significa, accettare supinamente la prepotenza e la prevaricazione.
    E poi l’impagabile citazione da Mearsheimer: “per forza di cose *sono i russi, non l’Occidente, che alla fine decidono cosa conta come minaccia per loro*”. E tanto peggio per chi ci va di mezzo. Pacifismo peloso, questo Mearsheimer. Inoltre, sdoganare l’idea che “sono i russi che decidono cosa conta come minaccia per loro” mi sembra gravido di infauste conseguenze. E’ come dare carta bianca ai Russi su cosa incamerare perché hanno deciso che conta come minaccia per loro. E privare diverse nazioni del diritto all’autodeterminazione, considerato invece sacro e intangibile in altre situazioni.
    Ma è chiaro che le mie sono solo banali riflessioni basate sulla banale evidenza. Quanto al distico finale: è precisamente quello che stanno dicendo gli ucraini da quindici giorni.

  5. «L’euforia governativa e lo sdegno popolare si fondono in discorsi che credevamo di aver finalmente archiviato, come quelli che rimpiangono i tempi nei quali era motivo d’orgoglio avere in famiglia dei caduti in guerra[14]. Lo stato d’emergenza bellico ripropone la mai esausta retorica dei sacrifici […] Il problema è quello di un movimento che si ritrova privo di ogni riferimento politico di un certo peso, incapace di dare concretezza effettuale alle proprie posizioni». ( Vitali)
    +
    Sì, c’è da aggiornare Brecht (purtroppo) i ben noti versi di Brecht: «Voi che sarete emersi dai gorghi | dove fummo travolti, | pensate | quando parlate delle nostre debolezze | anche ai tempi bui | cui voi siete scampati…»
    (, Ai posteri). E da questi «gorghi» che già ci hanno travolto ritrovare la forza per andare con le parole e le azioni contro la guerra.
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    “OTTO MOTIVI CONTRO LA GUERRA” (FORTINI 1990)
    (Rilettura)
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    «Oggi sappiamo che non ci sono giuste guerre; ma non ci sono giuste guerre oggi, perché le finalità che le guerre di classe si sono proposte possono-debbono oggi essere combattute e raggiunte altrimenti che con le armi. E non perché la violenza sia, in astratto e sempre, il “male”. Ma perché oggi e qui essa serve ai nostri avversari; o almeno così, oggi, crediamo. La guerra del Golfo [lo stesso credo possa dirsi di questa in Ucraina. Nota di E. A.] è ignobile e va rifiutata e combattuta fino a che ci resti una parola, non perché Saddam [o Putin, aggiungo io. Nota di E. A.] sia un delinquente malvagio o perché gli Stati Uniti vogliono controllare il mondo e metterlo al proprio servizio, ma perché fa arretrare tutto quello che riteniamo buono e giusto per noi e per gli altri».
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    (da F. Fortini, “Disobbedienze II”, pagg. 131-132)
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    P.s.
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    Ha scritto un amico sotto il mio ultimo post su FB in cui mi rivolgevo a Adriano Sofri: «Non siamo adeguatamente attrezzati per leggere con lucidità avvenimenti complessi». Chi può dargli torto? Varie generazioni (quella del ’68, del ’77, e via seguitando) hanno rottamato a più non posso anche quei pochi strumenti (Marx, psicanalisi, inchiesta sociale) che avevamo ricevuto dagli anziani. Ora quegli ex leader sono quasi tutti “interventisti”.
    In questi giorni ho pensato anche ad un altro ex sessantottino (“tiepido” allora a suo stesso dire e oggi “pensoso”): Alfonso Berardinelli.
    In quel vergognoso libello a due mani con Piergiorgio Bellocchio, «Stili dell’estremismo» (Diario n. 10 ,1993) aveva definito «devozione barocca» all’idea di guerra il costante ripudio di essa da parte di Fortini [*]. Come si trattasse di una fissazione personale dovuta a ragioni inconsce o biografiche; e senza alcun fondamento nella storia. Quella stessa che torna oggi a presentarci il conto e a spiazzarci. Adieu, fratellastri del ’68.
    +
    * http://www.poliscritture.it/…/fortini-la-guerra-la-pace/

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