di Francesco Ottonello e Milo De Angelis

 

Il dialogo con Milo De Angelis apparso sul secondo numero di «Bezoar – Rivista di Poesia Contemporanea» (Perrone, 2021), richiama immediatamente la suggestione indicata dal nome della nuova rivista. Infatti, dopo un primo numero incentrato sulla scelta del cartaceo e sulle riviste di poesia, si è scelto di indagare il rapporto che la parola della poesia può intrattenere con la parola legata all’ambito magico-rituale. Come ha scritto Giorgio Ghiotti nell’editoriale di apertura del I numero «Bezoar è una concrezione formatasi nell’intestino di alcuni animali, usata poi da molte culture tradizionali come pietra magica e mescolata spesso alle bevande per fungere da antiveleno» (p. 39), per cui la rivista di poesia Bezoar, con una redazione di autori nati negli anni Novanta (Stefano Bottero, Giorgio Ghiotti, Ivonne Mussoni, Francesco Ottonello, Rudy Toffanetti) si configura idealmente come un monolite pulsante di vita, aggrovigliato di poesia, con all’interno una risposta al veleno della vita stessa.

Se nella cultura sarda abbiamo una secolare tradizione tra paraulas e brebus, che distingue la parola della loquela confinata alla comunicazione quotidiana (paraula, fueddu) dalla parola magico-rituale, con un potere effettivo nel plasmare la realtà (brebu o berbu), in italiano il lemma ‘parola’ può assumere una gamma di significati.

Prima di presentare le risposte di Milo De Angelis alle domande che a livello redazionale di Bezoar abbiamo deciso di porre, può essere interessante focalizzarci sinteticamente sulle occorrenze di ‘parola’ e ‘parole’ nell’ultimo folgorante libro del poeta: Linea intera, linea spezzata (Mondadori 2021).

Tra le 22 occorrenze, la prima è «senza una parola» nella poesia Scrutinio finale, in cui è espressa la negazione della parola, con la bocca del Tu che «non attende più nessuna voce» e «tutto è silenzioso per sempre». E «senza parole» in un’altra poesia è anche il ragazzo osservato dall’Io con ammirazione (Gianni Hofer). Nell’esergo di  C21H23NO5 la «parola» viene addirittura personificata in una «antica sibilla» che è «rimasta dentro» ed è scelta «per tacere». Anche la poesia Peppino è all’insegna della negazione della parola e del silenzio già dal primo verso: «Non vi lascio parole d’amore, diari, bigliettini». Anche quando le parole si percepiscono, come nella poesia Udienza, «tu cominci a sentire, nelle parole che hai detto, il respiro / di quelle taciute». Nel finale della poesia Esselunga, la parola viene richiesta proprio per non restare nel mutismo, nell’incomprensione solitaria: «di’ una parola per noi, non restare / muto anche tu». Ancora, in 21 settembre, troviamo un’altra «cara voce» non riconosciuta, «che balbettava parole frantumate al silenzio dei pioppeti».

Accanto al silenziamento della parola in De Angelis abbiamo l’assoluto della parola e al contempo l’interruzione brusca della parola. La seconda occorrenza è nell’esordio della poesia Matita blu: «Sei stato una sola parola / troncata al culmine della primavera». Nella poesia Libertà del conosciuto, invece, è «piombato il gelo della mia parola», parola che in altri testi avrà a che fare con l’opposto: il fuoco.

