di Andrea di Gesu
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
Non dovrebbe giungere ormai come una notizia il fatto che il dibattito interno alla sinistra critica (politica e accademica) sui modelli di gestione della crisi pandemica sia caratterizzato da una polarizzazione sempre più aspra. Esso appare in effetti diviso tra posizioni che vedono nella crisi pandemica innanzitutto un’inflazione esorbitante dei dispositivi di controllo delle popolazioni e dei soggetti, una gravissima erosione delle libertà e dei diritti individuali e degli spazi di discussione e decisione democratici, e posizioni che vi vedono piuttosto il segno di un’insufficienza palese dei sistemi di welfare e sanità pubblica occidentali e la contraddizione evidente tra le necessità del profitto economico e il diritto alla salute. Se le prime tendono a vedere nella crisi un problema di potere e a invocare un alleggerimento dei divieti e delle restrizioni, le seconde vi vedono al contrario un problema di welfare, rivendicando la necessità di un suo potenziamento. Dove le prime si scagliano contro l’interventismo di Stato a favore della libertà, le seconde invocano un maggiore intervento statale contro le disfunzioni generate dall’economia capitalistica sulla sanità.
Tra i diversi terreni di scontro teorico e politico che dividono le due posizioni in oggetto, un ruolo importante è giocato dalla riflessione di Michel Foucault[1]. Intorno ad essa e agli strumenti che fornisce per interpretare il presente pandemico si gioca in effetti ormai da quasi due anni a questa parte una intensa battaglia di idee, che ha costituito senza dubbio uno dei più importanti vettori di polarizzazione del dibattito in corso.
In questo articolo, il nostro scopo non sarà quello di dirimere la questione sugli usi pandemici di Foucault: in altri termini, non proporremo un’analisi degli opposti impieghi dei suoi concetti per distinguere, su basi filologiche, quelli corretti da quelli fuorvianti. Piuttosto, prenderemo le mosse dall’ipotesi che, prima di ogni altra cosa, il riferimento a Foucault costituisca, all’interno di questo scontro, un sintomo; più precisamente, il sintomo di una crisi che lo oltrepassa di molto, e di cui il suo nome costituisce una sorta di significante particolarmente sovraccaricato. Tale ipotesi ci permetterà di proporre una lettura peculiare dello scontro teorico-politico in corso, sulla base della quale potremo, infine, porre di nuovo e in modo diverso la questione dell’attualità del pensiero di Foucault nella presente congiuntura storico-politica.
Ora, all’interno delle posizioni che abbiamo sommariamente evocato, i riferimenti alle categorie foucaultiane risultano non sorprendentemente opposti. Le prime, infatti, tendono a utilizzare Foucault per descrivere la gestione della crisi pandemica nei termini di una forma aggressiva e liberticida di biopolitica[2]; le seconde, al contrario, tendono all’invocazione di una biopolitica virtuosa, una biopolitica della cura in grado di prendersi in carico in maniera finalmente efficace del diritto alla salute contro le sue restrizioni provocate dai molteplici effetti perversi del sistema capitalistico sulle sanità pubbliche[3].
La distanza tra queste due posizioni, già di per sé notevole, mostra sempre più spesso una tendenza irresistibile all’esacerbazione, che le trasforma sovente in una loro versione perversa. Le prime degradano infatti verso un negazionismo puro e semplice rispetto all’esistenza stessa di un’emergenza medica, vedendo nella crisi pandemica una mera scusa per aumentare la presa del controllo biopolitico sulle vite dei soggetti; le seconde arrivano da un lato a negare il fatto stesso di una restrizione delle libertà individuali, tacciando chiunque le rivendichi di sostenere semplicemente una concezione di destra di libertà, e a mostrare dall’altro una postura scientista che degrada verso atteggiamenti distintamente epistocratici: entrambe queste tendenze s’incontrano e si sovrappongono nell’idea, variamente articolata e invocata, di un governo degli esperti, in questo senso vero concetto-simbolo di questo tipo di posizioni.
