di Thomas Harrison
[È uscito da poco per The University of Chicago Press Of Bridges. A Poetic and Philosophical Account di Thomas Harrison. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la traduzione dell’introduzione a cura di Alberto Comparini].
Ottimi libri sono stati scritti sui ponti – sulle loro funzioni tecnologiche, le leggende, le rappresentazioni nell’arte e nella letteratura – ma pochi hanno indagato il modo in cui viviamo quelle strutture. Cosa abbiamo di preciso in mente quando costruiamo o attraversiamo dei ponti? Cosa ci porta a pensare di una cosa, ma non un’altra, come ponte?
Ovunque andiamo, siamo connessi l’uno all’altro: alle nostre famiglie, alle nostre carriere, ai percorsi che intraprendiamo. Il ventunesimo secolo ci vede estesi più che mai, collegati a reti apparentemente infinite e a questioni che ci riguardano da vicino. Da un lato questa condizione presenta opportunità inaudite per l’interazione e la democrazia cooperativa; dall’altra ci lascia esposti in modi sempre più difficili da controllare, provocando appelli per confini più stabili e trinceramenti più intensi. Più siamo connessi, più ci rendiamo suscettibili all’ansia di accesso. La promessa di connessione spesso viene delusa. E poi, con tutti questi ponti esteriori, quali legami ci creiamo dentro, nel mondo interiore della soggettività? Benché i ponti siano la questione primaria del nostro tempo, non abbiamo ancora riflettuto abbastanza su cosa siano e cosa debbano essere.
In una certa ottica appaiono come invenzioni trascendenti e angeliche. In quella luce li presenta spesso la letteratura. “Quando Allah il potente ebbe creato questo mondo”, scrive il premio Nobel Ivo Andrić, “la terra era piana e liscia come una bellissima padella di smalto. Ciò dispiaceva al demonio, che invidiava all’uomo quel dono di Dio. E mentre essa era ancora quale era uscita dalle mani divine, umida e molle come una scodella non cotta, egli si avvicinò di soppiatto e con le unghie graffiò il volto della terra di Dio quanto più profondamente poté”. La devastante opera del diavolo creò burroni e fiumi, fendendo crepe tra le creature di Dio. In risposta, Dio inviò angeli a spiegare le ali sopra queste voragini, permettendo agli umani di attraversarle e di vivere in armonia. “È così che gli uomini hanno imparato dagli angeli di Dio come costruire ponti, e per questo, dopo la fontana, la più grande buona azione è costruire un ponte, così come il peggiore peccato consiste nel metterci addosso le mani”.[1] I ponti sono stati un dono divino per riparare rotture diaboliche.
Da un altro punto di vista, tuttavia, la natura ha ottime ragioni per i suoi fiumi inaccessibili e le sue montagne insormontabili. Solo forze diaboliche oserebbero attraversarle, interferendo con l’ordine della natura, in fondo per placare solamente i desideri degli uomini. È così che abbiamo perso il Paradiso, secondo il poeta John Milton. Una volta, ci dice, il mondo degli umani dipendeva solo dal Cielo, e da lì pendeva felicemente come un ciondolo all’estremità di una catena. Satana ha cambiato tutta quella perfezione in un colpo solo. Avanzando a tentoni dall’Inferno alla terra attraverso l’oscurità del Caos, Satana poi progettò un ponte sulle sue tracce. Su di esso ha inviato i suoi figli (il Peccato e la Morte), i primi “immigrati” del mondo, che hanno portato rivalità e disagio, orgoglio e desiderio inappagabili nella vita degli esseri umani. In Paradise Lost l’insulare Milton non aveva molto di buono da dire sui ponti e indirizzò gran parte della sua ostilità al più grande costruttore di ponti del suo tempo, il pontifex maximus, o Papa, di Roma, i cui legami con le isole britanniche all’epoca ponevano un problema notevole. Oltretutto, secoli prima di Milton, gli umili cattolici d’Europa avevano già dato il nome di ponte del diavolo, o pont du diable, alle strutture costruite in perigliosi passi di montagna. Le loro campate grottesche e vacillanti sembravano innaturali, arroganti e rovinose.
