di Maurizio Chiaruttini
Angelo Maugeri è rimasto fedele, negli anni, a una visione della vita (e della poesia) come metamorfosi.[1] Il libro che meglio rappresenta il lato ottimistico di questa visione è Passaggio dei giardini di ponente,[2] in cui si esprimeva la fiducia in una parola capace di restituire, immergendovisi — fenomeno tra i fenomeni —, l’ininterrotta trasmutazione delle cose. A livello stilistico questo anelito immersivo si manifestava soprattutto nell’instabilità e nella polivalenza dei rapporti sintattici e nella propensione a costruire catene modulanti di associazioni foniche e semantiche, assecondando una sorta di ipnotico impulso autogenetico:
tu nome (o non-nome?) dell’acqua corpo
veloce limite del cerchio limite
del limite dove le foglie si perdono dove
le voglie continuano a volteggiare.[3]
Oggi, alla soglia degli ottant’anni, Maugeri continua ad essere attratto da ciò che è transitorio, dal perpetuo articolarsi e disarticolarsi delle apparenze, ma la sua lingua non ambisce più ad assecondare o addirittura a confondersi con il divenire. Negli ultimi libri, e soprattutto in questo nuovo Lo stupore e il caos,[4] il nome è proprio ciò che di stabile permane una volta che le cose, mutando, sono scivolate via nel tempo. «È quel che resta. Il nome»,[5] dice il verso conclusivo di una densa elegia nella quale ritorna il tema, ricorrente nella sua produzione, dei luoghi di «acqua e sabbia»[6] che il poeta, un giorno ormai lontano, si è dovuto lasciare alle spalle.
Ma l’esigenza di testimoniare una realtà in continuo mutamento è ancora viva. Abitare il mondo significa, per Maugeri, abitare «un’idea da farsi / del mondo da farsi»,[7] dove il «da farsi» allude al farsi e disfarsi incessante del mondo che si dispiega davanti agli occhi di un soggetto parimenti instabile e disancorato:
Sei materia poverissima,
tenue materia ogni giorno sospinta
da un vento sconosciuto fino al margine
estremo del bianco che azzera
l’azzurro[8]
La mente si spinge indietro e avanti nel tempo: trova «puntelli / autunnali»[9] nelle immagini di un’infanzia la cui memoria è quasi iscritta nel corpo («risente / su di sé / mani lievi e luminose»)[10], oppure costeggia i «canali dell’oltreandare»[11] verso «la distanza che sposta ogni altrove».[12] E qui incontra — mai direttamente nominata eppure onnipresente in queste pagine avvolte in un’aura meditativa — la morte. È lei che indirizza lo sguardo verso un punto indefinito, modella le forme del paesaggio, inghiotte nel bianco l’azzurro del cielo. È sua la «minaccia segreta»[13] che si avverte nell’aria. Ed è difficile non scorgerne una prefigurazione nella «nuova stagione» che accende l’analogismo del componimento iniziale:
All’arrivo della nuova stagione («È lei?
non è lei?») il dilagare del seme:
fredde liane di luce lunare
nell’atto di aggrapparsi
come un mare rappreso alla barca.[14]
Sono pensieri torbidi («E solo a lei / pensando nel torbido»)[15], ma il loro oggetto diretto viene aggirato. Anzi, sembra quasi che ogni volta che il pensiero della morte si affaccia alla mente del poeta, un sentimento contrario, fedele all’idea di un tempo ciclico e ripetitivo, intervenga ad attenuarne la portata tragica: «poiché tutto è già accaduto — suona uno dei numerosi riferimenti all’eterno ripiegarsi su di sé del tempo —, tutto ciò che hai negli anni / cautamente immaginato nella diafana apparenza del logos».[16]
Oltre il logos c’è il tempo vissuto come compresenza di istanti, in cui passato e presente si confondono al punto che «i rintocchi delle torri», uditi qui e ora, «allietano gli anni vissuti / davanti a luci impreviste / incontro alle ore improvvise»:[17] non è il passato che, secondo la convenzione lirica, all’improvviso ritorna e vivifica il presente, ma al contrario è la durata presente che, con la «complice carezza dell’attesa», si incurva sul tempo trascorso e lo colora di sé.[18]
La poesia sembra essere, per Maugeri, il luogo di una verità ulteriore che si confonde con il desiderio, un luogo in cui un «vero senza prove» e un «mistero senza riscontri» lasciano intravvedere la coincidenza fra l’origine e l’«ultimo approdo».[19]
Il «cuore segreto del mondo»[20] si trova qui, in una zona inattingibile se non a partire da un abbandono dei parametri razionali e da una perdita di vigilanza della coscienza: «I muscoli si distendono, il corpo si scioglie / nella vastità della stanza, la coscienza / si dilata».[21] In questa prospettiva espansa ciò che è lontano e ciò che è vicino, ciò che esterno e ciò che è interno si confondono, e la dualità dell’io e del mondo diventa, come direbbe Gaston Bachelard, «iridescente, scintillante, incessantemente attiva nelle sue inversioni».[22] L’analogismo postermetico di Maugeri poggia le sue radici in questa disposizone del sentire:
I suoni del fuoco, le docili
corde del fuoco che sciolgono
la cera delle dita,
vampe d’ali lasciate stormire
come fragili fronde
di pause e sospiri … [23]
Bolle d’acqua iridescenti
spiate come formiche
nel formicaio.