Un altro legame della parola deangelisiana è con il sussurro, il bisbigliamento. Nella poesia Belle epoque è sussurrata da delle donne sonnambule «la parola Novecento», con cui si chiude il componimento. Nella poesia T.E.C. l’Io con un monito bisbiglia che le parole verranno scordate e con esse sé stesso, in un’unione inscindibile tra individuo e parola emessa: «scorderai queste parole, scorderai tutto / di te stesso». In Stapiombo abbiamo tre occorrenze di ‘parola/e’ , legate sempre al bisbiglio, al sussurrio, allo svanimento: «il ragazzo / assorto che sussurrava parole una per una»; «bisbigliò inseguendo di persona ogni parola / e ogni parola svaniva lontano, nei campi». Nel finale di Quinta tappa del viaggio notturno si intrecciano diversi sensi del valore della parola ricorrenti in questo libro. Infatti è un celebre poeta amato da De Angelis a sussurrare la parola e la sua negazione, con un gesto: «Gottfried Benn, si volta verso di te e con un gesto / lento e desolato della mano sussurra una parola / prossima al nulla».

Un altro rapporto della parola in Linea intera, linea spezzata è quello con la lontananza: la parola sembra avere un’origine remota, mitica, sempre sfuggente. Questo l’incipit della poesia Per l’Adele: «“Vedi, giungono da un’altra mente, / le parole, una mente lontana che abitava». Esemplari di questo rapporto con la parola avvolta, ombrosa e fattasi distante risultano i versi di Dialogo con il compagno: «una foschia / immerge le nostre parole nel vapore del tempo / che le porta lontano da noi». La poesia Intra sembra ribadire che per De Angelis la parola non è soltanto paraula, ma si lega a un indecifrabile brebu: infatti l’ignoto «non è parola / né silenzio, ma un fraseggio di suoni indistinti».

La parola di De Angelis ha a che fare con l’incomprensione, con l’opacità, con un fondo buio, ma anche di infuocamento lucreziano: in Seconda tappa del viaggio notturno è intonata «una canzone / dalle parole scure e a lungo durò la melodia, a lungo, / e alla fine divampò la solitudine». In Caramelle di menta la parola ha a che fare con l’ardore, infatti il vecchio allenatore di calcio «con una vampata / di parole folgorava gli ippocastani», con parole che incitano, sommuovono il reale.

Consideriamo infine la poesia che chiude il libro, Il penultimo discorso di Daniele Zanin, dove l’episodio singolo e specifico assume un portato universale, mitico, caratteristica pregnante della poesia deangelisiana. Il contesto è quello di un personaggio maschile che pronuncia dal tetto al suo quartiere un discorso perentorio a voce alta, pressoché terminale, riattraversando la sua vita (da notare ‘il penultimo’ del titolo, come se rimanesse sempre uno spaziotempo per l’ultima parola). Di fronte alle infervorate parole di accusa dell’uomo, un Oreste capovolto, in un’atmosfera di tribunale eschileo «Ognuno attende la sentenza. / Ognuno affonda nel mistero / di se stesso e guarda in alto, non sa / dove si trova esattamente / ma sa che quelle parole sono per lui». E nel finale del discorso dell’uomo la parola, dopo aver trovato il coraggio del grido, torna alla sua origine animale, tesa tra il nulla, lo strappo e il silenzio: «nell’acqua passata / e apparve l’ombra dei lupi, entrò come un arpione / nella bocca, mi tolse la parola».

 

(Francesco Ottonello)

 

 

Esistono degli elementi connettivi tra pratica magico-rituale e pratica poetica? 

 

Milo De Angelis: Esistono tra questi due mondi dei punti comuni impressionanti ma anche dei punti di radicale distanza ed è proprio questo che rende così ricco il loro incontro. Il primo punto in comune è Orfeo, mago e poeta, capace di trascinare con sé alberi e pietre e capace di far vibrare i cuori con la propria parola. Ed è Orfeo ad avviare un intreccio potente che dura da millenni e lega il canto all’incantesimo, l’analogia poetica all’analogia magica. Il punto di distanza è la ricerca accanita e interminabile sulla parola, che è solo del poeta e del suo viaggio da palombaro negli oceani sommersi del linguaggio.

La poesia, come la formula magica, può avere un effetto di trasformazione sulla realtà? Può incidere sulla realtà fenomenica e, se sì, in che modo? 

