di Fabio Pusterla
[Esce oggi per la collana novecento/duemila delle Lettere, diretta da Raoul Bruni e Diego Bertelli, Da qualche parte nello spazio. Poesie 2010-2021, un’autoantologia di Fabio Pusterla, con un saggio di Massimo Natale e un autocommento dell’autore. Presentiamo alcune poesie (tra cui due inediti) e un estratto del saggio di Natale].
da Corpo stellare (2010)
LAMENTO DEGLI ANIMALI CONDOTTI AL MACELLO
Guarda: ci portano via. Nella canzone
dei giorni ci stramazzano. E cantiamo
per questa ultima ora: noi cantiamo
la nostra bellezza negata. E siamo vivi.
Vagano spore al vento, ali del cuore
che chiama il sangue a sé, che lo fa scorrere
nei fiumi delle vene, ai venti caldi
dei desideri che ci sono tolti. E siamo vivi.
E sono mari i nostri desideri,
percorriamo foreste di memoria
tra poco incenerite, ed ora splendide.
Cenere i tronchi, i mari in secca. Ma noi vivi,
vivi più vivi della mano che martoria. Chi ci nega
la luce ignora questo: siamo vivi
nella gloria del male che ci è dato,
nel silenzio del colpo che ci è inferto.
Muti, dimenticati.
*
UNA TELEFONATA A RAVECCHIA
a Pietro De Marchi
Porci – dici che disse da lontano: sono solo dei porci!
Lo si può immaginare
un po’ curvo sul telefono, lui alto,
con la sua voce sparsa di foresta e di vento, radicata
nei secoli e volante
leggera sulle povere cose e sulle grandi. Dei porci
neppure il nome vale la pena di citare, loro sanno
o non sanno di esserlo, e non cambia
una virgola o iota
nella crestomazia. Come quei ricchi che mettono
trappole e vetri e sorrisi di pietra ai giardini,
e anche peggio, magari
rotweiler, nanetti. A nord favonio
stampato sopra il muro, corpi azzurri
si specchiano in un’acqua senza tempo,
vagano assenti lungo superfici
liquide, indefinibili, dove tutto è possibile indolore
come dentro una ciucca
immarnata, o in un limbo. A sud pianure,
strade che s’inanellano, poteri
ascosi e splendidissimi: qui giovani
ardono ignari e cadono dietro gli ipermercati. Però
merli fischiano altrove fresche ariette
metafisiche, le martore
rodono allegre i cavi, e certe volpi
notturne colonizzano città tracciano segni
di cui pochi si avvedono, parole
d’ambra, forse un poco durevoli, e non bieche.
*
da Argéman (2010)
ARGÉMAN
Di valanga in valanga, scoscendendo
sul nerofumo dei prati: massi, tronchi
e tronchi portati verso il basso.
Dopo, sopra ogni cosa,
un silenzio, la luce raggelata.
Acqua che scroscia nei vuoti delle rocce,
respiro agro del tempo passato.
*
Forcola, e se qualcuno sia montato
e da che pista, lassù. L’altro versante abrupto:
sempre stato così? Quello che c’era prima o che poteva
eventualmente esistere, un progetto o una speranza
ora inimmaginabili. La perdita
di ciò che non sai più di avere perso.
*
Magra, una lepre sta immobile e guarda.
Poi scompare in un buco. Ogni parola
adesso sembra concava, implosa, una bolla
di freddo, incapace di dire. Bocca sorda,
mano senza sentire.
*
Gli strati, privi di logica, ordine. Ghiaccio
su fuoco rappreso, terriccio, poi quarzi, pietraie.
Epoche, cosmogonie, perfezioni precarie. Nel mucchio,
anche loro. Slogate.
*
Impercettibili fruscii, minimi insetti, licheni che si insinuano.
Negli interstizi, nei resti, prime vite marginali,
cenni, stelle a venire.
*
Chi passa a valle fissa alto l’argéman, la sua lingua
di neve incomprensibile, vampa.
*
Ciò che risplende e acceca. L’onda d’urto dei mondi.
*
LETTURA A KLOSTERPLATZ
per Claudio
I
Piove a piccole gocce quasi incerte; alte sul bianco
rilucono le statue di Sant’Ursus, e i loro gesti
dorati contro il cielo, precipitati di stelle.
Tu leggi, leggi bene, con calma
in questo scrigno barocco fitto sull’altipiano,
parole di laguna e di musica, e intanto lasci scorrere
la tua storia di cercatore narratore, la tua voce
ferma, segnata dal fumo e dal tempo
della vita. Più tardi, lungo l’Aare,
una folaga solitaria ascolterà distratta
altre vicende di quotidiana miseria, nella nostra
comune devastazione italiana assenza d’orizzonti
improbabile ineludibile speranza
e sua evidente scomparsa
colpevole.
II
Oggi un disperato disgraziato a Milano
uscito dal suo dolore entrato nel suo dolore
con un piccone, per strada, come sai,
al momento due morti, un terzo grave in attesa,
il cordoglio delle più o meno competenti autorità,
all’angolo gazebo di sciacalli che non meritano nomi,
e noi qui a vedere l’acqua che passa tra le rive,
nell’ombra. Ma la voce
che avevi leggendo, quella luce che correva
da parola ad ascolto, da orecchio
a coscienza di sé, Robert Walser che incede
timido nella neve e poi si sdraia,
una memoria improvvisa di Kafka: cos’è questa voce,
orizzonte imprevisto che sale più alto
di statue, ombra, luce, di noi e della nostra
storia individuale collettiva, che dice
di andare, prendere fiato e ci oltrepassa?
Ecco quello che ho letto su un muro a Lugano,
la cosa che resta del sogno: «la testa
è integra, il muro è crepato». Lo so anch’io,
non è vero; eppure qualcuno l’ha scritto, e forse
in qualche modo ci somiglia. Persino in questa
bassa marea bassa pressione bassura di tempo
cosa ci guida? Una sintassi, un ritmo?
O il pensiero dei figli,
un rullare di basso, accordi e dissonanze
non ancora non ancora rassegnate?
III
A Roma, dici ridendo, qualcuno
scambiava per egiziano te abruzzese
girovago, ti regalava
pesci secchi sottobanco,
pastelle. Anche Ursus,
secondo i libri, veniva dall’Egitto;
soldato ribelle di Roma, poi decapitato,
della Legione Tebana. Avrà apprezzato
i grassi pesci di questi fiumi del nord?
Tra ribellione e rivolta: dove collocarlo?
E dove collocare noi, naturalmente, su che rive
di che fiume smarrito, di che tempo
imperfetto.
*
da Cenere, o terra (2018)
LUCE INVERNALE
Poi finalmente si è fatto vivo il vento
da giorni e giorni in agguato dietro ai boschi:
era, prima di giungere, una luce
dura scartavetrata dentro l’aria
immobile. Ogni cosa pungeva, e da ogni margine
salivano immagini estreme, alberi visti
come da un ultimo sguardo, tagli obliqui
di polvere accecante, solitudini.
Tutto sembrava un addio: costoni alti
scissi in triangoli gialli, lame d’acqua
metalliche e lanuggini
inerti, forse di nebbie in dissolvenza,
forse di fumi lontani.
Gli occhi si socchiudevano irritati,
per colmo di bellezza o d’ozono diffuso
ovunque in quel bagliore d’inquietudine.
Ma il vento ha portato l’incendio che covava
attizzando braci invisibili, fuochi nascosti
tra i faggi, ha detto la verità, accavallato le onde
e alzato in volo gli stormi di folaghe.
Il soffio d’arsura è sceso dalle coste,
a volo per le strettoie si è gonfiato sul lago
entrando attraverso fessure, spifferi, pori
fino all’intrico dei nervi e fino ai cuori.
Si è preso tutto, il vento, dolori e nostalgia,
sogni e speranze, quiete. Ci ha lasciato
bottiglie sopra i prati, sparsi giorni
increduli, stremati. È andato via.
*
Inediti
RUINA BELFORT
In memoria P.J.
Camogli: si videro bare
smottare nell’acqua salmastra
discendere dal cimitero
per l’ultima danza scomposta.
Si vide un ruspa azzannare
il giallo di un muro che a Chiasso
fu un tempo la povera casa
di un padre silenzio d’abisso.
Si vide a Ruina Belfort
cadere un’intera montagna
e miti villaggi dispersi
tremare da tetto a cantina.
Adesso è il tuo turno di frana
amico che vai verso il nido
del fiore e che ancora sussurri
di nomade luce soffusa.
*
BOTTA E RISPOSTA SULLE OMBRE
1.
L’aquila, se era un’aquila, spaziava
roteando su torrioni di roccia
e l’ombra correva nei prati
come uno spettro rapido levando
fischi tra i sassi fughe nei cunicoli.
Poi, dopo giri e giri, finse di scomparire
per invece posarsi astuta o stanca
sullo sperone più alto della cresta,
di lì guardando a capofitto il mondo
con occhio micidiale.
Invisibile, catafratta sugli spalti,
affilava il suo rostro seguiva le prede,
ma le marmotte sapevano da sempre
trattare l’ombra come cosa salda,
non fidarsi mai, prevedere i pericoli.
Era un teatro diverso dal nostro di palude.
Spietato, più sereno. A perpendicolo
crudeltà senza male.
2
«E senza bene», aggiunge l’altro sornione, «senza
progetto di parola, senza storia: nell’eterna
sempre uguale biologia priva di gloria.
Questo rimpiangi? Questo
sostituirebbe scienza, dubbio e memoria, etica?
E la tua aquila, che forse non è aquila: se esiste
sarà un’ allegoria che a noi rimanda, o mera cosa
estranea alla parola, non lo vedi? La dici, vola via,
si mimetizza».
«Nessun rimpianto»
ribatto nervoso «resta l’ombra,
quel segno d’ombra da leggere sull’erba
come una via di fuga, un orizzonte
inarrivabile che impedisce di acquietarsi,
forse di disperare. Nel muro dell’umano una finestra
sull’oltre». « Se ti basta» non cede «ti accontenti
di poco».
«Del desiderio» gli dico, provo a dire.
«Del desiderio, della ferita e del vento».
* * *
La casa e il ghiacciaio. Per Fabio Pusterla
di Massimo Natale
[…]
Ci sono intanto due aspetti su cui ci si può concentrare, cominciando a riepilogare questo decennio, e che sembrano far virare almeno in parte la direzione della parabola di Pusterla, o che sembrano specificarla ulteriormente. Anzitutto, il tentativo – ora più chiaro – di abbracciare una modalità di scrittura intesa anche come costruzione, arte, esercizio quotidiano. A questo risponde, per esempio, la nuova attenzione alla forma metrica che mostra la sua poesia, e che appare abbastanza chiaramente nei testi inediti (si vedano le quartine di Ruina Belfort, o le sezioni I e V del Requiem per una casa di riposo lombarda, o le strofette di Luce migrante, ecc.). Ma è un fenomeno che si presentiva già nei libri più recenti – come ha notato Andrea Afribo,[1] riposizionandolo nel quadro più ampio di alcune esperienze metriche contemporanee –, e del quale resta traccia anche nella scelta a nostra disposizione (vedi almeno il sonetto caudato del Lamento degli animali condotti al macello, le strofe di Settimana dell’ombra II, le terzine non rimate di Partita, le quartine irregolari di Nahal Argeman VI, ecc.). Pusterla punta non di rado, oltre che sul piano prosodico, sulla conformazione strofica, magari manomettendola adeguatamente, sporcandola un po’ quando la pressione di un modello riconoscibile rischia di farsi troppo vicina. È forse l’indizio, questo stare e non stare con la tradizione, di un’abitudine a non coltivare troppo la Distinzione – con il suo rischio di aristocratismo – e a non perdere mai di vista, al contrario, un orizzonte comunitario. La poesia è anche momento e lingua “eccezionale”, certo, sembra dirci questo poeta, ma non dimentica mai di mescolarsi alla normalità, di vivere anche come spazio di “colloquio”, sia pure complicato, discontinuo. «La ricerca poetica mi sembra in grado di stabilire un rapporto profondo con la realtà – ha scritto Pusterla – anzi, mi pare che una caratteristica peculiare del linguaggio poetico sia appunto quella di mostrare come ciò che chiamiamo realtà sia il risultato di un incrocio di forze divergenti, ciascuna delle quali mette in campo una serie di rapporti complessi e spesso contraddittori»:[2] anche la forma, allora, dovrà dar conto di questo fascio di contraddizioni, spartendosi fra la miglior tradizione della libertà metrica novecentesca – vedi anzitutto Sereni – e un interesse non banale, d’altra parte, per certi esperimenti in proprio, piuttosto originali, di “chiusura” formale.
L’interesse per la forma può arrivare addirittura, in quest’ultima fase, al gioco combinatorio (l’autocommento parla di una specie di concessione fatta a sé stessi, specialmente per la suite di Cenere, o terra che dona il titolo al libro, e che non è tuttavia compresa in questa antologia). Eppure qualche segnale di questa new wave la poesia di Pusterla, come detto, lo conteneva già. Non cerchiamolo per forza nel solo profilo strettamente metrico, ma anche in certe attitudini profonde di questa scrittura, che ora la forma tende a rendere più evidenti, portandole per così dire in superficie. In particolare, un libro come Pietra sangue (1999) – con la sua allusione, ben esposta, a una pratica artigianale, cioè la lavorazione della scagliola o “marmo dei poveri” – suonava già come una sobria ma chiara rivendicazione di una scrittura poetica abbracciata anche come “mestiere”, intaglio, come disciplina quotidiana pronta a rinunciare a ogni privilegio, e assediata invece dal dubbio, dal suo rischio di impossibilità (ed è una radice che non abbandona mai questa poesia, se la si ritrova fra il resto nella lirica che dà il titolo al libro del 2010, Corpo stellare, il primo antologizzato qui: «Sei una cosa/che nessuna parola può dire»). E forse fa parte di questo “mestiere” anche il favore accordato da Pusterla all’architettura di testi in serie, che magari deve qualcosa – o almeno assomiglia – anche all’analoga abitudine di Giorgio Orelli, con i suoi “quadernetti”: specialmente l’Orelli di Spiracoli o prima ancora di Sinopie (per quest’ultima raccolta, del resto, Pusterla ha più volte mostrato il proprio favore e diciamo pure il proprio affetto, dedicandogli fra l’altro, ancora in anni recenti, una preziosa Prova di lettura).[3] La presente antologia, per inciso, trova intanto un certo equilibrio, in termini di rappresentatività. Cerca di dare spazio a testi che rispondono, in effetti, a una tale predisposizione alla serie, ma non rinuncia a isolare e valorizzare anche testi autonomi e compiuti, che soddisfino anche una vecchia e intramontabile necessità, forse, del lettore di poesia: la memorabilità del singolo morceau. E certo qui dentro si incontrano alcune fra le poesie più belle dell’intera opera di Fabio Pusterla.
[…]
[1] A. Afribo, Poesia italiana postrema. Dal 1970 a oggi, Roma, Carocci, 2017.
[2] F. Pusterla, Quando Chiasso era in Irlanda e altre avventure tra libri e realtà, Bellinzona, Casagrande, 2012, p. 68.
[3] Id., Una luce che non si spegne. Luoghi, maestri e compagni di via, Bellinzona, Casagrande, 2018, pp. 108-115.
[Immagine: Harry Callahan, Chicago, Trees in Snow].