Voli indistinti sospesi
nel turbine delle apparenze …[24]
Ma non si tratta solo di una disposizione d’animo o di un dato esperienziale: il trasmutare ambiguo delle apparenze e la permutabilità degli istanti riguardano anche il piano conoscitivo, sono anche il frutto di una riflessione cosciente. E in quanto tali trovano espressione in testi di tutt’altro tenore stilistico, con gli accenti, a volte, della canzonetta gnomica:
Nulla è come sembra,
ogni cosa si confonde
a volte si nasconde
come in certe oscure storie
fra le onde illusorie
della luce e dell’ombra[25]
Accanto al Maugeri dello «stupore», che lascia vagare la mente, c’è un Maugeri riflessivo che prende le distanze da sé e dalle cose. C’è fin dagli inizi. L’attrazione per ciò che è transitorio e fluttuante, la poetica immersiva dello «sguardo e dimenticanza»,[26] che avvicina la poesia alle dimensioni del desiderio e del sogno, caratterizzano in profondità il suo sguardo sul mondo, ma ciò non ha mai comportato una rimozione di altre dimensioni dell’esistenza. La volontà di assecondare il mutamento ha sempre trovato un controcanto in una viva coscienza dell’ostacolo e della necessità, etica ed estetica, di misurarsi con ciò che si oppone al nostro desiderio di levità. Anzi, succede fin dall’inizio che il sogno e la poesia stessa siano sentiti addirittura come colpa, qualora la presenza concreta del reale — nelle fattezze ad esempio di un corpo femminile — venga all’improvviso a svelarne la liquida inconsistenza: «in quanto donna ce la faccia / a respingere il sogno di prima sentito / quale colpa se lascia / cadere le rose nell’acqua di rose».[27]
Ma l’acqua di rose trattiene comunque un’essenza e il poeta non può fare a meno di esporsi alla «testarda recrudescenza / della letterarietà»:
La tortuosa spensieratezza
delle emissioni vocali,
la testarda recrudescenza
della letterarietà:
ecco i luoghi più frequentati
nel cauto andare incontro
al canto della sera.[28]
Questo frammento fa parte di un componimento in tre tempi che porta in esergo una citazione dal ventottesimo canto del Purgatorio: «Da questa parte con virtù discende / che toglie altrui memoria del peccato; / da l’altra d’ogni ben fatto la rende»: il Lete e l’Eunoè, l’oblio del male e la memoria del bene. In quanto «tortuosa spensieratezza», la poesia si situa alla confluenza di questi due fiumi; implica dunque una dimenticanza, o una rimozione. Ma la rimozione non salva quelle stesse «emissioni vocali» da «rotte maligne» e «movimenti maldestri».[29]
Lo sguardo immemore sulle cose rimane, per Maugeri, un telos della poesia. Ma comporta comunque un inevitabile confronto con il negativo: la «spensieretezza» non è un dato ma un’aspirazione. Per questo è «tortuosa»: perché la poesia — questo prodotto notturno «nascosto / alla visibilità delle ore diurne» —[30] contiene in sé i germi dell’inautenticità. È un sogno la cui trasparenza essenziale cela (e forse presuppone) l’ottusa opacità di un sonno che isola il soggetto dagli altri:
C’è un sonno nel sogno, come una cupa
disperazione di contatti con qualcun altro.[31]
La poesia, come il sogno, è una forma di oblio, ma è paradossalmente l’unico modo che il poeta ha di non dimenticare e di rendere ragione della propria permanenza leggendo i segni misteriosi e contraddittori che la realtà offre al suo sguardo: stupore e caos.