 

Milo De Angelis: La poesia trasforma chi la legge in un modo profondo e irreversibile, rendendolo capace di percepire cose che altrimenti non avrebbe mai potuto cogliere, rendendo sottilissime le sue papille esistenziali e spostando continuamente il confine stesso della gioia e del dolore.

Nella lingua sarda esiste una distinzione tra is brebus e is paraulas: la prima espressione (connessa al Verbum latino) indica le parole magico-rituali, la seconda le parole del linguaggio comune, quotidiano. La parola poetica eredita e testimonia la frattura tra queste due istanze della lingua?

 

Milo De Angelis: Forse la poesia tenta – e pretende – di ricomporre questa frattura, rivelando le forze rituali annidate dentro la parola comune e restituendo a quest’ultima la permanenza che aveva smarrito nell’uso quotidiano e nel vapore acqueo delle chiacchiere diurne, restituendole cioè la potenza misteriosa e temibile del brebu.

Che ruolo ha, al variare dei contesti (e dei testi), l’impiego delle formule fisse, di sintagmi ripetuti, proprio della forma poetica e della formula magica? 

 

Milo De Angelis: Le formule fisse riguardano l’infanzia più che l’adolescenza, riguardano un mondo poetico (Pascoli, Corazzini, Caproni) legato alla fiaba e al suo incanto  più che l’avventura spirituale di un ragazzo in cerca di se stesso. Ma in generale riguardano tutta la poesia imperniata su un nucleo ossessivo immutabile (dunque anche la mia, se questo può avere un interesse) e alla litania della formula fissa non sfugge nemmeno il Pavese dell’ultimo periodo poetico, quello di La terra e la morte, che rovescia il verso lungo degli esordi in un cadenza di singhiozzi martellanti.

«L’assenza del mago / non annulla il sortilegio» scrive Emily Dickinson (trad. Silvia Bre). La poesia, una volta composta, appartiene a chi l’ha scritta (ed è dunque possibile rintracciare una paternità o maternità del testo) o travalica l’individualità dell’autore e dell’autrice? È il poeta a scrivere la poesia o è la poesia a “scrivere” il poeta?

 

Milo De Angelis: È sempre possibile e anzi doveroso rintracciare una paternità dell’opera, ossia il nome inconfondibile di chi l’ha creata. Ma questo non significa affatto che l’opera gli appartenga. Significa che a scriverla è stato lui e soltanto lui. E significa che può diventare di tutti proprio perché il suo autore è unico, ossia perché quelle parole sono il frutto di un’avventura pericolosa e solitaria.

Come avviene nelle pratiche rituali, anche nella poesia si compie un passaggio di conoscenze e saperi? E quanto peso ha la memoria nei processi rituali e poetici?

 

Milo De Angelis: La poesia può avere un legame con il rito (per esempio con i riti di passaggio) e può avere un legame con la prassi (per esempio con l’azione politica) ma non è né rito né prassi. Il suo universo è un altro. La poesia (almeno quella che mi riguarda) è l’opera di un individuo che ha deciso di esprimere in versi il mondo e se stesso, ossia di collegarsi con i poeti che lo precedono e di trovare una nuova via dentro la grande Via già stabilita prima di lui. In questo senso avvia certamente un “passaggio di conoscenze e di saperi” che rivela un mondo fantastico sconosciuto prima di allora. E in questo senso il poeta si fonda sulla “memoria” delle opere precedenti alla sua, memoria che diventa decisiva per la creazione di un’opera originale e originaria.

Se dovessi fare il nome di un “poeta-mago”, chi indicheresti e perché?

 

Milo De Angelis: Indicherei Dino Campana: mi sembra il poeta che, più di ogni altro, ha mantenuto vivo il legame sia con le forze primitive della natura – di cui lo sciamano è portavoce –  sia con il regno notturno dell’incantesimo.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *