di Francesca Scotti

 

[E’ appena uscito per Hacca Il tempo delle tartarughe, il nuovo libro di racconti di Francesca Scotti. Ne pubblichiamo un estratto].

 

La pace di chi ha sete e sta per bere

 

L’aria tiepida entrava dai finestrini aperti insieme al buio. Un buio fasullo, perché Tokyo non chiude mai i suoi occhi luminosi. Yoshi guidava lentamente, affrontava le svolte con dolcezza. Non erano molte le persone che a quell’ora si incontravano per strada. Troppo tardi per chi aveva passato la serata a divertirsi e troppo presto per chi doveva andare al lavoro. Giusto qualche impiegato ciondolava ubriaco di alcool o di sale giochi diretto verso la fermata della metropolitana che lo avrebbe riportato a casa. O forse si sarebbe addormentato sulla banchina, aspettando il convoglio. Da quanto tempo era che Yoshi non usciva con i suoi colleghi? Semafori, insegne, grandi schermi osservati sempre seduto in auto. Questo lo scenario delle sue notti da troppi mesi.

 

«Mariko, qualcosa non va?»

Era stata una serata mite, di quelle che avvisano dell’imminente arrivo dell’estate e Yoshi e Sofia Mariko erano andati a letto dopo un po’ di televisione. Anche se davanti allo schermo non si erano scambiati molte parole, stare stretti l’una all’altro li faceva sentire al sicuro. Lui aveva un sonno profondo, non lo disturbavano i rumori dei convogli ferroviari che passavano lì vicino e nemmeno le sirene nel cuore del buio. Ma se Mariko si agitava sotto il lenzuolo si svegliava immediatamente.

«Chiamami Sofia, sai che lo preferisco». Non lo preferiva in assoluto, dipendeva dalla circostanza. In ogni caso quella risposta lasciava intendere una lucidità differente rispetto a quella di chi si è appena svegliato solo per un brutto sogno.

Yoshi e Sofia Mariko erano sposati da poco più di un anno. Si conoscevano appena quando lo avevano deciso.

Sofia aveva incontrato Yoshi nel più banale dei modi: chiedendogli un’indicazione stradale in inglese durante il suo primo viaggio in Giappone. Era stata costretta a partire per dare l’ultimo saluto a sua nonna. Quel paese, che pure le scorreva nelle vene, non le interessava. Poi era arrivato Yoshi.

A lui era piaciuta subito: occhi rotondi e lineamenti orientali. La pelle di Mariko e la disinvoltura di Sofia. Sua madre era giapponese, suo padre italiano. Il suo nome univa, ma allo stesso tempo teneva separate le sue due identità. E quando voleva che Yoshi la chiamasse Sofia significava che si sentiva sola.

«Non ti senti bene, Sofia?»

«Non è che non mi senta bene, è che non ho sonno. E lo stesso è capitato ieri e anche l’altra notte ma non ti ho svegliato». Yoshi si era sentito istantaneamente in colpa per il torpore che, invece, lo faceva parlare biascicando.

Era così che era cominciata l’insonnia di Sofia Mariko. Eppure le tracce di ciò che aveva turbato i loro animi, la paura delle radiazioni dovevano appartenere ormai al passato.

 

Il suo fisico già esile si assottigliava sempre di più, la luce nello sguardo era velata da una patina triste. E durante il giorno Sofia era irascibile, sentiva la sua coscienza offuscata.

Non c’era sonnifero, erba medica, mistura cinese che riuscisse a risolvere quella lucidità che compariva nella sua mente dopo solo un’ora di sonno. Nell’oscurità densa della stanza da letto i suoi muscoli erano perfettamente svegli, i pensieri fluivano come se la giornata fosse iniziata.

Una di quelle notti avevano provato a fare l’amore, magari si sarebbe rilassata. Sofia aveva svegliato il corpo di Yoshi con baci desiderosi e avevano goduto nel buio. Lo avevano fatto senza dire una parola.

Il tempo di lasciare che il calore del piacere sfumasse dalla loro pelle e Yoshi già era scivolato nel sonno. Ma non lei, che invece, come unica differenza, aveva avvertito una fame vorace.

«Yoshi, avrei voglia di biscotti al cioccolato».

Lui, che aveva imparato a risponderle senza aprire gli occhi, lo fece anche in quell’occasione.

«Li ho finiti ieri, scusami».

Lei aveva sbuffato girandosi dall’altra parte.

Yoshi sentiva le palpebre pesanti, immagini inafferrabili gli scorrevano nella mente. Stava per riaddormentarsi.

«Be’, vado da 7eleven a comprarmene un pacchetto, tanto sono sveglia».

Yoshi aveva il respiro lento, ma quando metabolizzò le parole della moglie si svegliò.

«Non ti lascio uscire da sola a quest’ora. Se proprio vuoi ti accompagno io».

Fin dal loro primo incontro si era sentito in dovere di garantire la serenità di quella ragazza che sembrava ancora una bambina, di tenerla per mano e allontanare ogni spettro dalla sua strada. Ma non immaginava che lei davvero, quella notte, desiderasse uscire. E invece accese la luce.

«Allora andiamo, già che ci sono prendo anche del caffelatte».

Infilarono un paio di calzoni sotto la maglietta che usavano per dormire e salirono in auto. Dopo alcuni minuti della tranquilla guida di Yoshi, Sofia lasciò cadere la testa verso la spalla. La bocca socchiusa, un respiro ritmato. Dormiva. Yoshi, emozionato, pensò di voltare l’auto e tornare a casa, accompagnarla subito a letto. Ma ormai era sveglio anche lui, tanto valeva prendere biscotti e caffelatte per la colazione. Lei non era mai riuscita a convertirsi al cibo giapponese così come ad altri aspetti di quel posto. Ma non si confrontavano mai veramente sulla questione perché lui temeva di incontrare il suo disagio.

Yoshi parcheggiò davanti al minimarket, non chiuse l’auto immaginando che il rumore delle portiere la svegliasse. Entrò. Ad accoglierlo un odore stagnante di fritto e un giovane in divisa impegnato a leggere un manga, in piedi dietro la cassa. Nessuno dei due aveva voglia di sorridere.

Acquistò una lattina di caffelatte freddo e una confezione di biscotti. Con il suo bottino si avvicinò cauto alla macchina ma si accorse subito che Sofia non stava più dormendo.

Aprì la portiera, si sedette al suo fianco. Non disse nulla, sospirò. Una volante della polizia passò alle loro spalle silenziosa ma con i lampeggianti accessi. Si guardarono negli occhi e lui le allungò il sacchetto con i biscotti e la lattina. Sofia mangiò e bevve. «Yoshi, tu non ne vuoi?» Lui scosse la testa. Era quasi arrabbiato per averla trovata sveglia. Ma non capiva se il rancore fosse verso sua moglie o verso l’insonnia che l’affliggeva e la cosa lo turbò.

Appena lei finì quel piccolo pasto lui rimise in moto.

I semafori sembravano attivi solo per loro. «Tu domani fino a che ora lavorerai?» provò a chiederle. Non ottenne risposta così per un istante sollevò gli occhi dalla strada e la guardò. Dormiva, il capo reclinato sul poggiatesta.

 

«Non devi fermarti».

Finché lui guidava, lei riusciva a dormire. Erano le lievi oscillazioni, il rumore del motore a cullarla.

«Posso farlo», le aveva detto lui. E lo pensava davvero.

E così aveva trascorso le notti degli ultimi mesi a guidare incessantemente per i quartieri di Tokyo. Con le piogge di fine estate e i primi freddi. Aveva imparato strade nuove, conosceva a memoria le zone più illuminate e quelle meno. Sapeva quali erano i quartieri bassi da evitare e quelli come Roppongi dove incontrava sempre qualche viso per sentirsi meno solo. File di auto parcheggiate, negozi sovrapposti, edifici che si susseguivano addossati l’uno all’altro senza che se ne riuscisse a intuire la fine. Luce che colava dalle insegne giganti perennemente accese. Oppure arrivava fino a Ueno, la zona dei parchi, che nel buio sembravano dense foreste inesplorate. Non ascoltava la musica, non pensava. Procedeva in una specie di trance.

Yoshi andava a dormire subito dopo cena, mentre lei risistemava la cucina e preparava la colazione per quando sarebbero rientrati dalla notte in auto. Poi, verso l’una, Sofia Mariko lo svegliava. Lui si vestiva, lei indossava il pigiama. Si portava una coperta sottile e un cuscino di noccioli di ciliegia, l’unico che le distendesse il collo. Si rannicchiava sul sedile posteriore, lui metteva in moto. E guidava fino al mattino.

 

«Ma non preferisci che qualche volta prenda un taxi?», gli aveva proposto lei mentre separava le bacchette, prima di iniziare a mangiare quello che avevano comprato per cena.

Yoshi non avrebbe mai potuto lasciarla dormire con uno sconosciuto. Anche se quel ritmo dopo tanti mesi cominciava a fargli perdere cognizione di sé. Gli segnava gli occhi e l’umore: cerchi neri sotto le palpebre e attorno ai pensieri. Ombre che sembravano orchi con alti cappelli e gatti che sfuggivano da sotto la sua scrivania appena arrivava in ufficio.

Non le aveva risposto, limitandosi a versarle del tè. Quel sussurro liquido era l’unica voce tra di loro. Lui doveva resistere.

Sofia Mariko faceva colazione di gusto, la luce nei suoi occhi era tornata. Mentre Yoshi perdeva appetito, sentiva l’energia svanire e un’insofferenza cupa crescere.

Ma resisteva. E resistette fino alla notte in cui, guidando in compagnia di una pioggia sottile, decise di inseguire un pensiero confuso e morbido, che si mescolava a un ricordo d’infanzia. La pace di chi ha sete e sta per bere, la soddisfazione di cedere a una tentazione. In quella notte, che nascosta dalle nuvole lasciava spazio al giorno, lui chiuse gli occhi, mise la sua mano in quella dell’orco con il cappello e lo seguì.

E così si addormentò, insieme a Sofia Mariko.

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