All’inizio c’è un’urgenza che preme e non ha forma, un moto di «effervescenze virtuose»[32] che eccede rispetto ad ogni parola. Il Maugeri postromantico degli anni Settanta e Ottanta avrebbe confidato nella possibilità di attingere direttamente a quell’energia (la «massa confusa / dell’ispirazione»),[33] infrangendo il «limite / del limite»[34] in una «fuga dal senso e del senso».[35] Il Maugeri di oggi, nel suo «cauto andare incontro / al canto della sera», coltiva ancora il sogno di una parola dimentica di sé, di «un mondo possibile dove / la lingua non sia un ostacolo / ma un sentiero di cui / ignorare la fine».[36] Ma molto più di prima avverte la presenza costitutiva di un limite nel farsi della poesia stessa:
Là dove si conquista
la cerimoniosità della lingua
la realtà mutevole appare
meno incerta di quel che l’improvvisa
folgorazione dei “tempi” può avere infranto.[37]
Il sogno di una parola non cerimoniosa, cioè del tutto priva di convenzionalità, è il corrispettivo metapoetico dell’anelito esistenziale all’oltrepassamento caratteristico della stagione di Passaggio, ma oggi anche il «guardare oltre» ha assunto un sapore diverso: il sapore del dubbio e dell’incertezza. Il Maugeri di questa stagione ricapitolativa ci appare come qualcuno che sosta su una terra di confine e spinge avanti lo sguardo. Ma non può vedere ciò che sta al di là dell’orizzonte perché è velato dalla finitezza:
Ciò che accade nel tempo
va oltre la tua voglia di vivere oltre,
oltre il gioco di dare
un senso differente
alle parole.[38]
E tuttavia — qui sta il fascino della poesia di Maugeri — il desiderio non si arrende e lo sguardo continua, pur nell’incertezza, a volersi protendere «oltre le grate, oltre le pietre / dei muraglioni».[39]
E forse la disparità stilistica di questa raccolta, nella quale lo slancio lirico convive con il tono meditativo, l’effervescenza analogica con la noncuranza dell’annotazione diaristica e con l’amaro divertissement linguistico, è dovuta anche alle oscillazioni del sentimento di un poeta che, nell’alternanza di incanto e disincanto, si offre disarmato alle intermittenze del proprio cuore e va incontro al «canto della sera» senza più bisogno di infingimenti.
Note
[1] Il labirinto e la metamorfosi è il titolo del suo intervento al convegno del club Turati di Milano sulla poesia degli anni settanta, svoltosi nell’aprile del 1979 (in Tomaso Kemeny e Cesare Viviani (a cura di), I percorsi della nuova poesia italiana, Napoli, Guida, 1980, pp. 53-72). In quell’occasione, richiamandosi a Foucault, egli indicava nel «cambiamento a vista», nei «percorsi istantaneamente valicati», nelle «affinità estranee» i caratteri di una poetica volta a rinnovare il linguaggio aderendo con maggiore fedeltà alla vita.
[2] Angelo Maugeri, Passaggio dei giardini di ponente, Milano, Società di Poesia e Lunarionuovo, 1985.
[3] Ivi, p. 67.
[4] Angelo Maugeri, Lo stupore e il caos, Pasturana, Puntoacapo, 2021.
[5] Lo stupre e il caos, cit., p. 72.
[6] Ivi, p. 12.
[7] Ivi, p. 20.
[8] Ivi, p. 33.
[9] Ivi, p. 19.
[10] Ivi, p. 12.
[11] Ivi, p. 64.
[12] Ivi, p. 66.
[13] Ibid.
[14] Ivi, p. 10.
[15] Ibid.
[16] Ivi. p. 33.
[17] Ivi, p. 42.
[18] Ivi, p. 42.
[19] Ivi, p. 44.
[20] Ivi, p. 74.
[21] Ibid.
[22] Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo libri, 1975, p. 9.
[23] Ivi, p. 51.
[24] Ivi, p. 11.
[25] Ivi, p. 25.
[26] Il labirinto e la metamorfosi, cit. p.55.
[27] Passaggio, cit. p. 16.
[28] Ivi, p. 34.
[29] Ivi, p. 35.
[30] Ivi, p. 34.
[31] Ibid.
[32] Ivi, p. 35.
[33] Ivi, p. 31.
[34] Passaggio …cit., p. 67. Cfr., qui, p. 1.
[35] Il labirinto e la metamorfosi, cit. p.55.
[36] Lo stupore e il caos, cit. p. 83.
[37] Lo stupore e il caos, cit., p.31.
[38] Ivi, p. 32.
[39] Ivi, p. 85.
[Immagine: Ansel Adams, Aspens, Northern New Mexico, 1958].
E forse non è da escludere che l’atto di consapevolezza del poetare di Angelo Maugeri si accenda proprio là dove, “in limine”, si compie l’assoluta (e spregiudicata) “difficoltà” a pronunciare/scrivere/dettare le “parole”, troppo spesso udite, troppo spesso poetate. Non si può citare l’Impossibile o la “voglia di vivere oltre” (e neppure auspicare con disincanto innocente “il senso differente”) senza incorrere nelle opportune “penalità” critiche. (ovvero il “già avvenuto”, che Maugeri sa bene fronteggiare). È proprio il “tono meditativo”, auspicato da Chiaruttini, che brilla negli interstizi di una lingua poetica che vorrebbe non rimanere “cerimoniosa”, sicché la chance, l’opportunità vantaggiosa è annotare la “tortuosa spensieratezza delle emissioni vocali, la testarda recrudescenza della letterarietà”, che potrebbe voler dire comporre “poesia” come fosse un foglio di Diario, rammentando ogni giorno, tra le mille accortezze, di non nominare e non dare mai un nome alla morte (e neppure alle sue simboliche “ombre”).