A seconda del punto di vista l’estremità da cui si guarda, le costruzioni degli angeli possono sembrare quelle dei diavoli. La stessa ambiguità segna la distinzione tra ponti materiali e ponti spirituali. Il primo ponte materiale sarà stato un tronco calato su un ruscello per estendere il foraggio di cibo. Le costruzioni in pietra hanno ottenuto risultati più duraturi e di vasta portata. Quello che è stato utilizzato, ininterrottamente, più a lungo, così riporta il Guinness World Records, si trova nella mia città natale, Izmir, in Turchia: il Pont des Caravans (Kervan Köprüsü), costruito intorno all’850 a.C. Alcuni dicono che lo stesso Omero lo abbia attraversato da ragazzo. Per quasi 3000 anni questo Ponte delle Carovane ha sperimentato la stessa “successione costante di treni di cammelli, cavalli, muli e asini” che Herman Melville descrisse in una pagina di diario del 20 dicembre 1856. Lì le carovane dirette a ovest raggiunsero la fine della rotta commerciale più lunga e importante del mondo antico: la Rotta Assira, che si estendeva per 2500 chilometri dalla capitale imperiale di Susa al porto di Smirne, come si chiamò per secoli Izmir. Tuttavia, per consegnare la sua merce alle barche che solcavano il Mediterraneo, la Rotta Assira doveva ancora superare un ultimo piccolo ostacolo sul suo percorso: lo stretto fiume Meles. Fu su questo fiume che venne costruito il Ponte delle Carovane, ad arco singolo, in lastre di pietra, ed è qui che si trova ancora oggi.
Il minuscolo ponte era di inestimabile importanza. Collegava due massicce masse geologiche – la terra e il mare – percorse dagli esseri umani su strada e in barca. Nei millenni trascorsi dall’850 a.C., il significato socioeconomico di quell’attraversamento è aumentato in modo esponenziale. Ora, su tre colossali ponti sospesi, 380.000 veicoli attraversano ogni giorno i continenti dell’Europa e dell’Asia a nord di Izmir.
I ponti spirituali sono meno vistosi ma non meno critici. Alcuni sono religiosi, legano i credenti a regni che vanno oltre il mondo fisico, i loro legami sono mantenuti dall’adorazione e dal rituale. Il primo capitolo di questo libro, The Great Bridge-Building of God, esamina una serie di varianti, dagli arcobaleni dei nativi americani ai ponti di uccelli tra divinità astrali nelle leggende cinesi e giapponesi. Altri ponti sono letterali e trasportano i lettori in un mondo di idee. Molti di questi compaiono anche in questo libro, in particolare nel capitolo Word Bridges, dove mi soffermo direttamente sulla questione dell’espressione prosaica e poetica, sostenendo che quanto più nuova e deliberata è tale espressione, tanto più ampiamente essa lega le parole in rapporti metaforici (la parola “metafora” significa originariamente trasferire una cosa al posto di un’altra). Da questa analisi emergono infine scrittori bilingui e interlinguistici, che sono esaminati separatamente nel capitolo Sea Bridges and Selves, dove lo spazio transculturale del Mar Adriatico suggerisce che espressioni apparentemente semplici e dirette del sé essenzialmente aggirino l’intero problema dello scambio intellettuale.
I ponti musicali si trovano negli stessi dintorni di quelli letterari, forgiando e rafforzando i legami comuni. La musica blues è un caso esemplare in Musical Bridges, incrociando generi, razze e continenti in un movimento di avanti e indietro. Questo capitolo inizia situando la musica all’interno di una fenomenologia generale dell’udito, un senso che avvicina l’assente e consente ai corpi di registrare la loro soggettività attraverso le voci. Of Bridges contiene discussioni su molti altri ponti di questo tipo, in variazioni etiche, affettive e filosofiche.
Infine, tuttavia, la distinzione tra ponti materiali e spirituali è traballante quanto quella tra ponti religiosi e ponti diabolici. I ponti del commercio e della guerra hanno influenzato il pensiero umano in modo più decisivo degli scritti di Platone e Kant. Gli imponenti ponti di pietra di Roma spinsero non solo i battaglioni in Europa, ma promossero l’intera ideologia del caput mundi, o della Capitale del mondo. I capitoli Sea Bridges and Selves e Bridge Brothers and Foes evidenziano le condizioni storico-sociale del contatto culturale e spesso sfidano posizioni collettive. I territori contesi e condivisi qui includono i Balcani durante l’epoca delle guerre jugoslave ed epoche considerevolmente più lunghe e problematiche tra turchi ottomani e i loro vicini cristiani. Un altro capitolo, Bridged Disconnection, racconta come i ponti materiali furono distrutti durante la seconda guerra mondiale, lasciando il posto all’erezione dei muri della guerra fredda, cui sarebbero seguiti gli sforzi di costruzione dei ponti dell’Unione europea, un’alleanza recentemente in crisi, su posizioni difensive, ma che continua a competere con altre mega entità politiche ad erigere mega ponti. Ogni ponte redditizio è infatti al servizio contemporaneamente sia di scopi materiali che simbolici.
Potremmo fare un ulteriore passo avanti e dire che le culture stesse sono ponti, composti da migliaia di strutture di collegamento. Il filosofo Friedrich Nietzsche ha allegorizzato la condizione in un’immagine della vita umana come una corda tesa su un abisso. Da un lato la natura si trova allo stato grezzo e dall’altro c’è un’idea di natura che segue la volontà della specie. L’umanità, in quanto artefatto e artefice della cultura, non è tanto la corda, tessuta da più fili tesi, quanto il passaggio attraverso di essa. Non è che scegliamo questa passeggiata sul filo del rasoio; senza dubbio preferiremmo un posto fisso e stabile rispetto alla sua sospensione vacillante: eppure non abbiamo scelta. Collegati al centro del nostro essere e incapaci di operare isolatamente, siamo agenti dell’esistenza-ponte. Possiamo solo scegliere il modo migliore per gestire le nostre connessioni. Quanto dovrebbero essere stretti o larghi i nostri ponti? Quanti ponti dovremmo costruire, e per servire quali destinazioni? Queste sono le domande che incontriamo sul nostro pons asinorum, o “ponte dell’asino”, come i pensatori medievali chiamavano il passaggio critico richiesto da un problema. Gli attraversamenti dei ponti che effettuiamo dipendono dalle letture che diamo del ponte su cui ci troviamo. Il capitolo Living on the Bridge legge questo punto di transizione come ultima dimora, producendo unioni affettive tra i transitori in cerca di elemosina e riparo.
Lo storico dell’arte John Ruskin ci consigliò di sviluppare l’arte di “leggere un edificio come usiamo leggere Milton o Dante”.[2] Ci lasciò un modello per questa proposta teorica in The Stones of Venice (1853), uno studio che ha ispirato due generazioni di lettori a riconoscere le idee nella forma. Se dall’era post-Ruskin non è emersa una lettura specificamente mirata ai ponti, un breve saggio del 1909 ha fornito un esempio di come si potrebbe procedere. È il saggio di sei pagine Brücke und Tür (1909), interpretazione della forma-ponte da parte del filosofo Georg Simmel. La comprensione architettonica che il saggio fornisce può essere facilmente estesa oltre le caratteristiche formali dei ponti materiali verso le loro determinazioni storiche, le loro associazioni culturali e le connotazioni simboliche, elaborate in schemi concettuali, figurativi e metaforici. Un breve riassunto del saggio di Simmel può mettere in rilievo il modo in cui la forma-ponte tenda in queste direzioni.