Un esempio probabilmente imperfetto, ma molto significativo di questa contrapposizione esasperata è lo scontro – desolante – tra Giorgio Agamben e i firmatari di una lettera contro di lui firmata da un numero importante di personalità dell’accademia filosofica italiana, scontro per altro commentato in maniera puntuale, su queste pagine, da Luca Illetterati.
L’aggravarsi di questa polarizzazione produce una conseguente, implicita o esplicita, deformazione dei riferimenti a Foucault. Egli diventa infatti, alternativamente, il filosofo che ha denunciato con rigore la sovrapposizione senza residui tra potere e scienza e invocato la necessità di una lotta infinita per una libertà non meglio precisata contro ogni forma di coercizione, o un libertario sospetto, dalle pericolose derive relativiste e, in ultima analisi, reazionarie.
Non c’è bisogno di scomodare Schmitt per sapere che, talvolta, il caso limite costituisce il punto di vista privilegiato per guardare alla situazione normale; l’eccezione, infatti, forse non conferma necessariamente la regola, ma è in grado spesso di illuminarne il funzionamento interno – quello che risulta perfettamente invisibile prima dell’inceppo e del guasto. Proponiamo dunque di concentrarci su questa versione particolarmente patologica del dibattito, nella convinzione che una sua analisi possa dire molto sulle sue manifestazioni meno estremizzate.
Essa, a nostro avviso, non può essere spiegata unicamente sulla base della diffusa atmosfera emergenziale evidente a tutti i livelli della discussione pubblica e motivata dalla crisi pandemica. Tali posizioni sono infatti anche, e in misura quantomeno uguale, il risultato di tendenze endogene al dibattito da cui esse originano, e di cui rappresentano una sorta di esito parossistico. Questa inerzia del dibattito è allora, ci sembra, rivelatrice di qualcosa d’altro. Di cosa?
L’ipotesi che vorremmo qui sostenere è che essa indichi la presenza di una crisi in atto all’interno della sinistra critica; e che, all’interno di questa polarizzazione estremizzata, il riferimento a Foucault sia soprattutto un sintomo di questa crisi. Il suo nome, in altre parole, appare sempre più un significante che tende a svuotarsi di ogni riferimento reale e che rimanda a qualcosa d’altro, ossia appunto a una crisi, e alle posizioni possibili al suo interno. Di che crisi si tratta?
È nostra convinzione che solo rispondendo a questa domanda diventi possibile porre di nuovo la questione dell’attualità di Foucault. Solo in questo modo, infatti, Foucault e la sua opera possono smettere di essere il significante tendenzialmente vuoto di uno scontro in atto e tornare ad essere uno strumentario concettuale concreto e materiale, di cui poter finalmente misurare l’utilità all’interno di un presente quanto mai convulso.
Questa crisi è, a nostro avviso, quella della tradizione della sinistra libertaria post-sessantottina, quella delle diverse tendenze del poststrutturalismo o, per usare un termine improprio, quella del postmodernismo. Nella polarizzazione del dibattito che stiamo studiando, essa si manifesta in particolare nel sospetto implicito verso il suo culturalismo estremo, ossia verso la possibilità di una riduzione totale del reale a dinamiche puramente sociali e linguistiche, relazioni di potere-sapere in cui la concretezza della realtà sembra scomparire senza residui. È il sospetto contro questa postura ontologica a costituire, ci sembra, il fondamento inconfessato di tutte le altre accuse rivolte a tale tradizione di pensiero, e in particolare quelle di antiscientismo relativista e libertarismo reazionario.
Capire l’origine di questo sospetto non è difficile. La crisi pandemica non è in effetti altro che la manifestazione drammaticamente concreta di un reale che sfugge senza posa alla sua riduzione linguistico-culturale, di un dinamismo e di un’agency radicalmente non-umani. Essa ci ha ricordato nella maniera più violenta possibile della presenza di un mondo non-umano che agisce in maniera non controllabile, spesso come risposta alla nostra azione sul pianeta e sui suoi equilibri complessi. È in questo senso che, naturalmente, la crisi pandemica si rivela un episodio – probabilmente non il più catastrofico – della crisi ecologica in corso[4].