Ponti, strade, porte, finestre e muri hanno questo in comune, nota Simmel: collegano tutti gli spazi e li tengono separati. Sono diversi, tuttavia, nelle loro ripercussioni affettive e intellettuali. Hanno effetti esistenziali distinti. La porta pone una barriera dinamica e drammatica. Consente il movimento verso l’interno e verso l’esterno. E questo chiaramente non è il caso di un muro. Eppure, proprio perché una porta può essere aperta e chiusa, scrive Simmel, crea “comunica in modo più entenso di qualunque parete ceca la sensazione di uno spazio richiuso su se stesso”. Si potrebbe dire, poeticamente, che il muro “è muto, ma la porta parla”. Quando usciamo da una porta attiviamo la nostra libertà di superare i limiti, abbracciando una direzione potenzialmente illimitata. La scelta di dove andare spetta a noi. Quando saliamo su un ponte, al contrario, ci impegniamo in un’unica direzione. Sebbene il movimento del ponte sia reversibile, c’è “una totale differenza di intenzione tra entrare e uscire da una porta”.[3]
La divisione interno-esterno della porta è ancora una volta diversa da quella delle finestre. Una finestra crea solo un’apertura parziale dallo spazio interno a quello esterno. Esiste “per guardare fuori, non per guardare dentro”, per cui le tende sono solitamente poste all’interno (tranne nel caso proverbiale dell’Olanda, dove le finestre senza tende dichiarano che gli abitanti di questo paese non hanno nulla da nascondere, e che non sono neanche voyeur). Dato che si attraversa una finestra solo con lo sguardo, manca il “significato profondo e primordiale della porta”.[4]
Una strada collega spazi più estesi di una finestra o di una porta, e in modo molto più definitivo. Solo gli esseri umani hanno la capacità di costruire strade, credeva Simmel, che non ha avuto il vantaggio di leggere gli studi successivi sulla cognizione animale. Gli animali attraversano regolarmente distanze anche maggiori degli umani, osserva, “e spesso nei modi più intelligenti e difficili”;[5] ma per loro i punti di partenza e di arrivo rimangono separati. Stabilendo un percorso tra due luoghi, i primi uomini compirono un’impresa simbolica radicale e veramente decisiva: legarono un luogo di origine a un luogo di destinazione. Qui, come in molte altre situazioni, si dimostrano creature che “non riescono a unire senza separare”.[6] Anche quando pensiamo a due luoghi come separati, li uniamo nel pensiero.
Il superamento della separazione topografica raggiunge il suo apice in un ponte. Un ponte, a differenza di una strada, supera non solo una divisione passiva dello spazio, ma anche un’attiva e drammatica fenditura della natura: uno specchio d’acqua o una gola. Il ponte è una costruzione più fantasiosa, ingegnosa, artificiale e astratta di altre, motivo per cui spesso appare pittoresco e talvolta persino surreale. Un ponte genera effetti concettuali ed estetici oltre a quelli pratici. Dà forma visibile all’idea di unione, evidenziando un’integrazione umana della natura. Ha un “rapporto meno casuale con le rive che unisce di quanto non abbia la casa con la sua terra e con le sue fondamenta, che sono nascoste sotto di essa”. Una strada è consustanziale non solo con il suo luogo di partenza e di arrivo, ma con l’intero spazio intermedio. Nella sua vistosità, un ponte disegna le sponde opposte di un fiume in “un’unicità che è di tipo completamente spirituale”.[7] Fa consistere “il movimento in una creazione solida”.[8] Finestre, porte, strade e muri non producono una impressione di connessione tanto sentita. Un ponte richiama alla mente il lavoro di fabbricazione degli esseri umani.
Così, con pochi tocchi audaci, il saggio di Simmel traccia una fenomenologia delle strutture architettoniche. Ci sintonizza cogli effetti figurativi di quelle strutture nella cognizione umana, incoraggiandoci a esplorare le loro ulteriori implicazioni. Ci prepariamo così a notare, ad esempio, l’effetto rappresentativo dei muri, come in una delle storie più straordinarie mai raccontate: Bartleby, the Scrivener di Melville. Lo scrivano lavora a Wall Street, dove trascorre la maggior parte della giornata a fissare il muro di un edificio di fronte alla sua finestra. Si comporta pure come un muro. Ogni volta che l’avvocato che lo ha assunto gli chiede di adempiere a un incarico, lui risponde: “Preferirei di no”. Prima di accettare questo impiego Bartleby lavorava nel Dead Letter Office del servizio postale. Che cosa ci faceva? Rispondeva alle lettere spedite a persone ora decedute dicendo: “Mi dispiace riferire che il signor Tal dei tali è morto…”. Così Bartleby aggira il muro che separa il mittente dal destinatario. Alla fine del racconto Bartleby viene ritrovato morto accando a un muro di “The Tombs”, il carcere giudiziario. Questa conclusione lega i muri alle istituzioni della giustizia, facendoci anche capire come la retorica dei muri si faccia strada in ambiti politici, come Wendy Brown evidenzia nel libro Walled States, un voume che indaga come i membri di un paese affrontano il progetto o la fantasia di rendere la loro nazione grande difendendola dai vicini.
I discorsi politici, psicologici e letterari invocano altrettanto facilmente camere da letto, corridoi, scantinati e soffitte. Franz Kafka presta un’attenzione eccezionale alle finestre, affascinato non dallo sguardo casuale rivolto al loro esterno quanto dalla loro capacità di sorvegliare. Le finestre di Kafka trasformano soggetti visibili in oggetti da monitorare. Sono portali attraverso i quali i personaggi vengono seguiti mentre passeggiano per le strade.
Come evidenziano questi esempi, le strutture architettoniche acquisiscono senso tramite le loro elaborazioni concettuali e culturali. L’esposizione geospaziale della forma-ponte, come quella di Simmel, ci invita a indagare le articolazioni sociali, storiche e intellettuali della forma stessa. Qui la forma fiorisce in figura, sviluppandosi nelle rappresentazioni letterarie, pittoriche e filosofiche, espandendosi discorsivamente in miti e leggende. Se la porta parla dove il muro è muto, il ponte parla più forte di entrambi. Si presta di più alla simbolizzazione.
Il libro Figure del ponte di Alberto Giorgio Cassani a buon titolo getta le basi per questo studio più ampio in cui i ponti diventano simboli o figure.[9] La conversione, infatti, è praticamente automatica: la forma diventa figura al momento in cui un ponte rivela più di quanto sembri, e lo fa quasi sempre. Ad esempio, dopo aver annesso la Crimea nel 2014, Vladimir Putin ha legato quella penisola alla Russia tramite un ponte. Se il ponte in senso ideale suggerisce una connessione reciproca, un legame di uguali, il ponte di Putin corrompe quella forma. È uno pseudo – o finto – ponte, che trasforma la Crimea in un’appendice del territorio vicino. Vale a dire che i ponti possono servire intenzioni aggressive, invasive, appropriative quanto a relazioni reciproche; alcuni funzionano anche alla maniera dei muri, argomento del capitolo Bridged Disconnection.
Centinaia di ponti storici presentano sfumature simboliche. Ad esempio, l’effetto pratico del Golden Gate Bridge era quello di alleviare il traffico dei traghetti sulla baia di San Francisco. L’effetto più profondo e spettacolare invece fu quello di unire la tecnologia alla natura all’estremità continentale della civiltà americana. Senza il volere di nessuno il ponte ha anche invitato al suicidio, legame da cui fa fatica ora a liberarsi. Il ponte creò l’effetto ausiliario di rivelare la sublime contraddizione tra la piccolezza umana e il vasto oceano davanti a essa. Insieme al primo capitolo di questo libro, The Bridge as Gallows riflette sulle giunzioni-ponti verso i regni dell’aldilà, siano esse cupe nella mente o vivacemente immaginate.
Più storie sono state raccontate sui ponti probabilmente che su qualsiasi altro manufatto umano. Ogni ponte ne racconta almeno una. L’ingegnere del ponte di Arta in Grecia avrebbe murato un essere umano vivo nelle sue fondamenta per fortificarlo contro l’assalto delle acque. Il ponte Morandi a Genova (1967), all’epoca una notevole impresa tecnologica, acconsentendo a milioni di italiani di percorrere le autostrade della Liguria, crollò appena cinquant’anni dopo la data della sua costruzione, portando via con sé 43 vite. L’evento così alimenta due concetti diffusi: la precarietà dei ponti, soprattutto quando sono tecnologicamente arditi, e l’inadempienza al dovere proverbialmente associate all’amministrazione pubblica italiana. Ogni ponte ha la sua storia, nel duplice senso di racconto e di verità dei fatti.
Grazie alle loro associazioni, i ponti prendono l’aspetto di sottoinsiemi concreti di fenomeni più astratti: la trascendenza, il rischio e così via. La nozione-ponte fa strada nelle figure del pensiero e della lingua. “Build bridges, not walls” (“Costruite i ponti, non i muri!”) si sente spesso dire oggi. Generazioni precedenti erano più inclini ad ammonire, “Don’t burn your bridges!” (“Non bruciarti i ponti!”) oppure “We’ll cross that bridge when we get to it” (“Attraverseremo quel ponte al momento opportuno”) o “That is water under the bridge” (“Ne è passata di acqua sotto il ponte”).[10] I presupposti concettuali di tali espressioni sono chiari: i ponti implicano transizione e cooperazione, coordinamento opportuno ed efficace, apertura e reciprocità. Più difficili da avvertire sono le evoluzioni più complesse ed eloquenti dei concetti-ponte nella letteratura e nell’arte; nei luoghi in cui operano in maniera quasi invisibile; nella distinzione non sempre ovvia tra connessioni pontili e meri contatti o interazioni.
A questo livello più elevato, o più sottile, fenomeni analoghi a ponti materiali vengono costruiti attraverso impegni morali, legami affettivi, relazioni immaginative e intellettuali. Sono formati da credenze teoriche ed etiche. Naturalmente, a un certo livello, tutto nel mondo è un ponte, compresi i corsi d’acqua e i cieli attraverso i quali voliamo – ma solo a condizione che li interpretiamo come tali, il che non si verifica nel caso di approcci frammentati e localizzati alle stesse vie del cielo. Bisogna avvalersi del pensiero-pontificante per capire come gli scarichi nel cielo di una nazione si trasportano all’altro lato del globo. Il pensiero-pontificante comporta anche un attraversamento attivo di divisioni concettuali, culturali e storiche. Il pensiero si dà come ponte, quando getta fondamenta in terre straniere. Le tecnologie e le istituzioni sociali fanno lo stesso, spesso modificando le loro funzioni quando raggiungono nuovi approdi. Poi ci sono ponti che non portano da nessuna parte, come pont où nul se passe: i loro obiettivi pratici ed emotivi non giungono mai a destinazione, forse proprio perché la destinazione non è stata pensata a fondo fin dall’inizio.
Ecco alcuni aspetti di ponti che esplorerò nei capitoli che seguono; ognuno nasce da un complesso insieme di casi storici e di interpretazioni estetiche. Alcuni ulteriori tratti e principi teorici possono completare questa introduzione.
I ponti prendono forma all’interno di una topologia di separazione. Presuppongono confini geologici o geoculturali, e talvolta oltrepassano perfino divisioni nazionali. Il fiume Suchiate tra Guatemala e Messico è un chiaro esempio, anche se nelle attuali condizioni politiche per la maggior parte delle persone è più facile fare la traversata in gommone. L’estuario del fiume Han tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, che ormai quasi nessuno attraversa in alcun modo, è un’altra di queste divisioni.
I ponti contrastano, resistono o superano le dinamiche dell’elemento divisore, sia esso acqua o aria. Legano territori che rimangono dissimili pur nella loro unione. Un ponte consente solo un’interazione limitata. Non neutralizza le differenze tra le rive o i popoli che collega. Non crea sintesi, ma coppia, esperienza vitale di stare insieme.
Stabilendo un rapporto, il ponte trascende le differenze che unisce. È un terzo spazio o termine tra di loro, un passaggio attraverso il quale ci muoviamo tra cose confinate, che richiama l’attenzione sull’incontro di luoghi visibilmente sconnessi. Martin Heidegger ha messo in rilievo alcuni aspetti del problema in un saggio che ha ricevuto la sua giusta dose di attenzione critica (Bauen Wohnen Denken), e così ha fatto la psicologa analitica Rosemary Gordon.[11] I ponti, intesi come connessioni, sono essi stessi materiali critici per la riflessione.
È necessario che i ponti siano solidi, non fugaci e instabili come molti legami del nostro mondo virtuale, liquido e digitale. Nell’attraversare un ponte non scivoliamo sull’acqua né avanziamo da una pietra all’altra. I piloni di un ponte sono ben piantati nel letto del fiume. I flussi liquidi non prestano supporto per i collegamenti. Immaginate se la città di Roma cambiasse le sue caratteristiche essenziali ogni cinque o dieci anni, non continuando a esistere in architetture fisse a cui si può tornare. Ciò che è progettato per esistere oggi ma sparire domani non lascia molto spazio su cui costruire. “L’interruzione, l’incoerenza, la sorpresa sono le condizioni ordinarie della nostra vita”, osservava Paul Valéry un secolo fa, costernato dal problema della discontinuità mentale.[12] È più probabile che l’humus della noia, che alla fine sollecita una concentrazione prolungata, produca connessioni che durano. E “le cose sono grandi”, diceva Longino duemila anni prima, “perché la loro connessione è talmente ordinata con esse da creare una solida struttura”.[13] Abitare una città come Roma o Bologna è già essere legati al passato, dissuasi dall’oblio. Ovviamente ci sono anche ponti impermanenti – quelli retrattili, ponti levatoi, ponti che vengono bruciati – ma li valutiamo in riferimento alla regola. I passaggi forgiati tra gli spazi richiedono comprensione degli stessi spazi.
Un ponte ci conduce altrove, ma senza tagliarci il punto di partenza. Accede a un luogo da cui possiamo fare ritorno (in linea di principio, se non sempre nell’ordine dei fatti: per il Ponte dei Sospiri a Venezia si entrava in una prigione, spesso per non uscirne più, se non come cadavere.) Il ponte non è un portale per più percorsi, non un gateway, un rizoma, una rete o un’interfaccia. Sebbene riusciamo a collegare molti fenomeni che incontriamo, più numerosi sono i collegamenti, meno rimangono esperienze-ponte. Un mondo iperconnesso è un labirinto.
Salire su un ponte è seguire una destinazione non del tutto chiara. Eppure uno scintillìo teleologico spinge il movimento. Attraversiamo i ponti con uno scopo. I viaggi stradali sono più improvvisati. Quelli in barca sono ancora più aperti. La destinazione del ponte accenna come un segno, o meglio un simbolo: indica il contenuto latente del manifestato, oltre l’attualità, che pare incompiuto e quindi spinge al ponte per cominciare. Il ponte non è mero simbolo, ma simbolo dei simboli, un mezzo per raggiungere una terra dal significato nascosto.
Sul ponte ci avviamo dal familiare in direzione dell’insolito. L’impostazione del ponte è essa stessa insolita, uno strano non-luogo di transito, di un divario, della relazione e del tenere in comune. Passare al ponte è venire a patti con la diversità. La scrittura immaginativa fa lo stesso, porta da pratiche familiari a nuove comprensioni. Leggere inverte il passaggio, riporta scoperte dalla regione dello strano al già saputo. Sperimentiamo lo stesso quando ascoltiamo. La decodificazione di suoni e di intenzioni che giungono all’orecchio è indagata nel capitolo Musical Bridges. Gli spazi dell’ascolto, della lettura e della scrittura, percorsi avanti e indietro, appartengono al pensiero. Li percorriamo anche nella fantasia, nel ricordarsi del passato, nel decidere il futuro.
Alcune traversate producono eventi-ponte. Quando ottengono effetti collettivi possono anche essere storici-mondiali. Ma nell’arco di una vita personale la maggior parte sono microstorici: crisi d’amore, una morte in famiglia, la dipartita per un nuovo paese, un cambio di carriera. Eventi di natura critica portano una forma di vita verso un’altra. Tuttavia, il nuovo terreno soggettivo che si apre non rimpiazza quello precedente, ma gli si lega. Le esperienze si trasformano in eventi-ponte solo a condizione che il soggetto accolga “l’aldilà” a cui mirano.
Determinanti in maniera essenziale, gli eventi-ponte non lasciano inalterati gli elementi congiunti. Sono giunture a doppio senso, come nella scultura Tra memoria e oblio di Paolo Delle Monache (fig. 0.1). Posta al confine tra terra e acqua, guarda in due direzioni: la memoria porta in avanti un passato che è parzialmente sigillato dall’oblio. Un ponte è la struttura del doppio movimento. Se non si entra mai per due volte nello stesso fiume, la terra a cui si rientra è diversa da quella da cui si è dipartiti. Lo stato che una volta pareva semplice si mostra complesso.
Il ponte media, ma non definisce i termini della mediazione. Suscita il problema di come negoziare le differenze. “I miei amici sono i miei rivali; abitiamo su rive opposte del fiume”, annota Henry David Thoreau nel diario.[14] Interroga gli amici come rivali o i rivali come amici? Il rapporto si lascia manovrare in un senso come nell’altro. La tensione del rapporto rimane aperta. Nietzsche iscrive il problema in parole più personali:
Una volta nella nostra vita siamo stati così vicini che niente sembrava più ostacolare la nostra amicizia e fraternità e tra noi c’era ancora soltanto un piccolo ponticello. Mentre tu stavi appunto per mettervi piede, ti chiesi: “Vuoi venire da me per il ponticello?”. Ma allora tu non lo volesti più; e quando ti pregai ancora una volta, tu tacesti. Da quel momento tra noi sono state gettate montagne e fiumi travolgenti, e tutto ciò che separa e rende estranei, e se anche volessimo andare l’uno dall’altro, non lo potremmo più! Ma se ora ti ricordi di quel piccolo ponticello, non hai più parole – non ti sono rimasti che singhiozzi e stupore.[15]
Un giovane e disilluso György Lukács si chiede se le caratteristiche del ponte tra amici rivali non limitino i termini con cui si comportano. L’etica, scrive, “è un ponte che ci divide; un ponte sul quale andiamo e veniamo e torniamo sempre a noi stessi, senza mai incontrarci”.[16] Considerando il fatto che l’etica comporta la tendenza ad agire per conto degli altri, la preoccupazione di Lukács sembra controintuitiva. Ma l’etica è anche disciplina normativa, solidificata in dogma: dètta come interagire in modo perentorio. I suoi principi sono messi in discussione dalle esperienze umane più complesse e singolari, che ci abbandonano in momenti di lealtà combattuta. Superare le divisioni non vuol dire annullarle; alcune, infatti, vengono accentuate. La soluzione alle differenze è promessa o delusa dagli scambi abilitati dal ponte stesso.

Queste sono alcune idee estratte dallo studio che segue. Altre ancora derivano dalla messa in luce di casi concreti. Perché tutte le opportunità e le sfide costruite da un ponte oltrepassano i principi che dominavano prima della costruzione. Nell’offrire una soluzione nuova, ogni ponte crea a sua volta un nuovo problema.
[1] Ivo Andrić, Il ponte sulla Drina (1945), traduzione di Dunja Badnjević, Milano, Mondadori, 2016, pp. 518-519.
[2] John Ruskin, The Nature of Gothic, in The Stones of Venice (1835), vol. II, The Sea-Stories, Londra, Smith, Elder, 1873, p. 174.
[3] Georg Simmel, Brücke und Tür (1909), in Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst, und Gesellschaft, a cura di Michael Landmann, Stoccarda, Köhler, 1957, pp. 1-7, p. 4.
[4] Ivi, p. 5.
[5] Ivi, p. 2.
[6] Ivi, p. 6.
[7] Ivi, p. 3.
[8] Ivi, p. 2.
[9] Alberto Giorgio Cassani, Figure del ponte. Simbolo e architettura, Bologna, Pendragon, 2014.
[10] Daniel C. Strack commenta quasi due dozzine di usi idiomatici del ponte nel discorso metaforico, e se ne potrebbero identificare anche altre. Si veda il suo “The Bridge Project”. Strack ristampa altri suoi studi illuminanti sui ponti sul sito: https://www.dcstrack.com/
[11] Martin Heidegger, Bauen Wohnen Denken (1951), ora in Gesamtausgabe, vol. VII, Vorträge und Aufsätze (1936-1953), a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Francoforte, Klostermann, 2000, pp. 147-164; Rosemary Gordon, Bridges. Psychic Structures, Functions, and Processes, Londra, Karnac Books, 1993.
[12] Paul Valéry, Le bilan de l’intelligence (1935), in Œuvres, a cura di Jean Hytier, Parigi, Gallimard, 1957, vol. I, pp. 1058-1083, p. 1058.
[13] Longinus, Peri hypsous, cap. X.
[14] Henry David Thoreau, I to Myself, a cura di Jeffrey A. Cramer, New Haven (CT), Yale University Press, 2007.
[15] Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882), in Morgenröte, Idyllen aus Messina, Die fröhliche Wissenschaft, edizione critica a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Berlino, De Gruyter, 1967, libro I, §16, pp. 388-389.
[16] György Lukács, Von der Armut am Geiste, Ein Brief und ein Gespräch, «Neue Blätter», II, 5-6, 1912, pp. 67-92, pp. 71-72.