Si tratta, in altre parole, della rivoluzione copernicana che il fattore ecologico produce sul pensiero politico – o meglio, quello che deve necessariamente produrre perché esso possa entrare effettivamente come fattore nella riflessione teorico-politica, senza essere ridotto al rango di variabile tra le altre all’interno di un quadro analitico che rimane per il resto immutato.
Questa polarizzazione è dunque – questa la nostra tesi – uno degli effetti dell’impatto della crisi pandemica ed ecologica sul pensiero della sinistra critica. Più precisamente, è il segno della crisi teorica che la crisi pandemica ed ecologica vi produce. Di essa, Foucault è uno dei nomi, forse il nome più intensamente sovraccaricato.
Questa conclusione ci permette allora innanzitutto di sottolineare l’asimmetria di questa polarizzazione teorica, asimmetria fino ad ora non evidente. Per quanto entrambe le posizioni coinvolte siano distorsioni delle analisi teorico-politiche da cui originano, esse non sono ugualmente perverse. Mentre infatti la deriva negazionista e reazionaria rappresenta una difesa di una certa tradizione di pensiero che si capovolge nel suo contrario, pervenendo a esiti teorici e politici non solo radicalmente inaccettabili, ma che realizzano come se non bastasse il sogno/incubo liberale di un postmodernismo di destra al servizio dei fascismi in tutto il mondo[5] – e in questo senso tocca davvero dare atto a Giorgio Agamben di essere stato più realista del re: il suo è forse l’unico vero utilizzo da destra di Foucault che sia mai stato fatto! –, la deriva scientista e antilibertaria articola in modo distorto quella che rimane un’esigenza reale. Essa pone, insomma, la questione fondamentale dell’attualità di Foucault e per estensione di tutta una tradizione del pensiero critico radicale: che fare di tutto questo strumentario all’interno della crisi pandemica, e per estensione di quella ecologica?
La risposta tendenziale di queste posizioni sembra sempre più chiara: assolutamente nulla. La pandemia e la crisi ecologica pongono la questione di un reale non riducibile, e ci spingono a modificare di conseguenza i nostri riferimenti. In tale operazione di ristrutturazione teorica e politica, la prima vittima sembra destinata a essere proprio Foucault. Dalla necessità di varie forme di interventismo di Stato contro la pandemia e i cambiamenti climatici a quella, conseguente, di riassegnare una legittimità assoluta al sapere scientifico che ci illumina sulla loro natura, tutto sembra convergere verso il definitivo abbandono di quella tradizione di sinistra che ha posto l’esigenza di un sospetto di principio verso ogni forma di potere, e ha cercato di studiare le relazioni che legano il potere alla scienza e al sapere. Il culturalismo dei “postmoderni”, incarnato da Foucault, genera libertarismo reazionario e antiscientismo relativista: precisamente i più pericolosi nemici per chi si batte, da sinistra, per frenare il collasso ecologico e le sue pandemie.
I rischi teorici e politici corsi da queste posizioni, tuttavia, fanno sorgere il sospetto che questo discorso non possa terminare qui. Forse non è ancora il tempo di abbandonare definitivamente Foucault. Forse, anzi, l’utilità del pensiero di Foucault nell’attuale congiuntura storica è precisamente quella di scongiurare tali rischi, ossia di rispondere alla necessità teorica e politica di scavare un solco profondo tra l’esigenza legittima che queste posizioni incarnano e le derive pericolose a cui sono soggette.
Per quanto la necessità, posta dalla crisi pandemica ed ecologica, di superare certe eredità postmoderne sia indubbia, alcuni degli insegnamenti di quella tradizione, e di Foucault in particolare, restano infatti a parere di chi scrive un’arma fondamentale al fine di evitare tali derive indesiderabili. Per capire come, è giunta l’ora di tornare – finalmente – a parlare di Foucault.
Le derive a cui sono soggette le esigenze teorico-politiche articolate dalla sinistra critica in risposta alle crisi pandemica ed ecologica sono, come abbiamo visto, essenzialmente due: a) lo slittamento dalla critica del libertarismo reazionario a forme di autoritarismo politico; b) lo slittamento dalla critica dell’antiscientismo relativista a posture epistocratiche. A ben vedere, si tratta in effetti di un unico dispositivo teorico e politico, il cui funzionamento è possibile descrivere come segue: esso tende a derivare direttamente dalla necessità (virtuosa e condivisibile) del superamento di un’ontologia culturalista in cui le crisi pandemica ed ecologica risultano invisibili una visione neutra della scienza, che mette tra parentesi lo studio del rapporto tra scienza e potere per respingere appunto il rischio di antiscientismi relativisti e di libertarismi reazionari che sarebbero incarnati dalla tradizione della sinistra “postmoderna”. Ed è proprio questa visione neutra della scienza a causare il rischio di posture epistocratiche ed autoritarie.
Ora, l’importanza del pensiero di Foucault sta precisamente nella sua capacità di disattivare questo dispositivo: e tale disattivazione è, a nostro avviso, l’unico modo che abbiamo per operare un superamento virtuoso di un certo postmodernismo, in grado di conservare un rapporto non ingenuo con la scienza e di fermare le derive epistocratiche ed autoritarie.
A prescindere dalla legittimità della tesi per cui l’ontologia foucaultiana costituirebbe una forma estrema di culturalismo, infatti, rimane indubbio che lo studio dei rapporti tra scienza e potere, in Foucault, si sia sempre tenuto ben alla larga sia dal rischio di relativismo antiscientifico, sia da quello di libertarismo reazionario. Ciò che Foucault ha infatti senza sosta indagato durante tutto l’arco della sua carriera è l’insieme complesso di relazioni che legano la nascita dei saperi allo sviluppo di forme di potere, senza che la differenza tra di essi collassi mai nell’indistinzione. Egli ha mostrato come nuovi dispositivi di potere – dall’asilo psichiatrico all’esercito, dalla fabbrica all’ospedale – costituissero altrettante condizioni di possibilità per la nascita di nuovi saperi, a loro volta in grado di perfezionare e potenziare l’azione di quei dispositivi, senza tuttavia mai teorizzare un rapporto di discendenza diretta tra i due poli. Il suo obiettivo non è mai stato, infatti, quello di vedere del mero potere dietro a ogni forma di sapere, ma di mostrare il modo complesso in cui entrambi costituiscono lo spessore materiale e concreto di ogni momento storico contingente – i rapporti di forza che lo attraversano, i discorsi che vi sono possibili – con l’obiettivo di fornire una cartografia provvisoria delle possibilità limitate e radicalmente storiche di costruzione libera di se stessi nel presente: un’ontologia dell’attualità al servizio di pratiche di libertà che non cercano un fuori assoluto dal potere, in un libertarismo sterile quanto tendente a farsi reazionario, né sono scettiche verso ogni forma di sapere, in un relativismo assoluto e in ultima analisi antiscientifico, ma cercano, nella storia e nell’intreccio di poteri e saperi che le costituisce, di rilanciare il progetto di una costruzione libera del sé – una libertà che, essendo immersa nella storia, riconosce profondamente, con una postura nient’affatto “libertaria” o “relativistica”, la materialità che ha di fronte e che costituisce il suo presente, e i poteri e saperi che la costituiscono.
Che fare dunque, all’altezza della crisi pandemica ed ecologica, di questa concezione non ingenua del rapporto tra potere e sapere? Essa non serve affatto a diffondere relativismo verso la scienza dei cambiamenti climatici o verso l’epidemiologia, e per giustificare di conseguenza rivendicazioni libertarie reazionarie basate su forme di antiscientismo rudimentale. Al contrario, essa ci permette di scavare un solco tra le necessità teoriche e politiche espresse dalla crisi pandemica ed ecologica e le derive a cui tali esigenze possono essere vulnerabili, poiché essa ci spinge a porre in modo nuovo, e radicale, la questione del rapporto tra scienza e democrazia. Essa, infatti, costituisce uno strumento fondamentale per denunciare la natura inevitabilmente ideologica di una visione neutra del sapere scientifico, permettendoci di stroncare sul nascere tentazioni autoritarie e attitudini epistocratiche attraverso una potente, e virtuosa, democratizzazione della scienza.
Ciò non significa affatto rendere le conclusioni scientifiche materia di dibattito democratico: come se fosse un’assemblea democratica a dover decidere della verità dei dati sul cambiamento climatico o sulla diffusione di un virus. Significa, al contrario, pensare a spazi e istituzioni democratiche in grado di svolgere in modo nuovo il ruolo di mediazione tra scienza e opinione pubblica democratica; significa abbandonare posture epistocratiche ed elitiste, tornando a distinguere tra l’ignoranza e le sue cause sociali, economiche e politiche e le sue strumentalizzazioni da parte delle destre populiste e fasciste, e creando al contrario spazi di dibattito e discussione capillari in grado di frenare sul nascere i fenomeni del complottismo e del negazionismo; significa rilanciare, così facendo, nuove modalità di partecipazione democratica attiva e di responsabilizzazione collettiva come antidoto ad ogni tentazione autoritaria; significa, insomma, porre la necessità di forme di sperimentalismo istituzionale democratico-radicale come ulteriore, imprescindibile risposta politica da sinistra alla crisi pandemica ed ecologica. Una biopolitica della cura ed ecologica è, vorremmo dire, necessariamente anche una biopolitica radicalmente democratica, o rischierà sempre di trasformarsi nella versione pericolosamente distorta di se stessa.
D’altronde, è precisamente questa l’ultima parola con cui Foucault ci ha lasciato, ormai quasi quarant’anni fa. Nei suoi ultimi corsi dedicati alla parresia, infatti, egli ha posto con rigore il problema del rapporto costitutivamente fragile tra verità e democrazia, mostrando la possibilità di un utilizzo – quello parresiastico – della verità che non aspira a fagocitare la democrazia, ma al contrario a rimetterla in funzione e a ripensarla alla radice: o meglio, a rimetterla in funzione riportandola alla sua radice, attraverso un attacco feroce al conformismo in grado di riaprire quella discussione orizzontale, partecipata e libera che è il suo unico principio. Nella parresia, la verità rivitalizza la democrazia in modo tanto radicale da rimettere ogni cosa – ma prima di tutto se stessa – in discussione: una rigenerazione che è precisamente quella che le crisi pandemica ed ecologica dovrebbero provocare sulle nostre democrazie.
Foucault è allora, in ultima analisi, il nome, questa volta non vuoto ma estremamente concreto, di una serie di strumenti essenziali per costruire una risposta radicale da sinistra alle crisi che segnano e continueranno a segnare il nostro tempo. Tornare alla sua opera con questo sguardo, e sulla base di queste urgenze – piuttosto che lasciarsela definitivamente alle spalle – è, a parere di chi scrive, un modo di uscire vivi dal conflitto in corso.
Compito arduo, si dirà. Utopico, forse. Può darsi, ma consolerà quantomeno sapere che non dobbiamo partire da zero. L’esigenza di un superamento del culturalismo postmoderno e del suo oblio della realtà non umana attraverso una riflessione radicalmente nuova sulla materia, in grado al contempo di porre la questione ecologica e di rifiutare una visione ingenua e positivista della scienza, è ciò che un’intera scuola del pensiero femminista pensa ormai da decenni. Forse la filosofia politica dopo la pandemia non dovrà necessariamente prendere la forma (sinistra, più che di sinistra) dei post-coronial studies recentemente proposti da Ferraris; forse si tratta al contrario di ascoltare chi il mondo ha sempre cercato di trasformarlo davvero, senza compatirlo né compatirsi, imparando (di nuovo) a vederlo da un punto di vista situato ma non per questo irrazionale, e ad articolare a partire da quest’ultimo una politica radicale in grado di coniugare l’esigenza della cura – degli altri e del mondo – e quella della libertà.
Note
[1] Riprendendo una formulazione di Clover, Lorenzini ha descritto in modo particolarmente efficace i riferimenti a Foucault e in particolare al concetto di biopolitica come un vero e proprio “genere (letterario) della quarantena”: cfr. D. Lorenzini, Biopolitics in the time of Coronavirus, Critical Inquiry, 47, S2 (2021), pp. 40-45.
[2] Si veda ad esempio B. McQuade, M. Neocleous, Beware: medical police, Radical Philosophy 11, 8 (2020), pp. 3-9.
[3] Cfr. A. Sotiris, Thinking beyond the lockdown: on the possibility of a democratic biopolitics, Historical Materialism 28, 3 (2020), pp. 3-38, ma si consideri anche il concetto di dual biopower sviluppato da Toscano: A. Toscano, The state of the pandemic, Historical Materialism 28,4 (2020), pp. 3-23. Entrambi questi interventi si mostrano in realtà attenti anche alla questione dell’autoritarismo insito in certe misure di gestione della pandemia come il lockdown, ma a partire appunto dall’esigenza di sviluppare forme di (bio)politica della cura dal basso, mostrando dunque diagnosi teoriche e esigenze politiche profondamente diverse da quelle incarnate, ad esempio, da McQuade e Neocleous.
[4] La presentazione più rigorosa e organica di questa tesi resta senz’altro quella proposta da Malm, alla quale per altro Davide Gallo Lassere ha proposto, su queste pagine, un’ampia e stimolante lettura: si veda A. Malm, Corona, Climate, Chronic Emergency: war communism in the twenty-first century, Verso, London-New York 2020, trad. it. a cura di V. Ostuni, Clima corona capitalismo. Perché le tre cose vanno insieme e che cosa dobbiamo fare per uscirne, Ponte alle grazie, Firenze 2021.
[5] La tesi, già habermasiana, della natura reazionaria dei cosiddetti pensatori postmoderni è stata di recente riportata in auge nel contesto di quella che è difficile non definire una offensiva ideologica di vasta scala della sinistra liberal, specie anglosassone, contro i populismi di destra. Secondo questo tipo di discorsi, che costituiscono un interessante aggiornamento di posizioni come s’è detto già presenti nel dibattito accademico e politico dell’Occidente fin dagli anni Ottanta, Foucault e gli altri postmoderni sarebbero rei di aver legittimato un relativismo assoluto verso ogni forma di verità e di oggettività, che avrebbe di fatto favorito la nascita del fenomeno della post-verità (fake news, complottismo, ecc.) e la conseguente ascesa dei populisti di destra negli anni Dieci: questa colpa costituirebbe la dimostrazione definitiva della natura essenzialmente reazionaria di tutti questi pensatori. Si tratta di discorsi che è possibile ritrovare facilmente nel dibattito pubblico generalista – un esempio particolarmente significativo è un editoriale del New York Times del Maggio di quest’anno, firmato dall’opinionista conservatore Ross Douthat, e intitolato significativamente How Foucault lost the left e won the right (https://www.nytimes.com/2021/05/25/opinion/michel-foucault.html), ma anche le prese di posizione molto decise di Michiko Kakutani, celebre critica letteraria e su posizioni liberal di sinistra, pubblicate sul Guardian in un articolo dal titolo The death of truth: how we gave up on facts and ended up with Trump (https://www.theguardian.com/books/2018/jul/14/the-death-of-truth-how-we-gave-up-on-facts-and-ended-up-with-trump) –, ma anche all’interno di pubblicazioni scientifiche: sia McIntyre che D’Ancona, tra i principali filosofi politici ad essersi occupati di post-truth, annoverano esplicitamente Foucault e i postmoderni tra le cause di quest’ultima; al cosiddetto postmodernismo di destra o conservatore McManus ha dedicato, nel 2020, un’intera monografia, intitolata appunto The rise of post-modern conservatism.